La schiavitù dell’articolo 18

Nel 1815, mentre in Europa si teneva il Congresso di Vienna, necessario a riorganizzare i rapporti di forza dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, l’economia americana godeva ancora di una “fonte di energia” che in Europa era sparita da tempo: gli schiavi.

La schiavitù fu abolita per gradi, siamo abituati a ricordare come evento-cardine la vittoria dei nordisti di Lincoln a Gettysburg nel 1863 o -meglio- il XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti nel 1865. Ma questa è una semplificazione.

Le prime iniziative di limitazione della schiavitù negli attuali USA risalgono al 1787 quando la Costituzione americana introdusse il “divieto di importazione di persone” (con decorrenza posticipata al 1808). Ci fu così sia una accelerazione nella tratta per sfruttare gli ultimi anni a disposizione per questa pratica, sia una spinta alla procreazione (prima una schiava gravida era un danno), perché i figli degli schiavi erano automaticamente di proprietà del loro padrone. Ma ci fu anche una parte dell’economia nazionale che prese atto della novità pensando a come riorganizzarsi senza poter più far leva sul lavoro degli schiavi.

Le limitazioni alle “importazioni” provocarono un aumento dei costi nella tratta di schiavi e questo portò a ulteriori indurimenti nel trattamento delle persone assoggettate, finendo verosimilmente per contribuire a creare un sentimento di sdegno per come gli schiavi venivano trattati; ma secondo alcune riletture la fine dello schiavismo, più che per ragioni politiche o di consenso popolare, avvenne per ragioni economiche.

Possedere uno schiavo significava, infatti, dargli un alloggio, nutrirlo e provvedere alle sue necessità, anche quando gli schiavi erano ammalati o invecchiavano, indipendentemente dalla dimensione del raccolto. Laddove lo schiavismo fu accantonato iniziavano a proliferare attività strutturate su una flessibilità dei costi a seconda di quanto era prolifica la stagione, contando su lavoratori motivati (e dunque più produttivi). Inoltre la tipologia di attività economiche era molto diversa: gli stati del Nord erano più popolosi del sud e la loro economia era di tipo mercantile e finanziario; viceversa al Sud le attività principali erano basate sulla grande produzione agricola legata soprattutto alla raccolta del cotone che richiedeva una elevata intensità di manodopera.

Il modello della schiavitù, dunque, si rivelava meno efficiente con lo scenario economico che stava prendendo il sopravvento, il che ebbe riflessi nella maggior forza dei paesi del Nord, fattore che ha condotto alla loro vittoria nella guerra civile. Non a caso, infatti, una delle argomentazioni tipiche della difesa dello schiavismo, da parte degli ideologici confederati, era che di fatto i padroni trattassero i loro schiavi meglio di quanto i capitalisti del Nord facevano con i loro lavoratori.

[tweetthis]Lo schiavismo è finito semplicemente perché antieconomico? E l’#articolo18?[/tweetthis]

Ad avvalorare questa visione, che considera il “costo” del lavoro umano come fosse una risorsa energetica, c’è anche una coincidenza: nel 1859, poco prima dello scoppio della guerra di secessione, un evento dirompente faceva il suo ingresso in scena, con l’entrata in attività dei primi pozzi petroliferi. Finiva un’epoca e ne iniziava una nuova…

Chi etichetta la modifica (potremmo dire sterilizzazione) dell’articolo 18 come la creazione di “schiavi moderni“, fa una allusione suggestiva e di gran presa popolare, ma in contrasto a questa suggestiva ricostruzione degli accadimenti della Storia.

Il Senato Italiano ha approvato ieri il provvedimento-delega sul Lavoro, il cd. Jobs Act, che contiene modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, estensione degli ammortizzatori sociali, nuove regole per l’Aspi, cambiamenti nelle norme sui controlli a distanza, introduzione del contratto a tutele crescenti. L’obiettivo del provvedimento è di creare un testo organico di disciplina delle varie tipologie contrattuali per rendere obsolete le collaborazioni coordinate e continuative.

Naturalmente il demansionamento rimane una fattispecie del mobbing e pertanto è applicabile solo in caso di ristrutturazione o riconversione aziendale (non a piacimento, insomma).

Se da un lato preoccupa -molto- il tema del controllo a distanza e del possibile uso degli strumenti di lavoro (PC e telefoni) per sorvegliare le attività del dipendente, registriamo con favore l’ampliamento dell’Aspi, cioé gli indennizzi per chi perde il lavoro. La speranza è che in un ragionevole lasso di tempo questa voce vada a sostituire (fino ad eliminare del tutto) la Cassa Integrazione, strumento che rende più vischiosi i rapporti e finisce per danneggiare il rientro nel mondo del lavoro di chi è rimasto tagliato.

“L’Italia cambia davvero, è la volta buona”

Questo è il claim del Governo. La disoccupazione intanto è su livelli da record storico: le condizioni ideali per vedere già nel breve se il Jobs Act saprà dare una spinta concreta.

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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

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