La sottile linea rossa

La suprema abilità non consiste nel vincere cento battaglie, ma nel piegare il nemico senza combattere la guerra.

Sun Tzu, L’arte della Guerra, ca. 500 a. C.

 

Troppa debolezza o troppa violenza nuocciono: bisogna congiungere fermezza alla moderazione.

Confucio, ca. 500 a.C.

 

La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra.

Mao Ze Dong, 1927

L’immagine della violenza appare esclusa o poco frequente nella rappresentazione della Cina. La percezione prevalente si forma su un mondo pacifico e pacificato, armonioso e mite, rispettoso delle forme e della compostezza. Le visioni sono generalmente fisse, ma anche quando riproducono i movimenti, sembra che essi appartengano all’ordine naturale delle cose. Non c’è stridore, è assente il clangore, come se sia lo scorrere del tempo – non la tensione, sicuramente non la violenza – a causare gli eventi. Anche gli eroi, gli atleti, i manifesti della propaganda mostrano forza e determinazione; i loro avversari soccombono ma non si vedono soffrire. Soprattutto nella rappresentazione femminile prevalgono la grazia, la leggerezza, se non la sottomissione e la deferenza. Questa situazione è il risultato di secoli di cultura, depositata come polvere su se stessa, fino a costituire uno strato ormai spesso e imperforabile. Deriva dall’incrocio di vari fattori, dei quali 2 sono i più importanti. Il primo è l’immagine di stabilità favorita da una classe dirigente conservatrice e spesso reazionaria. La violenza è bandita perché deroga dall’ordine imposto dal cielo attraverso l’imperatore, sconfigge la regolarità dei passaggi dinastici, offre un esempio pericoloso a chi si vuole ribellare. La continuazione sul trono ha bisogno di pace, di una gestione lubrificata ma rigorosa dei rapporti sociali, di scadenze accettate e fatidiche, come il ciclo delle stagioni. In seguito, questa visione è stata fatta propria dalle potenze coloniali che hanno studiato e invaso la Cina. La percezione apparteneva al classico “orientalismo”, l’idea occidentale di un mondo diverso, remoto e per questo spesso incomprensibile. Le tensioni di una società moderna erano sconosciute, la lotta di classe un fenomeno prematuro senza la rivoluzione industriale, la violenza urbana lontana per un mondo ancora contadino. Fino a quando la comunicazione contemporanea non ha smentito il passato, le immagini prevalenti della Cina non contemplavano la violenza: cinesi sorridenti che correvano con il risciò, bufali placidamente immersi nei fiumi, risaie terrazzate e verdi, Buddha impassibili che davano serenità. Il paese appariva un immenso Shangri La: povero, esotico, mistico, senza la violenza della storia, estraneo alle tensioni del progresso, destinato a riscattarsi culturalmente prima di poter crescere.

Un’analisi così insufficiente sorprende per la sua durevolezza. Tra le tante convinzioni che la globalizzazione ha rimesso in gioco, questa probabilmente cancella un’immagine consolidata ma sicuramente parziale. Le vicende umane della Cina sono infatti intrise di violenza. Oppressione, sfruttamento, miseria, discriminazioni, uso della forza nelle mura domestiche, nei luoghi di lavoro, nei campi di battaglia, nelle carceri, nelle scuole sono le mille sfaccettature che il fenomeno ha assunto nei secoli. Soltanto da pochi decenni – quando le cronache corredate dalle foto non erano più negabili – è emersa questa complementarietà alla percezione di una Cina non violenta. Henri Cartier-Bresson ha trasmesso immagini devastanti degli ultimi giorni della guerra civile, i fotografi di guerra hanno tramandato l’orrore dell’occupazione giapponese, le cronache hanno diffuso la durezza del maoismo e la rinuncia a qualsiasi forma di democrazia. Oggi non è più possibile gabellare la realtà con gli stereotipi, sostituire l’analisi con lo schieramento. La Cina non è un paese più o meno violento di altri; cambiano soltanto le forme che la violenza assume. Non ha un Dna pacifico o aggressivo, ma dei rapporti che si sono fondati nella storia. È in essi che vanno cercate le modalità comportamentali, da applicare sia nei legami quotidiani che nei valori fondanti della società. Dovunque, anche in Cina, il confine tra pace e guerra è labile, così come quello tra violenza e dialogo, tra il bene e il male. Li divide il punto di vista, l’unico in grado di stabilire il confine di una sottile linea rossa.

