“2 novembre 1975. Dopo una notte senza luna un’alba livida si sta levando sull’Idroscalo di Ostia. Sullo sterrato melmoso adiacente alla baraccopoli dove il proletariato romano trascorre le sue derelitte vacanze estive giace il cadavere di Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista ed intellettuale da molti giudicato scandaloso. Anche se il vero scandalo è il mistero che tuttora avvolge la sua morte: uno dei tanti misteri d’Italia”.
Pioveva ancora.
Cadeva una pioggia fitta, insistente e sporca, che invece di lavare le strade e i muri di quella periferia stanca pareva aggiungervi pennellate di scintillante sudiciume, decisa a voler annientare qualsiasi speranza di riscatto. Attraverso la cortina d’acqua si distinguevano le sagome buie dei palazzoni bassi, squadrati e tutti uguali di via Arsia che sorgevano intorno all’ITIS Feltrinelli (“la Feltri”, come si usava chiamare lì a Vialba l’istituto tecnico). Il debole chiarore che rischiarava le finestre di qualche insonne aggiungeva un tocco spettrale alla notte autunnale.
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Era già tardi e non aveva voglia di uscire, ma d’altronde non poteva farne a meno: c’era una questione da sistemare, e lo avrebbe fatto quella notte.
No, lei non sarebbe finita come sua madre, bella ragazza della Barona che si era sposata giovanissima e incinta con un perdigiorno, una faccia da spender poco, come aveva sempre detto il nonno, cioè uno inaffidabile, che per non pagare avrebbe anche potuto rubare. In effetti suo padre era sempre vissuto in bilico tra il lecito e l’illecito, con l’affare che avrebbe cambiato la vita a tutta la famiglia sempre lì a portata di mano, eppure imprendibile. Era saltato di mestiere in mestiere senza mai durare, tanto che lei aveva trascorso infanzia e adolescenza nelle case minime perché campavano a malapena e il Comune (misericordioso) aveva assegnato loro 28 mq in via Zoagli: scatoloni grigi di spazi angusti, servizi igienici fuori casa in comune con gli altri inquilini, stretti balconi con il parapetto in cemento che guardavano su un cortiletto infangato d’inverno e polveroso d’estate. Nel ’63, mentre sua madre sfioriva precocemente e si spaccava schiena e mani lavando le scale e facendo le pulizie in un paio di alberghetti di infima categoria (di fatto alberghi a ore) in viale Espinasse, suo padre vagava per la città e se ne tornava a casa sempre più spesso ubriaco e arrabbiato con la vita, che si ostinava a sottrargli ciò che gli spettava.
Dopo la scuola, dato che a casa non c’era nessuno, lei raggiungeva a piedi il grande campo nomadi che stava tra Quarto Oggiaro e Baranzate. Nella sua classe alla scuola elementare General Cantore di via Mambretti c’era una piccola zingara che le altre alunne prendevano in giro perché all’ora di merenda, quando loro traevano dalla cartella l’involto di carta oleata con la focaccina tonda oppure la banana o (qualche rara fortunata) il Ciocorì Motta, quella aveva sempre un sacchetto con una michetta e un pezzo di formaggio. Le compagne, sciocche e poveracce figlie di poveracci pure loro, ridevano e non sapevano che la zingarella abitava in una roulotte molto più confortevole di molte delle loro misere case e poteva trascorrere il pomeriggio giocando libera per il campo e per i prati circostanti. A lei invece piaceva molto quella bambina dalla pelle bruna e dagli occhi scuri e vivaci, con i capelli neri sempre legati in una lunga treccia, che sapeva correre, saltare, arrampicarsi e fare la lotta come un maschio e così erano diventate amiche. Era una strana amicizia fatta di lunghi silenzi e di corse nei campi incolti intorno alla ferrovia, di sorrisi complici e di piccoli segreti.
