La libertà non vive nel vuoto

No, la libertà non vive nel vuoto.

Mafe ed io teniamo questa rubrica di viaggi, di sogni e di vacanze più o meno viaggiate e più o meno immaginate, ma davvero non me la sento di far finta di niente.
Avere carta bianca, godere della fiducia  più ampia dell’editore che ci ospita non cancella le responsabilità. Viviamo tempi radicali e violenti e per questo oggi mi sembra necessario parlare del fondamento di ogni viaggiare. Per capire.

Provo innanzitutto a definire il viaggio.

Il viaggio è un’esperienza non delegabile in cui un vissuto si imprime nella memoria e nella parte più intima di una persona; allo stesso tempo il suo viaggiare lascia un segno, una traccia, un dato più o meno tangibile, più o meno significativo nei luoghi toccati dal viaggio. Ogni viaggio lascia traccia, ogni viaggio ha una sua orbita tracciabile e tracciante.

In queste settimane migliaia di persone abbandonano il loro spazio di appartenenza per chiedere asilo, aiuto e soccorso in altri paesi, paesi in cui la loro vita ha più speranza di durare, di lasciar traccia e di avere un senso. Avviene da sempre, da quando la guerra esiste, da quando esiste l’istinto di sopravvivenza, dunque da quando esiste l’essere umano.

Possiamo arrivare a dire che l’attraversamento senziente dello spazio, la consapevolezza del nostro abitare mobile, è parte integrante della natura umana.
I presupposti percettivi e cognitivi della esperienza topologica sono gli stessi nel caso del viaggio come in quello dell’esodo. Siamo sicuri di sapere cosa significa abitare? Cosa significa trasferire il proprio vissuto da un luogo a un altro?

La libertà non vive nel vuoto.

Il senso profondo in queste parole di Adriano Olivetti ha a che fare con la possibilità stessa di abitare uno spazio (fisico e politico) in quanto esseri umani, col riconoscimento dei principi di possesso, accesso, passaggio, ospitalità, accoglienza che sono il presupposto sostanziale della libertà. Lal libertà è declinata in un abitare, nel nostro essere qui in quanto umani. Non c’è bisogno di spiegare proprio oggi quanto poco di astratto o di teorico possa risuonare in questi temi. Ciò che invece viene messo in questione è un altro aspetto: siamo sicuri di aver pensato a sufficienza questi presupposti personali della libertà? Cosa ha a che fare la nostra percezione personale e collettiva dello spazio e del tempo con i diritti che accordiamo e neghiamo a noi stessi e dunque agli altri su di essi?

Ciò che è pensato può essere dispensato, dice Riccardo III nella voce di Carmelo Bene. Siamo sicuri di aver pensato a sufficienza il nostro essere qui e ora, e anche la percezione che ne abbiamo?

Siamo infinitamente qui in quanto esseri finiti.

Se non comprendiamo lo statuto individuale e primario del nostro abitare, ben difficilmente potremo disporne per gli altri, con gli altri. Sono temi profondamente radicati nella natura umana, sono anzi alla base della nostra formazione in quanto individui. La scuola, l’educazione delegano ogni statuto di spazio alla geografia e alla geometria. Attraverso le discipline: l’educazione civica e la geografia miscelano territori e diritti. Ricordate quando ci sono state spiegata la Costituzione, la cittadinanza? L’Italia, confini e diritti.

Eppure effettuando un po’ di ricerca storica sulla didattica e la pedagogia libertaria, mi accorgo che geometria e geografia troppo spesso non sono impartite e insegnate in modo fertile ai bambini e ai ragazzi. Già Eliseo Reclus, grande geografo anarchico di fine ottocento, denunciava l’inadeguatezza delle carte geografiche per imparare la geografia: la mente fanciulla non ha le basi cognitive né quelle matematiche per mediare l’astrazione di un piano bidimensionale rispetto alla Terra che è un godo tridimensionale.

Reclus, citando il suo maestro Ritter, arrivò a consigliare la proibizione delle carte geografiche nelle scuole (pdf), preferendo un’esperienza diretta, un impossessamento fisico cognitivo dei luoghi tramite il camminare.

Certo oggi la diffusione ubiquitaria della god view, nell’era delle immagini via satellite e delle mappe interattive in tempo reale, sta dando vita non solo a una nuova cartografia ma a un possibile nuovo statuto nel nostro modo di guardare e di viaggiare il mondo.

Se però  non abbiamo le categorie mentali per designare cosa siano la geografia e la geometria è davvero difficile riuscire a costruirci sopra una mappa delle libertà.

La posta in palio per i geografi anarchici era ben più alta: non riconoscendo la sovranità degli Stati nazionali e denunciando il sopruso della geografia politica come strumento ideologico di asservimento dell’uomo sull’uomo, Reclus e compagnia miravano a insegnare la libertà di un mondo in cui è l’individuo a doversi prendere la libertà e la responsabilità di istituire un modo libero di abitare, di convivere, di ospitare gli altri esseri umani.

Allora mi chiedo: non saranno questi i temi in questione nei rivolgimenti che stiamo vivendo? In giorni in cui basta una decisione unilaterale della Germania per revocare improvvisamente lo statuto dell’accoglienza europea non stiamo mettendo in discussione il concetto stesso di confine e di sovranazionalità? In giorni in cui il libero articolarsi disintermediato della fiducia tra le persone rende superati decenni e a volte secoli di pratiche condivise non staremo superando il patto sociale che delega agli stati nazione il monopolio dell’istituibilità delle relazioni sociali?

Da quando abbiamo dei microcalcolatori ipersostenti in tasca siamo attentissimi a registrare le novità che riguardano l’occupare lo spazio misurandone il dato: fotografiamo, misuriamo e registriamo noi stessi sempre e ovunque in tempo reale col quantitative self; registriamo le tracce degli oggetti e le accumuliamo alla caccia di informazione utile con la Internet of Things.

Stiamo mettendo a punto nuovi protocolli per reintermediare la fiducia alla base delle transazioni personali, economiche e finanziarie con le block chain. Tutto molto vero, molto innovativo e molto potente.

Ma se non ci poniamo domande radicali su cosa vuol dire attraversare il pianeta come portatori, negoziatori e sanzionatori di diritti temo sarà difficile diventare gli uomini felici nuovi e nuovamente sulla Terra.

photocredit Sarah Lawrie

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Filippo Pretolani

Non tutto quello che esiste implicitamente ha bisogno di essere reso esplicito — Peter Sloterdijk. Fondatore di Gallizio editore e co-fondatore dell’Istituto Kaspar Hauser per gli Studi Economici.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.