La guerra di Nino, parte prima: da Fabbrico a William Creek

« Assistiamo all’inizio di un processo di riparazione e punizione dei torti tale da ricordarci come, sebbene le macine di Dio stritolino adagio, stritolino in particelle finissime » (Affermazione di Winston Churchill durante un suo discorso alla Camera dei Comuni nel febbraio 1941 per riferire sugli sviluppi dell’offensiva britannica in Africa orientale)

Nino era nato in una numerosa famiglia di contadini a Fabbrico, un borgo rurale nella bassa padana dell’Emilia. Il suo fisico pareva forgiato dall’asprezza di quella terra, fredda e umida d’inverno, sovente avviluppata da nebbioni fumanti che salivano dal fiume tanto spessi da far perdere la strada di casa, e torrida d’estate, quando sole e siccità spaccavano il terreno con larghi solchi che conferivano al paesaggio un aspetto marziano.

Non era molto alto ma era forte, con spalle larghe e muscoli definiti, temprato com’era dalle fatiche quotidiane del lavoro in campagna. Aveva un volto spigoloso dominato dal naso leggermente aquilino, occhi vivaci di un castano chiaro cangiante e capelli biondi portati lunghi un  po’ per incuria ma molto per sfida. Il fazzoletto rosso intorno al collo, tratto caratteristico di tutti i maschi della famiglia, rispondeva più alla necessità di palesare la propria posizione politica che a quella di tergere il sudore durante il lavoro.

Nino amava quella terra rude ma generosa e soprattutto amava il fiume, sul quale trascorreva ore in solitudine con canna da pesca e guadino.

In relativa incoerenza con le sue posizioni politiche, sognava l’America delle Rocky Mountains e le praterie degli Oglala Sioux, ed era affascinato dall’elastica eleganza  di Fred Astaire. Quando poteva, Nino la domenica alimentava queste fantasticherie nella sala cinematografica del paese, dove proiettavano spesso pellicole western e musicals.

La vigilia di Natale del 1940, giorno del suo ventesimo compleanno, ricevette il telegramma con la notizia che avrebbe dovuto imbarcarsi con un contingente in partenza per la Cirenaica.

Fu subito tentato di fuggire, di darsi alla macchia e vivere di pesca e di caccia – avrebbe saputo farlo senza difficoltà, potendo ragionevolmente contare sulla solidarietà di molti parenti ed amici – poiché non voleva rischiare la pelle per una guerra della quale non gli importava nulla. Dopo lunghi conciliaboli con il padre ed i fratelli, lo dissuase il timore di eventuali (probabili) ritorsioni nei confronti della sua famiglia. Così si rasò a zero i lunghi capelli e partì, dopo un ruvido abbraccio a genitori, fratelli, zii e cugini e a Poldo, il bracco fedele compagno di molte battute di caccia. Non era gente avvezza alla commozione, era piuttosto gente abituata ad attraversare i nubifragi della vita proseguendo il cammino con la testa bassa e le spalle curve, come a voler proteggere la parte più intima del proprio essere.

Nino era stato assegnato alla Divisione di Fanteria Sirte. In gennaio fu trasferito in treno da Bologna a Napoli e lì imbarcato su un grande bastimento con destinazione porto di Bengasi. Da Bengasi avrebbero proseguito a piedi fino a Tobruch, dove le truppe anglo – australiane cercavano di prendere il controllo dell’avamposto, difeso da una linea italiana indebolita dagli attacchi iniziati già da qualche settimana.

Il bastimento italiano toccò terra libica nella notte del 21 gennaio 1941, e fu immediatamente circondato da una divisione dell’esercito australiano. Nino fu fatto prigioniero insieme ai suoi  compagni e a tutto l’equipaggio; poche ore dopo, nel pomeriggio del 22 gennaio 1941, gli italiani si arresero cedendo il controllo di Tobruch agli inglesi e agli australiani.