L’opposto della violenza. Le sue radici sono antiche, il retroterra nobile, le spiegazioni prestigiose. La professoressa Enrica Collotti Pischel , nel famoso “Storia della Rivoluzione Cinese”, ricorda che la supremazia tecnologica era radicata in Cina. Lì erano state inventate, tra altre, la polvere pirica e la bussola. Il loro uso fu pacifico: con la prima si perfezionarono i mortaretti per celebrare il capodanno cinese; con la seconda si migliorò la geomanzia. Nella scienza cinese il fengshui consentiva di posizionare il nord e di stabilire i campi magnetici più propizi nella costruzione di edifici. Questa scelta non commosse e non fu condivisa dalle potenze marinare dell’Europa. La polvere armò l’artiglieria, la bussola impresse uno sviluppo fortissimo alla navigazione e alla conquista. Sembrava inverosimile, ma il piccolo Portogallo sconfisse la Cina e conquistò Macao, che detenne fino al 1999. Era il 1557, data d’inizio della conquista coloniale dell’Asia. La Cina era grande, forte, attrezzata; le sue scelte politico-sociali la videro inginocchiata ai cannoni portoghesi. Dopo pochi decenni, nel 1644, la dinastia Ming cadde sotto il peso della sua inettitudine. Fu sconfitta duramente dai mancesi del nord, ma la motivazione adottata era conveniente alla conservazione. Come se fosse un passaggio indolore, senza traumi i Qing sostituirono i Ming. Semplicemente e classicamente era scaduto “il mandato del cielo”, pronto a essere trasmesso ad altri governanti. Il sangue, le spade, le razzie dei villaggi erano consegnate alla cronaca ma dimenticate dalla storia.

Anche oggi è forte il tentativo non di eliminare la violenza, ma di celarla il più possibile. Gli ultimi 3 presidenti e segretari del Pcc hanno adottato parole d’ordine che favoriscono l’inclusione, l’unità, la sinitudine, la stabilità, il nazionalismo. Non c’è nessun appello alla lotta di classe, alle tensioni sociali, agli espropri, al radicalismo delle posizioni. Gli eredi di Mao Ze Dong sanno che il loro paese ha bisogno di altre priorità, da perseguire con vigore e severità, ma sempre il nome del loro maestro. Jang Ze Min ha avviato la “Teoria delle Tre Rappresentanze”, dove tutti gli esponenti della Cina – le forze produttive, la cultura, il popolo intero – erano chiamati a unirsi sotto la direzione del Pcc per l’interesse supremo della nazione. I capitalisti, nemici storici di un’organizzazione comunista, sono blanditi per entrare nei suoi ranghi. La distanza con le requisizioni, l’ardore dell’Armata Rossa, l’organizzazione della violenza contadina dei tempi di Mao è abissale. Hu Jin Tao ha teorizzato la “società armoniosa”, dove la spettacolare crescita del Pil scandiva il benessere diffuso; non allontanava le differenze sociali ma le squagliava all’interno di una prospettiva generale e di lungo periodo. È analoga l’ambizione di Xi Jin Ping di realizzare un Chinese dream, un sogno per tutta la Cina di essere, dopo 2 secoli, forte, prospera, temuta e rispettata. L’esercizio della forza, della violenza se necessario, deve rimanere appannaggio esclusivo dello stato e dei suoi apparati.

Nella vita quotidiana la violenza non è una parte fondamentale della dinamica sociale. Ovviamente la attraversa, ma la ricerca di soluzioni che la escludono tende sempre a prevalere. Ricorrere ai tribunali per dirimere una contesa è l’estrema ratio. Va cercata la mediazione con il consenso, con l’aiuto dei saggi che costellano la letteratura cinese. L’anzianità fa merito, la cultura giudizio. Le dispute si risolvono riservatamente. Se proprio è necessario giungere nelle corti, meglio risolverle nei corridoi, prima di presentarsi davanti al giudice. L’antagonismo non è ricercato, la dialettica è consentita quando trova una sintesi, non se dà luogo a interminabili antitesi. In aggiunta, la violenza criminale è percentualmente molto bassa, decisamente minore di quanto le dimensioni del paese e le sue contraddizioni lascino presagire. La sicurezza ambientale è forte; sono lontani gli assetti di alcune città latino-americane o africane. Le inferriate alle finestre, gli stazionamenti armati davanti a banche e gioiellerie sono quasi assenti. Nei limiti delle percentuali statistiche, non esistono ghetti o zone impraticabili. La sicurezza personale, almeno negli spazi pubblici, presenta standard alti e consolidati. La durezza della repressione non spiega la vastità del fenomeno. In tutta l’Asia estremo-orientale la violenza delinquenziale è percepita come un fatto estraneo alla società. Può essere presente, ma non risulta endemica e soprattutto non trova alcuna benevolenza analitica che ne giustifichi l’esistenza.