Un bel giorno, dopo una settimana di assenza della zingarella da scuola, la maestra annunciò alla classe che non sarebbe più tornata tra loro. C’era una nota di malinconia nella sua voce, e le bambine ne percepirono la tristezza e ne ebbero rispetto. Quel pomeriggio stesso lei corse al campo e domandò ad uno dei fratelli della zingarella perché sua sorella non sarebbe più venuta a scuola.
“Perché è morta”,
disse il ragazzino, stringendosi nelle spalle scarne. Il padre era lì, un uomo alto e ombroso, con la barba che lo faceva sembrare un orco ma con occhi chiari e gentili ed ebbe pena delle lacrime che rigavano il viso impietrito di quella bambina che aveva visto spesso gironzolare assieme alla figlia. Così si avvicinò, le prese le mani e mormorò:
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“Anche lei ti voleva bene”.
Pochi mesi dopo e benché appena quarantenne morì il padre, che si era ammalato di cirrosi. Tornò a casa da scuola e trovò sua madre che piangeva, abbracciata al corpo inerte del marito: non aveva mai smesso di amarlo, nemmeno quando si era resa conto che era un fallito. Anzi, cosciente della sua fragilità, lo aveva amato ancora di più. Quel giorno decise che da grande avrebbe fatto il medico e non avrebbe lasciato morire nessuno.
In realtà non poté permettersi di studiare medicina e dovette accontentarsi di un diploma di infermiera, subito dopo il quale incominciò a lavorare all’ospedale dei bambini di via Castelvetro. Nel ’70 lei e sua madre riuscirono ad ottenere dal Comune un appartamento in una della case popolari di via Arsia e poterono lasciare il lugubre monolocale di via Zoagli: non si spostarono di molto, ma nel nuovo alloggio avevano il bagno in casa, un cucinotto, il soggiorno e una camera da letto. Pochi mesi dopo la madre andò a servizio da un anziano notaio in Corso Sempione, e tornava a casa solo la domenica. Stanca di saltare su e giù dagli autobus per andare e venire da via Castelvetro, considerato che le capitavano anche turni di notte, con i primi risparmi prese la patente e si comprò una 500 usata e nelle sere di giovedì, sabato e domenica, sempre che non fosse di turno, passava a prendere due colleghe di Affori e insieme andavano a ballare.
Lo aveva incontrato per la prima volta l’autunno precedente al Trianon, sala da ballo in Galleria De Cristoforis che originariamente era annessa all’Hotel del Corso in Corso Vittorio Emanuele, la cui magnifica facciata in stile floreale, scampata ai bombardamenti che nell’agosto del ‘43 colpirono gran parte del Corso, fu prelevata ed inserita in un edificio moderno in Piazza Liberty. Era sabato sera e il complesso che suonava sul palco in fondo alla sala aveva il curioso e profetico nome “La luna nel pozzo”.
Il cantante e chitarrista, in jeans e giacchetta di pelle nera, era un bel ragazzo che aveva lunghi capelli castani ondulati, il viso squadrato ammorbidito dalla bocca piena e dalla fossetta sul mento, il fisico atletico dalle spalle larghe. Quando iniziarono i lenti incominciò ad ondeggiare con grazia sul palco seguendo la musica e lasciò che il suo sguardo liquido e carico di promesse vagasse pigramente sulle coppie che danzavano abbracciate. Lei lo guardava e lo ascoltava cantare, mentre ballava con uno sconosciuto con i capelli unti e la camicia che puzzava di fritto. Fu subito certa che quello sguardo e quelle parole fossero per lei e seppe che quello era l’uomo che voleva, per una notte o per sempre.
https://youtu.be/Y3xEfzScUAQ
Se dal padre aveva ereditato l’eleganza indolente che conferiva un certo fascino alla sua persona altrimenti insignificante, sebbene graziosa, dalla madre aveva inconsciamente appreso l’ottusa ostinazione, così rimase lì fino a quando non incominciarono a riporre gli strumenti. Lo osservò scostarsi i capelli dalla fronte ravviandoli con le dita mentre scendeva agilmente dal palco e le andava incontro. Quando le fu di fronte
(è molto più alto di come mi sembrava)
percepì un leggero odore muschiato e vide che aveva gli occhi del colore dell’ambra. Gli disse solo
“ti ho aspettato”
e lui sorrise lusingato e senza meraviglia, e il sorriso gli spianò la fossetta sul mento e ne aprì due piccolissime ai lati della bocca. Rispose semplicemente
“bene, allora andiamo. Mi chiamo Max”.
