La fine del topo

Quasi nulla è come lo ricordavo.

Il panorama che si dispiega dinanzi ai miei occhi è certamente suggestivo e mantiene un’aggraziata bellezza, ma tutto – le antiche case del borgo ben tenute con le persiane ridipinte, la passeggiata lungo il lago sulla quale ora si affacciano molti bar, la sagoma scura delle boscose colline alle spalle  – mi appare oggi addomesticato e banalmente prevedibile, non più straordinario come un tempo. Solo l’odore è immutato, un sentore oleoso e dolciastro  con una inconfondibile sfumatura di pesce.

Il robusto cancello in ferro dal quale si accede al breve viale d’ingresso è fiorito di ruggine e si apre con l’accompagnamento di una serie di cigolii. La facciata della casa della nonna Alma è completamente celata dalle due magnolie che hanno assunto negli anni proporzioni maestose e sotto le quali sono rimasti il tavolo quadrato, le sedie e le panchette un poco discoste, come se qualcuno vi si fosse levato da poco,  la vernice bianca scrostata in più punti. Le persiane in legno sono tutte sbarrate; sui larghi gradini in pietra della breve scalinata che immette sul portico antistante l’ingresso occhieggiano piccole escrescenze di muschio.

E’ quasi primavera, il prato tutto attorno inizia a rinverdire e le chiome delle acacie e dei castagni sono cariche di tenere gemme. E’ l’immutabile ciclo della vita che si perpetua nella sua inesorabile semplicità, eppure qui tutto è immobile.

Lo è da molti anni: da quando la nonna è tornata a Milano, dove è poi scomparsa, nessuno ha più voluto mettervi piede, né la mia famiglia né quella dello zio Marco il quale addirittura rinunciò alla sua parte di eredità. La casa è ancora in piedi nella sua rassicurante solidità e il giardino non è rinselvatichito soltanto perché qualcuno è stato pagato per occuparsene, credo per rispetto nei confronti della nonna, più che altro: era la casa della sua famiglia e vi aveva fatto ritorno da Milano alla fine degli anni ’50, allorché rimase vedova.

E’ curioso come non si riesca a perdonare ad un luogo di essere stato l’innocente teatro di una tragedia.

 Partivamo appena terminava l’anno scolastico. Ci lasciavamo alle spalle gli aspri afrori della periferia milanese ed intraprendevamo quello che allora mi appariva come un lungo viaggio sul vecchio Maggiolino color berillio, tinta della quale prima nemmeno conoscevo l’esistenza e che conferiva una certa nobiltà ad un color giallo verdino freddo che pareva attrarre sulla carrozzeria tutto lo sporco di Milano. Nel ristretto bagagliaio e sul sedile posteriore si accatastavano i bagagli per una permanenza lunga tre mesi in una località lacustre, che pertanto secondo la mamma doveva prevedere e soddisfare le più ampie ed imprevedibili variazioni climatiche anche in considerazione del fatto che lei e papà non si sarebbero trattenuti, limitandosi durante quei tre mesi a sporadiche visite di un paio di giorni.

A quei tempi mi sembrava tanto lunga la strada che conduceva alla casa della nonna, che si trovava in un paesetto sulla sponda occidentale del Lago di Comabbio, sulla cui riva si affacciava.

“Dov’è che vai?”

“Sul lago di Comabbio”

“…dove??”

“…Lago di Comabbio. Si trova tra il Lago Maggiore e il Lago di Varese”,

replicavo con una certa spazientita pedanteria, offesa da ciò che ritenevo un’imperdonabile ignoranza.

La casa sorgeva in un piccolo borgo assai poco frequentato negli anni sessanta, dove la vita pareva scorrere più lenta e l’avvicendarsi delle stagioni si percepiva con maggiore chiarezza e con una sorta di primitiva sintonia.

Vi trascorsi tutti i periodi delle vacanze estive ed invernali fin dalla prima elementare. Essendo di salute piuttosto cagionevole, era opinione condivisa che l’aria buona di quel luogo mi giovasse; sicuramente mi faceva un gran bene l’inusuale libertà di movimenti di cui potevo godere, girando con i miei coetanei per quelle stradine poco o per nulla trafficate.

