La città dell’uomo

Qualche settimana fa dovevo lasciar libera casa. Avevo sì un appuntamento sui Navigli con un amico scrittore, dall’altra parte della città, ma avevo anche e soprattutto tre ore davanti a me per attraversarla. E l’ho attraversata a piedi, uno dei tanti modi per accordare il pensiero e il respiro al ritmo del proprio passo. La testa vaga, fluttuando libera in cose minute e tu ti accorgi di quanto stia cambiando.
“Milano è una brutta e malcombinata città”, diceva l’ingegner Gadda. Ma lui era famoso per le sue collere e non tollerava affatto l’imbecillità dominante. A saperla guardare, invece, con animo meglio disposto, può succedere il contrario, può succedere che tu noti un embrione di forme intelligenti, inavvertitamente intelligenti. Può succedere di lasciarti sorprendere dalla città che cambia. E qui può esserci la tua occasione: una città che cambia, se cambia e mentre cambia, può cambiare anche te.
Una città la si cuce e la si discuce, una città la indossi a pelle e ti cambia foggia (minuscolo, di solito).

Adriano Olivetti cercò più di ogni altro di pensare la città dell’uomo. Perché una città va pensata in modo che sia docile quando sarà lei a pensare te.
E Adriano per pensarla attinse alla sua visione e a un punto fermo: per creare qualcosa di grande, qualcosa all’altezza dello spirito dell’uomo che plasma in modo cosciente una civiltà, dobbiamo rivolgerci a quanti sono migliori di noi. Un’intelligenza è tanto più grande quanto più è in grado di riconoscere la grazia e le doti superiori delle intelligenze altrui. E di farsene regista, direttore e strumento al tempo stesso. Per questo cercò, scelse e si circondò delle menti più fertili del suo tempo. E concretamente pensare e, appunto, plasmare “la città dell’uomo”. E scelse proprio questo titolo, accettando la dimensione prettamente urbana del vivere associato, per scrivere uno dei suoi libri puntigliosi e attenti nel declinare un senso di umanità che prendesse corpo finalmente e forma nella città. Mettere l’uomo al centro della città e la città al centro dell’uomo si scontra con la pochezza violenta del grande nemico del pensiero: “il pensiero non ha mentalità”. L’Italia degli anni ’50 sì, invece: di mentalità ne aveva molte, e tutte, va da sé, pregiudizievoli. La mentalità comunista vedeva in lui un ricco e un padrone, non importa se nel 1946 aveva proposto ai sindacati di comandare e di gestire direttamente la fabbrica. La mentalità culturale, quella scherzata da Luciano Bianciardi, vedeva in lui un pericoloso concorrente nell’accaparramento del Bene comune.

Olivetti sapeva bene che gli uomini non si accordano per diventare uomini migliori. La politica non funziona così, insomma, e questa idea, che aveva forse mutuato da Ezra Pound, implica invece che l’evoluzione abbia luogo molto più spesso “by accident” che non “by design”.

E qui veniamo ai giorni nostri. Chi veda milano oggi dopo vent’anni come l’ho vista e ripensata io in quel pomeriggio della mia traversata, noterà innanzitutto che i milanesi la percorrono in modo assai diverso. Il centro con l’Area C ha molte meno macchine, raramente in coda. Di queste vetture, non poche sono di Car2Go, di Enjoy e dei tanti operatori che propongono l’accesso temporaneo in car sharing. Ai taxi e ai mezzi pubblici si sono aggiunte le biciclette di BikeMi, che possono contare su una rete di piste ciclabili certo ancora precarie e parzialmente collegate, ma molto nette nel prendere atto che la milano ciclabile è diventata realtà.
Ma rispetto a venti, venticinque anni fa è l’archeologia industriale la più cambiata: le fabbriche e gli stabilimenti che tanto hanno contribuito all’identità funzionale del ‘900 vengono ora progressivamente dismesse e riattate ad altra destinazione. Interi quartieri sono in mutamento. La Bicocca di Gregotti si ritraccia intorno alla sua vecchia vocazione di porta ferroviaria merci di Greco-Pirelli, che si ritraccia nell’Hangar ma anche nel centro commerciale. Ora lo sta facendo anche la Fondazione Prada, cambiando profondamente il volto della città a Sud, tra Ripamonti, Romana, Vittoria, Ortomercato, Piranesi.

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Certo tutto è discutibile e opinabile. L’era dei Ligresti, di Mediobanca che controlla il patto in RCS si inscrive nella parte finale della parabola. Ma è una parabola più ampia e riguarda tutto il mondo: il ponte tra editoria, edilizia, banca, finanza e politica dei partiti ha perso gran parte di quella enorme presa sul mondo che ha fatto la sua storia e la sua grandezza. L’accesso all’immaginario che è al centro dell’accesso al potere in ogni sua forma sta cambiando volto. La civiltà delle macchine che Leonardo Sinisgalli aveva intuito essere al cuore di un nuovo umanesimo ha vinto. Ha vinto indiscutibilmente, ma ha preso forme molto diverse da come se li erano immaginati i nostri padri e i nostri nonni. Sono macchine molto più legate ai bit e all’intelligenza artificiale che non al grande complesso industriale alla ricerca dell’anima. I comportamenti delle persone si articolano nel vivere associato su reti che amplificano moltissimo la condivisione della conoscenza, l’accesso condiviso ai servizi,

La cosa più buffa è che il mondo nuovo è emerso dal guscio delle fabbriche quasi per sbaglio. Non credo tanto nel caso, sono molto più convinto del potere esplicativo di un modello in cui l’ordine si forma dal caos per un concorso di cause concomitanti e di variabili male allacciate tra loro che trovano rocambolescamente assetti e piani di percorrenza lungo il percorso.  Una città che cambia senza averlo deciso prima insomma, ma lungo direzioni che accumulano senso. In fondo l’eterogenesi dei fini ha trasformato un semplice telefono nella protesi più potente del nostro cervello. Gli anni in tasca in cui la fantasia ha il potere. La potenza di calcolo ha ucciso il pensiero calcolante, le conseguenze incalcolabili.

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Pubblicato da Filippo Pretolani

Non tutto quello che esiste implicitamente ha bisogno di essere reso esplicito — Peter Sloterdijk. Fondatore di Gallizio editore e co-fondatore dell’Istituto Kaspar Hauser per gli Studi Economici.

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