“…Sofia”.
Salutò i compagni che se ne andarono su un furgone scassato con la scritta a pennello “La Luna nel Pozzo” che campeggiava su entrambe le fiancate e la seguì, insinuando con qualche difficoltà la sua anima lunga sul sedile del passeggero della 500. Quella notte, nel piccolo appartamento in via Jean Jaures nel quale Max viveva, a pochi metri dal Naviglio della Martesana, in una stanza con il pavimento in pendenza dalle pareti color amaranto e dal soffitto blu dove c’era solo un grande letto di fronte ad una parete a specchio, Sofia si sporse oltre il bordo del pozzo e vi scorse la luna.
Max in realtà era Gaetano ed era venuto a Milano un paio d’anni prima lasciando Rodi Garganico insieme agli altri quattro componenti del gruppo, suoi compaesani, alla ricerca del successo in campo musicale. Era stato ben presto chiaro che il massimo che potevano sperare era ottenere ingaggi mensili con compensi modesti per suonare nelle sale da ballo milanesi che proponevano musica dal vivo, rassegnandosi a riprodurre ballabili e lenti che andavano per la maggiore. Mentre gli altri si trovarono un lavoro e continuarono ad esibirsi nel tempo libero, sacrificando riposo e svago per qualche lira in più, Max si ostinava a comporre musica inseguendo il pezzo con il quale sarebbe diventato famoso e realizzando a spese proprie dei promo che sottoponeva alle case discografiche, senza averne alcun riscontro. Nonostante i vaglia inviati di tanto in tanto dai genitori lontani, faticava a pagare l’affitto dello squallido appartamentino nel quale viveva e allora capitava che si cercasse un lavoro saltuario e che facessequalche serata accompagnandosi con la chitarra in certi locali sui Navigli, ma non mollava, perché non era più Gaetano, ormai era Max, l’artista provvisoriamente squattrinato ed indiscutibilmente dotato e fascinoso in attesa del suo momento di gloria, e non era più possibile tornare indietro.
Sofia prese a seguire “La Luna nel Pozzo” di sala in sala: dopo il Trianon fu l’Old Fashion, poi le Rotonde di Garlasco e poi la Nuova idea (fu questo per molto tempo l’unico locale gay a Milano, situato all’Isola, all’angolo tra via Melchiorre Gioia e via De Castilia, dove c’erano una sala discoteca ed una balera e ci si muoveva dentro scenografie oscillanti tra Almodovar e Fassbinder). Max si lasciava amare con superiore condiscendenza e per quanto Sofia non ne fosse del tutto cosciente, era costantemente in ansia e spesso aveva la sensazione che lui fosse come acqua tra le dita, acqua che travolge e non si ferma.
Un giorno che era a casa sua, mentre lui dormiva aprì alla portinaia che aveva suonato alla porta. Mentre la donna le porgeva il pacco della tintoria che aveva ritirato la settimana prima e per il quale reclamava la restituzione dei soldi, cercò salvezza dall’imbarazzo nella distrazione provocata dall’accentuato strabismo dei suoi occhi cerulei e seguì l’occhio divergente, inseguendo un punto di vista lontano. Pagò e ritirò gli abiti e quando lui si svegliò attese un ringraziamento che non arrivò, come non arrivò mai per tutte le volte che gli diede i soldi per pagare l’affitto dopo aver raccolto dal pavimento il sollecito che il padrone di casa doveva aver passato sotto la porta.
