IL CICLO ECONOMICO
Prima di Keynes abbiamo visto che le fluttuazioni cicliche erano state spiegate o con fattori casuali imprevedibili, oppure con fenomeni di ordine monetario (ricordiamoci che i classici scrivevano all’epoca del gold standard, quindi l’impossibilità di espandere il credito, oltre una misura funzione delle disponibilità di riserve auree, generava fenomeni di fluttuazione) .
Oppure, seguendo Schumpeter, le fluttuazioni erano ascrivibili all’affollarsi di innovazioni che provocavano dinamiche deflattive le quali, congiuntamente al rimborso dei debiti contratti per finanziarle, provocavano la caduta del tasso di rendimento delle aziende e il conseguente ridimensionamento della produzione e del tasso di introduzione delle stesse innovazioni.
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Keynes innestò una terna di considerazioni empirico-teoriche, fornite da alcuni economisti prima di lui, sulla sua concezione dell’andamento di reddito, risparmi, tassi e investimenti che prima abbiamo visto. Le tre considerazioni sono le seguenti:
1) prendendo spunto dal lavoro del francese Aftalion, Keynes sostiene che man mano il reddito si avvicina alla piena occupazione, per poter garantire che l’accumulazione di capitale proceda ad un ritmo superiore alla velocità di aumento della forza lavoro (necessario per colmare il crescente divario fra redditi e consumi), allora è necessario sostituire i processi ad alta intensità di lavoro con processi ad alta intensità di capitale. Ma perchè questo sia possibile è necessario un adeguato progresso tecnologico;
2) tuttavia, seguendo Schumpeter, Keynes riconosce che le innovazioni tendono ad affollarsi in determinati periodi piuttosto che distribuirsi uniformemente lungo il tempo;
3) sempre prendendo spunto dai lavori di Aftalion e J.Clark, Keynes mutua i concetti di investimenti indotti e investimenti autonomi. I primi sono quella parte degli investimeni totali che però è direttamente proporzionale al tasso di variazione del reddito (sottolineo tasso di variazione), e comprendono tutti gli investimenti necessari per adeguare la produzione al mutato livello di reddito e anche per sostituire attrezzature e impianti obsoleti. I secondi invece non sono legati al reddito, bensì al progresso tecnologico, e corrispondono alle innovazioni schumpeteriane.
l meccanismo alla base della comprensione del ciclo economico secondo Keynes (nella formulazione esposta da A.Hansen) è perciò il seguente: man mano che, avvicinandosi al reddito di piena occupazione, i risparmi crescono più che proporzionalmente impedendo il formarsi di una domanda aggregata sufficiente a sostenere i necessari investimenti; e man mano che questi ultimi diventano sempre più inelastici ai movimenti ribassisti dei tassi di interesse (concetti già visti nel precedente articolo);e quindi anche i nuovi investimenti diventano meno innovativi e redditizi per gli imprenditori; allora la difficoltà di sostituire capitale al lavoro (punto 1 e 2, sopra) comporta che il tasso di aumento del reddito deceleri (senza ancora diventare negativo); questa riduzione nel ritmo di crescita causa anche una riduzione nell’introduzione di investimenti indotti (punto 3).
Il processo che aveva portato all’aumento del reddito si indebolisce fino ad arrestarsi e infine, trainato dalla scarsa domanda aggregata, si involve causando riduzione sia del reddito sia degli investimenti indotti (che sono proporzionali alla variazione del reddito; in tal caso non verrebbero neppure richiesti beni capitali per sostituire quelli obsolescenti). Il processo di contrazione del prodotto interno continuerebbe finchè la domanda effettiva si sia riallineata al minor reddito, con maggiore disoccupazione.
Questo processo evidenzia un’altra caratteristica (limitante) del keynesianismo: le fluttuazioni così come gli shocks sull’economia sono esclusivamente veicolati attraverso la domanda aggregata, mentre sono esclusi o piuttosto non trattati shocks dell’offerta aggregata. Lo shock dei prezzi petroliferi degli anni 70 metterà in luce questa mancanza.
PROS E CONS
1) Va notato che l’analisi keynesiana dimostra la possibilità che esista nel sistema prevalentemente un equilibrio di sottoccupazione. Tuttavia vale sottolineare che, se l’economia godesse di buona salute e il tasso di rendimento degli investimenti (in termini tecnici è il Tasso di rendimento interno, IRR internal rate of return, cui corrisponde la c.d. efficienza marginale del capitale) fosse sufficientemente alto, allora il livello del tasso di interesse necessario per stimolare maggiori investimenti potrebbe essere sufficientemente alto a evitare l’inelasticità sopra descritta.
Rimarrebbe il problema di assorbire la quantità sempre crescente di risparmio senza dover necessariamente alzare i tassi per evitarne la detenzione in forma liquida, ma a mio parere il problema non sarebbe grave, e questo dimostrerebbe in linea di principio che fuori da situazioni di grave stagnazione (e se sono disponibili innovazioni tecnologiche) sia possibile raggiungere livelli vicini al reddito di piena occupazione.
Sul problema della c.d. Secular stagnation, come descritta da Hansen, sono interessato a scrivere un articolo a parte.