Gli italiani catturati furono presto deportati come prigionieri di guerra in Australia e lì smistati nelle ex colonie penali disseminate sul vasto suolo australiano. Risalivano all’epoca della colonizzazione inglese, quando praticamente l’intero territorio era utilizzato dagli inglesi come luogo di deportazione e di pena per i colpevoli conclamati di reati che non prevedevano  la condanna a morte, ma i lavori forzati.

Dopo un viaggio interminabile, nel corso del quale Nino ebbe modo di riflettere sull’ironia della sorte, poiché prima di partire aveva gridato a un grigio cielo invernale sull’aia di casa

“non voglio sparare neanche un colpo di moschetto per ‘sto boia di un esercito fazista”,

giunse al campo di prigionia di Holsworthy, nel Nuovo Galles del Sud.

Nel giro di qualche giorno, necessario alla schedatura e ad altri adempimenti formali, i prigionieri vennero assegnati a vari lavori sulla base delle necessità contingenti ma anche delle condizioni fisiche, delle capacità e delle esperienze peculiari: molti vennero destinati alla realizzazione di opere edili e di manutenzione e salvaguardia ambientale, altri furono destinati ai lavori agricoli, altri ancora vennero affidati ai proprietari di cattle stations (grandi allevamenti di bovini e di ovini) dislocate nell’outback, i quali potevano presentare richiesta di prelevare prigionieri per impiegarli  come manodopera dietro il versamento  di una somma settimanale al Governo (somma notevolmente più bassa del costo di un bracciante australiano), con l’obbligo di corrispondere loro vitto, alloggio ed un irrisorio compenso giornaliero.

Fu proprio questa la sorte che toccò a Nino, e la sua destinazione era William Creek, nell’outback dell’Australia Meridionale.

La sua nuova vita al Lone Gum Cattle Station con la famiglia Thompson ebbe inizio una luminosa mattina di fine febbraio, mentre l’estate australiana rifulgeva ancora in tutto il suo feroce splendore, a bordo di una rumorosa jeep che lo portò via dal campo di Holsworthy, attraverso la cintura del bush e più all’interno verso l’outback, costeggiando un tratto della catena montuosa Flinders Ranges  e così percorrendo oltre duemila chilometri in un paesaggio che lo abbagliò per la sua sfrontata e multiforme bellezza.

Attraversò immense distese di vegetazione arbustiva ingentilite da boschetti di eucalipti, nelle quali branchi di brumbies, i discendenti rinselvatichiti dei cavalli importati dagli inglesi, scorrazzavano in libertà. Percorse chilometri  di terra rossastra dove fantasiosi pinnacoli rocciosi parevano simboli di qualche antico rito, vide canguri rossi e wallaby che dedicavano loro non più di un attimo di vigile curiosità, e scorse anche inquietanti lucertoloni che parevano dinosauri in miniatura. Al tramonto giunse ai piedi delle Flinders Ranges. Lasciata Holsworthy, in tutto il giorno Nino aveva scorto pochissimi insediamenti abitativi.

I due uomini che lo avevano prelevato dal campo di prigionia e che si erano alternati alla guida della jeep per tutto il giorno fermarono l’automezzo al bordo della pista e prepararono l’accampamento per la notte, dopo avergli offerto del pane casalingo con del formaggio cheddar, giallo e molto saporito ma rammollito dal caldo e della birra Coopers, pure calda. Non sapendo una parola d’inglese ma essendo conscio della sua condizione di prigioniero Nino si limitava a sorridere, quando gli rivolgevano la parola, e a ringraziare per ogni cosa che gli veniva offerta: i due  parevano gentili ed amichevoli, e si sforzavano di farsi capire con una mimica vivace ed una gestualità enfatizzata che a tratti li faceva apparire addirittura cerimoniosi.