Arrivò agosto e partirono per Rodi sulla 500. Lui la presentò ai suoi e dormirono insieme in casa dei genitori, la presentò ai cugini ed agli amici d’infanzia, le fece scoprire la costa garganica e la Baia delle Zagare, con la lunga scalinata che scendeva a mare. Lei si accorse che lui raccontava ai compaesani la sua vita milanese con parecchie licenze poetiche e non poche esagerazioni, ma cercò di non farci caso. Ma quando tornarono in città, qualcosa incominciò a cambiare.
Non poté ignorare il suo annoiato distacco, né il suo sguardo che quando suonava vagava irrequieto per la sala e poi catturava gli occhi di qualche ragazza che stava al gioco, ed incominciava quella sfacciata schermaglia carica di sottintesi che le era ben nota. Per quanto cercasse di trattenerla, l’acqua sfuggiva sempre più veloce tra le sue dita serrate.
Finché una sera, guidata da un’insopportabile inquietudine, smontando dal turno alla una di notte cambiò programma e invece di andare a casa a dormire andò ad aspettarlo in viale Alemagna, davanti all’Old Fashion. Lo vide uscire poco dopo abbracciato ad una bionda vistosa, li seguì fino in via Jean Jaures e li vide entrare in casa. Rimase a lungo in macchina ad ascoltare il frastuono di qualcosa che stava rovinando, da qualche parte dentro di lei e pensò che in fondo aveva sempre saputo che sarebbe arrivato quel momento, fin dalla prima sera. Finalmente fu tutto chiaro: si figurò Max con dieci anni e diversi chili in più, frustrato nelle sue ambizioni artistiche ma intrappolato nel suo ruolo e patetico nella sua cronica infedeltà. Forse un giorno sarebbe tornato ad essere Gaetano, e lei sarebbe stata lì a raccogliere i miseri cocci dei sogni infranti di Max. No, non avrebbe fatto la fine di sua madre, non sarebbe andata a fondo insieme ad un fallito: avrebbe spezzato quell’irragionevole catena.
Salì in auto e guidò lentamente dentro quella pioggia, dentro quella notte scura.
Era la una passata quando arrivò all’Old Fashion: non mancava molto al termine della serata, il complesso avrebbe salutato il pubblico e Max l’avrebbe raggiunta per tornare a casa. Si accorse che lui aveva bevuto troppo ma quando entrarono nella stanza dalle pareti scure cercò di non fare caso al suo alito caldo ed impastato e lo strinse forte a sé pensando che sarebbe stata l’ultima volta, perché era scesa in fondo al pozzo per scoprire che quel luminoso alone non era la luna, ma solo il suo ingannevole riflesso.
Poi, stette lì a guardare il suo corpo abbandonato sul letto, un braccio pendeva di lato e il sangue che gocciolava dal polso che lei aveva tagliato con una lametta si raccoglieva in una pozza che defluiva lentamente seguendo l’inclinazione del pavimento, mentre il letto si impregnava del sangue che scorreva dall’altro polso.
Si era mosso appena quando aveva affondato la lametta (che aveva preventivamente disinfettato, perché era un’infermiera), bloccandogli delicatamente le mani: il Tavor che aveva sciolto nell’ultimo bicchiere di vino lo aveva fatto piombare in un sonno pesante ed irrevocabile. Del resto, non voleva che soffrisse, voleva solo spezzare un legame che non avrebbe mai potuto recidere diversamente. Il cuore di Max smise di battere la mattina del 2 novembre del 1975, quando una luce opaca filtrava dalle tapparelle sconnesse dell’appartamento in via Jean Jaures e i milanesi si preparavano per la visita ai cimiteri cittadini. Sofia raccolse le sue cose, rivolse un’ultima occhiata alla stanza, a tutto ciò che conteneva e che aveva contenuto ed uscì in strada, dirigendosi verso la Martesana.
Pioveva ancora, una pioggia fastidiosa e triste che rimbalzava sulla superficie del Naviglio: acqua sull’acqua, che si mescolava e si confondeva e correva via, lasciando solo il silenzio di una domenica mattina d’autunno.