La violenza. Il percorso della Cina è innervata di violenza, anche qui “levatrice della storia”. Le rivolte contadine hanno attraversato il paese con regolarità e spietatezza. Quando non esistevano altre soluzioni per porre fine allo sfruttamento e al giogo feudale, l’unica scelta era la ribellione. La più famosa di esse, la titanica jacquerie dei Taiping, durò 15 anni a partire dal 1850. Un esercito irregolare conquistò larghe porzioni di territorio, diede vita a un nuovo stato – il “Regno Celeste della Grande Pace” – e varò riforme radicali a favore dei contadini. Praticamente tutta la Cina meridionale era in mano ai rivoltosi. L’imperatore non esitò a chiedere aiuto ai nemici esterni – gli eserciti britannici e francesi – per sconfiggere la rivoluzione. La repressione fu violentissima, spietata e metodica: si stima che colpì tra 20 e 30 milioni di persone, prevalentemente civili. Fu una delle più grandi carneficine della storia. Ancora oggi la rivolta dei Taiping, pur nelle enormi differenze politiche con l’insurrezione maoista nelle campagne, è considerata la prima rivolta organizzata di massa e la repressione come il rantolo di una dinastia corrotta, il colpo di coda che ne confermava la debolezza, piuttosto che dimostrarne la forza.

Il Novecento ha visto il moltiplicarsi della violenza, l’acuirsi degli scontri, la tecnologia militare al servizio delle ideologie. Il suo battesimo si è avuto con la rivolta dei Boxer nel 1900, il suo epilogo con la repressione seguita agli incidenti di Tian An Men del 1989. Nel primo caso i rivoltosi cinesi avevano pugni e pugnali, mentre le potenze straniere usavano le carabine e la dinamite. Nel secondo, i carri armati erano tutti cinesi. L’occupazione giapponese iniziata negli anni ’30 ha registrato una brutalità i cui ricordi non sono sbiaditi a tanti decenni di distanza. Il massacro di Nanchino ad opera delle truppe nipponiche ha raggiunto stime di 300.000 vittime, passate a filo di spada, fucilate e morte di stenti in poche settimane. Una violenza più sottile e ugualmente spietata ha avuto luogo nella Manciuria occupata dal Giappone, dove in isolati campi di concentramento si conducevano esperimenti batteriologici sui prigionieri. Eppure le vittime cinesi avevano anche carnefici cinesi. Le insurrezioni popolari si trasformavano in bagni di sangue. Quella di Shanghai del 1927, scrive André Malraux ne “La condizione umana”, è impregnata di una violenza inarrestabile, che culmina con gli operai comunisti gettati vivi a bruciare nelle locomotive dalle truppe ormai nemiche dei nazionalisti di Jiang Je Shi. Proprio in un’intervista con lo scrittore francese, Mao Ze Dong descrive la sua formazione politica: “Avevo conosciuto la grande carestia di Changsha con le teste dei rivoltosi tagliate e conficcate in cima ai pali. A tre chilometri dal mio villaggio, certi alberi non avevano più corteccia fino a quattro metri di altezza; gli affamati l’avevano mangiata”.