Nino si distese su una ruvida coperta, sotto un cielo blu cobalto rischiarato da una fulgida luna e da miliardi di stelle e non trovò nulla che potesse far pensare che quello stupefacente paesaggio potesse avere limiti o confini. La notte risuonava di molti piccoli rumori, ma le cime frastagliate delle Flinders erano una presenza rassicurante, e Nino si addormentò sognando l’avventura.

Ripartirono alle prime luci dell’alba, e un altro giorno trascorse su strade sempre più polverose, con macchie di vegetazione via via più bassa e più rada: ormai erano nell’outback.

Verso il tramonto, raggiunsero un minuscolo abitato – poche case, un bar, l’ufficio postale, un emporio, una piccola chiesa. Un cartello recitava “WELCOME TO WILLIAM CREEK”.

Avanzarono ancora per una trentina di chilometri. Nino vide dapprima dei vasti recinti, ma a parte uno provvisto di tettoie, che ospitava alcuni cavalli, erano tutti vuoti: ancora non sapeva che in quei luoghi il bestiame era allevato allo stato brado ed era libero di muoversi alla ricerca di pascolo su un’estensione territoriale enorme, ed i recinti venivano utilizzati solo per la marchiatura e per la selezione degli animali da vendere.

Poi scorse la fattoria, dove la grande casa padronale a due piani, con un ampio patio che correva lungo l’intero perimetro, stava al centro di un’aia grande il doppio di Piazza Maggiore (Nino era stato una sola volta a Bologna, e quella piazza rappresentava il suo concetto di ampiezza), ombreggiata da qualche acacia dalla larga chioma a ombrello e da alcuni eucalipti solitari (“lone gum”, per l’appunto). Tutto attorno, alti capannoni per il ricovero dei camion per il trasporto del bestiame, per i pick up,  per le jeep e per gli attrezzi, e le basse abitazioni spartane destinate ai mandriani, dietro le quali una  cisterna serviva una fila di docce e di lavelli sotto una tettoia e due baracche con i servizi igienici.

La donna energica e sorridente che lo accolse (avrebbe scoperto in seguito che era Rose Thompson)  lo squadrò con occhio esperto, girò sui tacchi piantandolo in piedi all’ombra del patio e tornò poco dopo con le braccia cariche di indumenti e di biancheria.  Lo condusse ad una delle baracche, gli fece cenno di entrare e depositò tutto sul letto; continuava a parlare ma Nino la guardava con aria smarrita.

Non aveva capito una parola di quello che la donna gli aveva detto, ma stava pensando che sapeva fare il contadino, il pescatore, il cacciatore, ma lì c’erano solo arbusti, cavalli e forse da qualche parte bovini o pecore, che avrebbe potuto fare, se non riparare steccati e cose del genere?

La donna sparì di nuovo e tornò poco dopo accompagnata da un uomo tarchiato che dimostrava una quarantina d’anni. L’uomo gli sorrise e gli tese la mano:

“e così sei il prigioniero italiano. Io sono Aldo, sono emigrato qui da Milano più o meno vent’anni fa. D’ora in avanti sarai la mia ombra: ti insegnerò l’inglese e il mestiere di drover, cioè di mandriano”.

L’animo di Nino si distese, mentre il cielo sopra la sua testa si tingeva di pennellate di rosa sfilacciando nuvole arancio su quell’orizzonte sterminato ed un gruppetto di uomini a cavallo faceva ritorno alla fattoria, sollevando una nube di polvere rossastra.

La famiglia dei proprietari, originari di Adelaide, era composta dai tre fratelli Thompson con le rispettive consorti. Il fratello maggiore Ned aveva una cinquantina d’anni e sua moglie Rose pochi di meno; avevano due figli, il sedicenne Walt e Lucy, coetanea di Nino. Gli altri due fratelli,  Robert e John, erano più giovani e avevano entrambi due figli maschi in età scolare. Le mogli aiutavano Rose e Lucy nella conduzione della grande casa, dove vivevano tutti, e degli alloggi dei mandriani; si occupavano della cucina e dell’istruzione dei bambini, poiché a William Creek non c’era una scuola, ma non era infrequente che lavorassero con gli uomini, soprattutto nel periodo della marchiatura e della vendita del bestiame. I Thompson possedevano circa 50.000 capi di bovini sparsi  su un territorio di 120.000 ettari intorno a William Creek. Tutto il lavoro di gestione del bestiame e di manutenzione varia era svolto da una squadra di 8 uomini, composta dai tre fratelli Thompson e da Walt, da Aldo che era fisso ormai da anni e da altri tre mandriani stagionali, tra cui Nino.