2) parlando all’inizio del precedente articolo delle tre critiche rivolte al liberismo, possiamo dire che la parte relativa alla trattazione delle politiche economiche del demand management fu quella che maggiormente fiorì, mentre rimasero in stato “larvale” quelle sulla inefficente allocazione delle risorse (punto 2) e l’ineguale distribuzione del reddito (punto 3). Solo di recente la distribuzione del reddito sta diventando un problema oggetto di analisi e discussioni, e sono passati 80 anni!
Ma dietro c’è un semplice e cinico motivo: mentre l’intervento dello Stato nell’economia non ne modifica la struttura fondamentale, altri interventi correttivi delle storture viste devono per forza affrontare il problema e incidere sul concetto stesso di capitalismo e proprietà.
3) Nella teoria della moneta keynesiana c’è una evidente incongruità rispetto al comportamento microeconomico del singolo investitore: finché il tasso di interesse non raggiunge il “livello normale” tutta la ricchezza viene detenuta o in forma di titoli, oppure tutta in forma liquida (moneta), comportamento che non rispecchia le normali scelte allocative che vedono prediligere un “portafoglio” di attività in cui sono comprese una certa quantità di attività finanziarie e una certa quantità di moneta.
Inoltre Keynes considera un solo tasso, quello del mercato monetario e quindi di breve-brevissimo termine, quale unico tasso da cui derivare poi gli altri: non solo quindi quelli di tutta la struttura a termine dei tassi (ma senza alcunchè dire nè sulle attese di inflazione nè sui premi al rischio), ma anche quelli delle attività reali. Vedremo più compiutamente questi problemi con l’analisi che ne farà J.Tobin.
4) Si è sentito spesso affermare che attualmente le maggiori economie mondiali (USA, Giappone, UK, Eurozona) siano in una situazione di trappola della liquidità (Krugman in testa al corteo). Dal punto di vista della originale definizione keynesiana del termine ci sono motivi per dubitarlo.
Per Keynes infatti esiste un livello abbastanza basso del tasso di interesse tale che tutti gli operatori detengono moneta al posto di titoli, e questo impedisce che il tasso sul relativo mercato possa ulteriormente scendere. Invece attualmente non si notano i tipici effetti di fuga dall’investimento finanziario nè sono vertiginosamente aumentate le dotazioni di moneta liquida, e la preferenza per gli investimenti va tuttora alle scadenze lunghe dei titoli governativi (mentre scrivo questo è il 25 luglio 2015).
Nè è vero che la politica monetaria, arrivati a zero i tassi, abbia perso ogni altro strumento per influenzare i premi al rischio e le attese di inflazione per ulteriormente ridurre i tassi reali: esistono infatti i QE, che Keynes giustamente ignorava.
Secondo la mia opinione non vanno confusi basso livello dei tassi da un lato, e dall’altro tassi stabili per un lungo periodo (effetto della forward guidance). Anzi il fatto che attualmente le due cose accadano contemporaneamente ci è di aiuto: l’esperienza dimostra infatti che pur in presenza del zero level bound le contrattazioni di titoli proseguono, e pure a ritmo accresciuto per due motivi: 1) a causa del modesto e più rischioso rendimento delle alternative di investimento reale, e 2) degli interventi di QE e altri ripetuti interventi delle banche centrali sui mercati, che schiacciano anche i premi al rischio creando occasioni di trading profittevole per gli investitori.
Detto questo, è pur vero che – secondo una definizione più moderna di trappola della liquidità – l’azione delle banche centrali allo zero level bound sia fortemente vincolata, addirittura ostacolata si sostiene, dal timore che il rialzo dei tassi possa provocare la fuga dai mercati finanziari e questo generi turbolenze che minino la stabilità finanziaria (già tra l’altro resa fragile dalla zero interest rate policy).
La questione non è sterile e è ancora oggetto di discussione sulla esistenza o meno di tale trappola. Molto dipenderà dalla riuscita degli obiettivi inflazionistici delle politiche non convenzionali, ma allora stiamo già uscendo dal terreno teorico keynesiano su cui l’economista di Cambridge definì la “trappola”, data la sfuggente natura definitoria dell’inflazione e della sua stretta dipendenza da fenomeni tanto monetari quanto reali e dalle stesse aspettative del livello dei prezzi.
5) La teoria delle fluttuazioni economiche evidenzia che la piena occupazione possa essere raggiunta e mantenuta solo a condizione che il reddito aumenti costantemente ad un certo ritmo. Ma per farlo è unanime che venga sostenuto da una adeguata e crescente domanda per investimenti (dato che i consumi sono meno che proporzionali rispetto al reddito).
In tal modo però il sistema economico si trova sottoposto a forze contrapposte che si autoalimentano incontrollabilmente: da un lato è necessario investire per mantenere alta la domanda, dall’altro ogni investimento aggiuntivo che faccia aumentare il reddito impone che gli investimenti, necessari per mantenerlo a livello, crescano ancor di più. Si arriva in tal modo ad un livello insostenibile, almeno per quanto riguarda la possibilità di spingere in tal modo gli investimenti privati. Ecco allora che trova ulteriore giustificazione la spesa pubblica quale mezzo da affiancare agli investimenti privati. Ne parleremo approfonditamente in un prossimo articolo.