Il periodo maoista non pose fine alla violenza, né avrebbe potuto farlo. Essa divenne uno strumento, talvolta un valore quando il suo controllo diventava labile. La società pacificata era considerata un’ipocrisia, bisognava usare la violenza per porre fine alla violenza, i fucili per sconfiggere il pericolo della guerra. Negli anni della ricostruzione non mancarono le requisizioni, gli arresti, le campagne punitive. I metodi erano forse più blandi della tradizione, ma certamente non rispettosi dei diritti umani; cambiava soltanto la prospettiva: la costruzione di una società ugualitaria e dunque teoricamente senza la violenza dello sfruttamento e della disuguaglianza. Il fanatismo raggiunse l’apice nella Rivoluzione Culturale (1966-76), quando addirittura Mao incitò le Guardie Rosse a “bombardare il quartier generale” del partito da lui – ironicamente e tragicamente – presieduto. Milioni di cittadini sono stati inviati a lavorare nei campi, chi per punizione, chi per educazione. Non si contano i processi popolari nel clima di isteria collettiva, le denunce personali e familiari, gli arbitri, le distruzioni di templi e di ogni simbolo del passato. Le istituzioni che avrebbero dovuto garantire la giustizia erano annichilite proprio per l’imparzialità che le ispirava. Era sufficiente, obbligatorio appartenere alla giusta posizione politica; per questo la terzietà era inutile: le Università di diritto erano chiuse, i giudici sostituiti da poliziotti e militari, la professione di avvocato inconcepibile. La Cina di oggi, il paese dei record, nasce da queste sofferenze, da esse ha tratto la lezione di quanto l’antagonismo possa condurre a lutti e sopraffazioni.

Eppure la Cina contemporanea è tutt’altro che esente da violenza. La lotta di partito è ripresa anche con l’eliminazione fisica degli sconfitti, ma è soprattutto nella vita giornaliera dove compaiono i segni di una società ferita. Le differenze sociali sono altissime, misurate dalla disparità di reddito, di propensione ai consumi, di accesso alle migliori Università. Secondo l’indice di Gini, nella Cina la distribuzione della ricchezza è più disuguale che negli Stati Uniti. Gli arricchimenti si basano sugli espropri dei terreni, sulla discriminazione dei lavoratori emigranti, sulle condizioni dell’intera catena del lavoro. L’alienazione è fortissima nella “fabbrica del mondo”. La divisione internazionale del lavoro ha imposto un’incessante produzione di merci, a scapito dei labour standard e dei diritti sindacali. È siderale la lontananza tra i lavoratori e il loro interesse verso la merce che sono costretti a produrre. I suicidi degli operai della Foxconn sono soltanto l’esempio più eclatante di una violenza meno cruenta ma parimenti efficace. Permane inoltre la sopraffazione che deriva dalla gerarchia. Le donne continuano a subire la violenza domestica, anch’essa figlia di una consuetudine che affonda le radici nel mondo contadino. L’emancipazione ha riguardato milioni di donne, che statisticamente rappresentano tuttavia una minoranza. Un destino secolare le confina ancora alle violenze di genere. Soltanto alla fine del 2014 è stata varata una legge contro le percosse in ambito familiare, trasferendone la sfera privata in quella pubblica e dunque assicurandone la punibilità. Esiste in aggiunta l’uso della forza da parte dello stato che talvolta assume le forme più aggressive. I licenziamenti per gravidanza, la malthusiana politica del figlio unico, gli spostamenti territoriali di interi villaggi, la repressione del dissenso, la manipolazione dell’informazione. Negli anni ’90, nell’arretrata provincia dell’Henan, spregiudicati affaristi, collusi con le autorità, hanno incoraggiato i contadini a vendere il loro sangue. La promessa di un guadagno immediato ha fatto trascurare le più elementari norme di profilassi. Contagiandosi, migliaia di cittadini si sono ammalati di Hiv/Aids. Ne è seguita un’epidemia mortale che tuttavia è stata tenuta nascosta per proteggere i responsabili. Quando il governo è intervenuto, nel 2003, la violenza aveva causato livelli inimmaginabili di dolore e disperazione. La violenza interetnica ha infine conquistato le prime pagine per le sue dimensioni. In Tibet ma soprattutto nello Xinjiang abitato dalla popolazione locale turcofona e mussulmana, la convivenza pacifica non riesce a prevalere. Le tensioni legate alla sinizzazione dei territori, con influsso di immigrati cinesi, sta conducendo a manifestazioni di protesta che assumono la forma di attentati sanguinosi e di dure repressioni.