Nino imparava in fretta: era avvezzo alla fatica ed al contatto con la natura e gli animali, che rispettava ed amava. Non gli ci volle molto per riuscire a stare in sella in maniera accettabile e per capire come interagire con i compagni e con i cani per radunare o per tagliare le mandrie; nel giro di qualche settimana assimilò un inglese essenziale e piuttosto povero di sfumature, colorito da un buffo accento emiliano, ma comunque tutti lo capivano e lui incominciava a capire gli altri.

Era fondamentalmente  un solitario, eppure gli piacquero subito la silenziosa complicità e l’affiatamento derivanti dalla necessità di una stretta collaborazione, di una assoluta intercambiabilità e dalla condivisione del tempo e della fatica. La sera cenavano tutti insieme nella grande cucina (quando non erano talmente lontani da dover bivaccare in un campo improvvisato, con cani e cavalli vicini e un fuoco acceso per tenere lontani dingo e serpenti) e poi trascorrevano qualche momento in relax sotto il patio, a fumare e conversare.

Durante quelle chiacchierate serali Nino aveva scoperto che Aldo aveva abbandonato Milano, la casa di ringhiera a Porta Vigentina ed un posto di lavoro sicuro nella Società del Tramway (Aldo era conducente dello storico Gamba de Legn) perché era un irrequieto che aveva bisogno di orizzonti più ampi. Di sicuro, lì ne aveva trovati. Aveva preso la cittadinanza australiana, aveva trascorso qualche anno nei vigneti del Nuovo Galles del Sud, poi si era trasferito nel Queensland e aveva lavorato nelle piantagioni di canna da zucchero. A Bundaberg aveva conosciuto un mandriano di passaggio e aveva deciso di seguirlo nell’outback. Non male, per un ex tramviere milanese. Quando era arrivato al Lone Gum si era subito trovato bene con i Thompson, gente rustica ma generosa e gentile, e alla fine si era fermato.  Sulla sua decisione di fermarsi aveva certamente influito anche Miss Sarah Pendleton, figlia del vecchio titolare dell’emporio di William Creek, con la quale coltivava da anni una bizzarra quanto solida relazione, che nessuno dei due aveva fino a quel momento sentito la necessità di trasformare in una convivenza di qualche tipo.

In certe fresche serate di maggio, Nino si lasciava affascinare dalle storie di Aldo, mentre qualcuno imbracciava una vecchia chitarra e incominciava a suonare, accompagnato dalle voci degli altri: perché era un canto che tutti conoscevano, che apparteneva a tutti e che tutti legava a quella terra e a quella vita.

A Fabbrico era giunta la notizia che il bastimento sul quale viaggiava Nino era stato catturato da un contingente anglo – australiano, ma nessuno sapeva dove fossero stati deportati i prigionieri, né vi era modo di reperire ulteriori informazioni. Verso la fine del ’43 la famiglia di Nino, con quattro figli che si erano aggregati ai  Partigiani sugli Appennini ed il quinto prigioniero in un posto tanto lontano da non poterlo nemmeno immaginare, incassava ancor più profondamente la testa nelle spalle e cercava di andare avanti, mentre la campagna soffriva per la mancanza di braccia giovani e diveniva sempre più avara, come se si risentisse per l’improvvisa mancanza di attenzioni…

(…continua, sabato 8 agosto 2015)

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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