I ragazzini del paese, per i quali ero “la milanese”, mi trattarono dapprima con una certa diffidenza; essa si tramutò pian piano in un ruvido affetto che non prevedeva la complicità, poiché mantennero sempre un’inspiegabile rispettosa distanza. Ero la compagna di giochi che veniva dalla città e alla quale in ragione di questo tributavano un’aprioristica considerazione, senza accordarle una genuina confidenza. Rientrando a Milano, pensavo sempre a quanto fossero fortunati a vivere in un luogo che consentiva loro la libertà di andarsene da soli per le strade dopo la scuola, respirando l’odore del lago.

Qualcosa cambiò nell’estate del 1970 e fu per me quella l’ultima vacanza sul lago. Stavo vivendo il delicato, entusiasmante passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza poiché in autunno avrei iniziato il liceo, ovvero quel meraviglioso momento nel quale si prende a desiderare con ingenua sconsideratezza che il tempo scorra il più velocemente possibile, nella fretta di diventare grandi.

Quell’anno dalla nonna Alma mi avrebbe raggiunta mia cugina Laura, figlia del fratello di papà. A  Milano non ci vedevamo spesso e la scusa era che abitavamo in periferie opposte della città, ma in verità i due fratelli, profondamente diversi l’uno dall’altro, avevano sempre avuto frequentazioni differenti e dopo i rispettivi matrimoni, lungi dall’avvicinarsi, si erano ulteriormente allontanati. Laura usava trasferirsi nel periodo estivo presso i nonni materni i quali avevano una casa in Liguria, ma quell’anno uno dei due aveva qualche problema di salute, così aveva dovuto accontentarsi di quel piccolo lago.

Benché fossimo coetanee, mia cugina era sempre stata più alta di un paio di spanne di me e quell’anno, mentre io possedevo ancora una goffa incompletezza dei tratti, rappresentando perfettamente l’espressione popolana “né carne né pesce”, lei era letteralmente sbocciata ed era una florida signorina dotata di un’avvenenza acerba eppure consapevolmente maliziosa.

Fu l’incidente che avvenne il 15 di settembre, in seguito al quale mia cugina scomparve inghiottita dalle nere acque del lago, a porre fine all’estate e all’abitudine di trascorrere le vacanze nell’antico borgo. Qualcosa si disgregò, fu irrimediabilmente perduto  e quel luogo ameno e spensierato per la mia famiglia si legò per sempre al doloroso ricordo di quella morte insensata.

Negli ultimi mesi mi è capitato sovente di sognare la casa della nonna Alma. Ho rivisto il giardino ombroso e il prato che scende in un dolce declivio fino al lago, sbucando su di una piccola riva sassosa. Nel sogno è sempre l’ora del crepuscolo, quando le ombre si allungano e la luce cade morbidamente obliqua divenendo sempre più opaca, mentre la luna fa capolino in un angolo del cielo. Le persiane sono tutte spalancate e ad un tratto le finestre si illuminano, sia al pianterreno che al primo piano ed è una luce di insolita intensità. La casa sembra volermi dire qualcosa, certamente mi sta chiamando con la voce della nonna Alma e degli amichetti di quasi cinquant’anni fa. Il sogno si ripete uguale per molte notti, finché non mi risolvo a rispondere a quel richiamo. Tanto sono ormai sola da molto tempo, che altro ho da fare?

 Entro e spalanco le imposte per far entrare quest’aria ancora fresca ma mitigata dal calore di un sole gagliardo. Passo delicatamente il palmo della mano sui mobili che emanano un vago profumo di cera e mi rendo conto che Ettore e la moglie Luigina sono stati dei buoni custodi. Domani andrò a salutarli.

Ho portato con me delle provviste perché ho intenzione di fermarmi qualche giorno. L’intenzione sottintesa era quella di contattare un’agenzia per vendere infine questa casa che più nessuno della famiglia ha voluto e che non si merita tanta disaffezione, ma ora che sono qui mi sento pervadere da un inspiegabile intenerimento, come quando si ritrova dopo tanto tempo una persona che in passato ci è stata cara e si scopre di non averla mai dimenticata. Mi prenderò del tempo per decidere.