La Cina presenta dunque, anche nel caso della violenza, numerose contraddizioni. Smentisce ancora una volta l’immagine di un paese conservatore e immutabile. Per alcuni versanti, dimostra capacità di garantire la stabilità, il dialogo, la mitezza. Per altri, dimostra che ricorrere alla forza è l’unico antidoto per continuare a reggere il timone del paese. Non sono la presenza o l’assenza di violenza che possono distinguere la Cina. Come in tutti gli altri paesi, possiede forme che appartengono a entrambe le modalità. Ciò che probabilmente distingue la Cina è la zona grigia tra sopportazione ed esplosioni di violenza, tra il senso di disciplina e la liberazione da tutti i vincoli. Talvolta si è sopresi dalla rassegnazione, altre dalla radicalità della violenza, come se la rivolta contempli la liberazione degli istinti oltre che degli ideali. È la conseguenza di non saper gestire situazioni complesse, della disabitudine a muoversi in territori misti. Le società industriali dell’occidente reprimono e insieme convivono con la violenza. Sono coscienti che la modernità la produca, ma la considerano un effetto collaterale, ineliminabile anche se circoscrivibile. Si tratta di un’ammissione di impotenza che però limita i danni, di un cedimento ideologico che ancora la Cina non può accettare. Occultare la violenza è più facile che riconoscere che sia parte integrante della società: significherebbe ammettere la propria debolezza, un esempio di maturità che la Cina non è ancora in grado di dimostrare.

Articolo apparso sulla rivista monografica dell’Arel “Violenza”
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Pubblicato da Romeo Orlandi

Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia. Professore di Economia della Cina e dell'Asia. Esperto di globalizzazione. Autore, editorialista, relatore a convegni.

2 Risposte a “La sottile linea rossa”

  1. L’ho letto con interesse. L’ ho scorso con voracità, come quando si legge un romanzo storico con nel pensiero l’attesa di un finale da favola: E vissero tutti felici e contenti.
    Come nelle migliori soap opere americane.
    Così non è stato e mentre cerco di immaginare la vita della classe meno ambiente mi chiedo come facciano a vivere così a 90°, e sono felice di essere nata in un Paese come l’Italia che nonostante non nuotiamo nell’oro, non viviamo nel lusso (almeno il ceto medio-basso), ma almeno lo facciamo su un cielo su cui sventola la parola Libertà. Prima fra tutte la Libertà di parola. La Cina potrà rivestire i suoi grattacieli di oro e di platino nella speranza di coprire così le nefandezze di cui si macchiano i suoi governanti e tutti coloro che li appoggiano. In cosa è diverso lo stato cinese dal nazismo? Anche sotto il fascismo in Italia le carceri erano quasi vuote di ladruncoli e delinquenti… ma erano pieni di “grandi menti”. Uomini “GRANDI” la cui unica colpa era quella di denuncia contro un governo che uccideva i suoi nemici. Cosa ha di grande la Cina? Cosa la rende appetibile? Nulla. Per chi pone al primo posto la Libertà al Capitale. L’Essere all’Apparire.
    Grazie, Professore, per questa attenta analisi su un paese che sempre più pressa alle nostre porte. Ancora di ieri la notizia di oltre 4mila studenti cinesi che vengono per studiare nelle nostre università e la maggior parte di loro sogna di rimanere qui a cercare lavoro.
    Come dargli torto?

  2. Carissimo Romeo,
    vorrei porti una riflessione su questa tua affermazione :
    “Le società industriali dell’occidente reprimono e insieme convivono con
    la violenza. Sono coscienti che la modernità la produca, ma la
    considerano un effetto collaterale, ineliminabile anche se
    circoscrivibile.”
    E’ vero che conviviamo con queste manifestazioni di violenza (vedi BlackBlock & C), ma che siano ineniminabili ho seri dubbi.
    Forse tutta questa violenza non esisterebbe se le civiltà occidentali applicassero la ricetta del prof. Angelo Tartaglia :

    a) Ridistribuire la ricchezza (anziché far crescere le disuguaglianze inseguendo il mito di una ricchezza globale sempre crescente).
    b) Passare dalla competizione alla cooperazione.
    Due punti facili facili, banali. Buonsenso puro.
    PS : Tartaglia ovviamente non è un economista, ma un fisico. E come si sa, per definizione, il fisico è un matematico con il senso della realtà; un senso che oggi molti hanno perduto.

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