Al piano di sopra si trovano quattro camere da letto e una grande stanza da bagno, ma preferisco dormire nel piccolo vano al piano terra, dove si coricava la nonna. Si è levato il vento, lo sento frusciare tra le foglie delle magnolie e sibilare insinuandosi sotto questi vecchi infissi, ma è un’armoniosa melodia che mi trascina ben presto in un sonno profondo.

Mi risveglio che è ancora buio, disturbata da qualcosa. Il vento è cessato e ascolto il silenzio della casa. Percepisco ad un tratto un leggero zampettare che proviene dalla camera sopra a quella nella quale mi trovo. Un topolino, o forse un ghiro: ce ne sono sempre stati, tant’è che la nonna aveva un paio di gatti che giravano per casa (“rimedio naturale ed efficace”, diceva sempre).

La mattina si presenta limpida e luminosa, il lago è una tavola luccicante. Su una delle panchette in ferro sta accoccolato un enorme gatto grigio cenere il quale vedendomi sulla soglia si stiracchia pigramente, atterra con grazia sul prato e avanza tranquillo nella mia direzione, la coda ritta. Entra spavaldo in casa senza degnarmi di uno sguardo e si dirige miagolando verso la cucina. Posso solo offrirgli del tonno al naturale che pare apprezzare e lo osservo mentre si accomoda con naturalezza sulla vecchia poltrona della nonna. Sono affascinata dalla sua eleganza e dalla pacata sfacciataggine e mi chiedo se potrà essermi utile per liberarmi dalla presenza del roditore, del quale ho trovato inequivocabili tracce nella stanza dove aveva dormito mia cugina nell’unica estate in cui era stata qui.

Oggi ho fatto un giro per il paese che nella parte più vecchia non è cambiato più di tanto: molte vetuste abitazioni sono state abilmente ristrutturate, resistono un paio di botteghe dalle belle insegne in latta dipinta, sono state piazzate delle panchine in alcuni punti panoramici. Oserei dire che è più bello di prima, ma è come se avesse rinunciato al carattere “paesano” per assumere l’aspetto di un elegante e pittoresco sobborgo cittadino. Ettore e Luigina, della cui vecchiezza mi sono scioccamente stupita, mi hanno riferito con rassegnata mestizia che il paese si è svuotato: i giovani se ne sono andati, rimangono i vecchi ad aspettare di morire ascoltando il silenzio delle strade vuote e le seconde case si popolano solo nel periodo estivo.

Mi sono procurata del cibo per gatti, ma l’ospite del color della cenere si presenta solo al mattino: mangia, dorme in poltrona per qualche ora e poi se ne va, sparisce fino al giorno dopo. Nel frattempo il topo (mi è capitato di vederlo sfrecciare sul pavimento di legno  ed è un topino di campagna marroncino chiaro) spadroneggia nella stanza al piano di sopra, che tengo sempre chiusa per impedirgli di scorrazzare per tutta la casa. Trovo i suoi escrementi sul copriletto bianco, del quale ha rosicchiato l’orlo in più punti e sul ripiano del comò, oltre a udire il suo trapestio notturno. Riesce a sottrarre il pezzetto di formaggio senza far scattare lo sportello della gabbietta che ho posto nella stanza,  una versione caritatevole di trappola che mi consentirebbe di liberarlo in qualche bosco e non è servito a nulla lasciare la finestra sempre aperta, sperando che se ne andasse. Non comprendo tra l’altro di cosa sopravviva, chiuso in quella stanza.

Ho dovuto infine decidere per la soluzione più cruenta: Ettore mi ha procurato le esche avvelenate e ne ho collocate un paio. Ho letto attentamente le istruzioni e ho scoperto con una certa sorpresa che si tratta di sostanze anticoagulanti che procureranno una lenta morte causata da emorragie interne e sono un poco turbata dall’idea di ricorrere a questo metodo, che mi pare crudele.

Con questa faccenda del topo non mi sono affatto concentrata sulla questione per la quale sono venuta qui, ma sono propensa a ritenere che deciderò di tenere questa vecchia casa piena di ricordi e di elevarla nuovamente al rango di dimora estiva.

Sto ormai esaurendo la seconda confezione di esche; il minuscolo roditore, che consuma puntualmente tutti i letali bocconi, è più resistente di quanto immaginassi. Le giornate si stanno via via allungando e il sole ora è più caldo. Verso sera dal lago spira una brezza profumata ed è a quell’ora che mi piace scendere fino alla spiaggetta sassosa in fondo al prato, per sedere a contemplare l’azzurro del cielo che prima di scurire si sfuma di arancio e di rosa.

La primavera è da sempre la stagione che patisco di più: sono sovente stanca e svogliata, non dormo bene, digerisco male. Oggi osservo le nuvole grigie e basse ammassate all’orizzonte e provo un oscuro senso di oppressione e di spossatezza. Quel maledetto topo ha zampettato con singolare vivacità per tutta la notte ed inizio a dubitare che quel veleno sia efficace, poiché parrebbe al contrario avere un effetto corroborante sulla bestiola.

Il gatto grigio, ora Mister Pym perché è sicuramente un maschio e mi sono stufata di chiamarlo Gatto, si è ormai stabilito qui, ma la notte preferisce vagabondare. Mi chiedo che ne sarà di lui alla fine dell’estate quando rientrerò a Milano e mi balena l’idea che potrei anche rimanere qui per  sempre.

Con il suo fascino intrigante ed i suoi modi fin troppo disinvolti Laura aveva portato lo scompiglio nel gruppetto di ragazzini e ragazzine del paese che ero solita frequentare. Ne erano completamente ammaliati, maschi e femmine, e il mio prestigio all’interno del gruppo si era velocemente appannato, fino a scomparire del tutto. Mancavano appena due settimane alla fine delle vacanze ma quell’anno non me ne importava nulla; non vedevo anzi l’ora di tornare a Milano e iniziare il liceo: gente nuova, nuove abitudini. Non sopportavo più quel gruppetto di sempliciotti che sbavavano dietro i calzoncini troppo corti di Laura, stesi come dei tappetini ai suoi piedi. Non mi avrebbero mai più rivista.

Così, in quel tardo pomeriggio di cielo ancora cupo dopo un paio di giorni di pioggia, rimasi accovacciata sui sassi della spiaggetta ad osservare mia cugina che si agitava pochi metri più in là, nelle acque già fonde, chiedendo aiuto. Soffriva di crampi alle gambe, la cretina, non avrebbe dovuto buttarsi nel lago in quel punto, sempre percorso da una corrente gelida. Ma io non glielo avevo detto. Avevo atteso fino a quando la superficie dell’acqua non era tornata piana, poi mi ero immersa vicino alla riva bagnandomi completamente ed ero corsa verso casa a dare un tardivo ed inutile allarme.

 Da due giorni mi alzo dal letto solo per aprire la porta a Mister Pym, somministrargli il suo cibo e trascinarmi fino al piano superiore, nella camera che fu di Laura, per lasciare sul pavimento un paio di bocconi avvelenati. Il copriletto è ormai pieno di buchi e oggi non ho davvero la forza di raccogliere i soliti escrementi. Ho dei terribili bruciori di stomaco, la febbre e la dissenteria. Scruto nello specchio del bagno il mio volto grinzoso dal colorito itterico e mi accorgo allora delle molteplici petecchie sulle braccia, sulle gambe che a malapena mi reggono e persino sulle cornee.

Credo che fuori ci sia un bel sole ma non ho aperto le imposte e ho freddo, un freddo che mi gela le ossa. Mi rifugio nuovamente sotto le coperte battendo i denti e mentre mi rannicchio Mister Pym balza leggero ai piedi del letto e rimane seduto come una piccola sfinge indecifrabile, a fissarmi con quei vitrei occhi gialli. Giurerei che accanto a lui vi sia un piccolo topo marroncino e comprendo allora con limpida certezza che rimarrò in questa casa, per sempre.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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