La tigre e il bandito – parte prima

E’ in certe giornate di gennaio che il cielo a Milano offre l’immagine migliore di sé. Si presenta inaspettatamente  limpido, tinto di un azzurro nitido che appare assai più scuro se si volge lo sguardo verso il lato opposto a quello dove rifulge la luce solare. Il sole elargisce una carezza appena tiepida, avvolge in un abbraccio la metropoli meneghina per trasmetterle un messaggio d’affettuosa benevolenza.

La medesima luminosità in molte vie appartate di periferia mette a nudo con crudele impudicizia il lerciume giacente negli angusti cortili, i muri ammuffiti, i vetri incrostati da una patina opaca e un’umanità in perenne affanno che vive ai margini della città, dell’operoso benessere e persino della speranza.

E’ una sorte allegramente incurante a decidere sotto quale cielo collocare un individuo alla nascita; si potrebbe convintamente affermare che nonostante ciò  ognuno sia artefice del proprio destino ed è quasi sempre vero, sia quando si accetta passivamente la propria condizione che quando a questa ci si ribella. In un caso e nell’altro, sovente quello che si ottiene non corrisponde alle aspettative originarie, ma quando lo si comprende è troppo tardi.

“Bundì, sciura Wanda”.

Era mercoledì mattina e la signora Bernasconi, passando davanti alla portineria del vecchio palazzo affacciato su via Tolstoj, così appellò la giovane custode che spazzava l’androne impacciata dall’ingombro di una gravidanza che volgeva al termine.

Paludata nella pelliccetta scura spacciata per visone, ma che aveva tutta l’aria di essere modesto topo muschiato (anche se alla francese, “rat musqué”, faceva tutto un altro effetto), la salumaia del secondo piano della scala A agitò la manona guantata ad enfatizzare il saluto. L’apostrofò in dialetto con un atteggiamento di magnanima condiscendenza poiché a quei tempi era cosa risaputa che nelle classi inferiori si parlava poco l’italiano.

“Buongiorno a lei, signora Bernasconi”,

rispose l’altra compita, perché ai signori così ci si doveva rivolgere in segno di rispetto, ma l’ultima sillaba si impennò in un falsetto strozzato. La salumaia (moglie del salumiere, come amava precisare, dato che sedeva alla cassa del negozio in via Savona) si volse ad osservarla e dimenticò il dialetto:

“…ma si sente bene? E’ smorta che pare un cencio lavato!”

“…ussignur, me senti minga ben”,

ammise quella con un fil di voce scordandosi l’italiano, mentre una chiazza scura si allargava attorno ai suoi piedi.

La sciura Wanda corse il rischio di sfornare il suo primo e unico figlio sui tre consunti gradini marmorei che conducevano alla portineria, ma la Bernasconi ebbe l’insospettabile prontezza di sospingerla in casa, farla sdraiare sul pavimento e lanciare la sua considerevole mole fino al primo piano della scala B, dove abitava una levatrice. Quando l’ostetrica ebbe finito di ripulire il piccolo e glielo pose tra le braccia la Wanda si incantò dinanzi al faccino roseo dai lineamenti perfetti, scrutandone gli occhioni blu un poco velati. Sfiorò i soffici capelli biondi e pensò a suo marito Osvaldo: un omone bruno precocemente stempiato dal volto largo, il naso camuso, gli occhi piccoli e scuri dall’espressione blandamente ottusa, le ampie spalle spioventi, l’incedere goffo, nel complesso un’irrimediabile aria da perdente incollata addosso. Un brav’uomo senza troppa spina dorsale, come aveva decretato anni prima sua madre la quale, dopo averla osservata a lungo, aveva concluso “…ma l’e mei cuntentass”: meglio accontentarsi  perché anche la Wanda, brava e seria come poche, per carità, con quella faccia smunta dal naso lungo sopra alle labbra tanto sottili da parere sempre serrate, i capelli dritti di un castano spento, magra come un chiodo e piatta come un’asse da stiro e con un’istruzione giunta a malapena alla quinta elementare non è che potesse avere troppe pretese. Così, contemplando il suo bellissimo bambino la Wanda ritenne che fosse un sorprendente dono del cielo e decise quindi di chiamarlo Donato. Era il 23 di gennaio del 1952.

La Wanda e l’Osvaldo erano approdati alla portineria del palazzo in via Tolstoj, uno dei pochi della zona dotato di un simile servizio, per un inaspettato colpo di fortuna (la Wanda faceva le pulizie in casa dell’amministratore). La strada incrociava Via del Giambellino verso piazza Napoli, nella parte più vecchia del Giambellino, rione operaio sorto negli anni ’20 a ridosso delle fabbriche di via Savona. Nel secondo dopoguerra erano giunti i veneti e i meridionali, nel corso degli anni ’50 il quartiere si ampliò fino al Lorenteggio e vi si insediò anche un ceto medio borghese.

Benché non sia mai stato propriamente bello, il Giambellino era uno strano posto dove costumi e dialetti differenti si amalgamavano in una socialità unica, priva di grandi contrasti in virtù di una qualche misteriosa alchimia e i numerosi luoghi di aggregazione gravitavano attorno a due principali catalizzatori apparentemente antitetici: i circoli del PCI e le parrocchie. Fu così fino all’inizio degli anni 70, poi intervennero due fattori ugualmente disgreganti: la crisi economica e l’eroina e allora il luogo divenne davvero la “bolgia di quartiere” descritta da Bianciardi ne “La vita agra”. Agra lo era sempre stata, la vita, da quelle parti: però temperata dalla solidarietà e dalla tolleranza, valori fondamentali che in parte si smarrirono nel corso dei decenni, ma non solo al Giambellino.

La Wanda si era dunque accontentata e aveva sposato l’Osvaldo Perego nella piena consapevolezza del ruolo che le sarebbe toccato per tutta la vita: avendo ben compreso che egli era onesto solo perché l’innata indolenza, lo scarso ingegno e una radicata codardia gli impedivano di trasgredire, deragliando dalla retta via, si trattava di mantenerlo su quei binari. Impresa non semplicissima perché l’uomo tendeva a sottrarsi tanto alla fatica che all’autorità, sicché nei primi anni di matrimonio passò da un impiego all’altro senza mantenerne alcuno. Scoprì però di avere un certo talento per la riparazione delle auto e ciò gli piacque al punto da decidere di rilevare una piccola officina in via Soderini.

Si erano appena trasferiti nel palazzo in via Tolstoj, dove non pagavano il fitto per l’occupazione del ristretto alloggio dietro alla guardiola della portineria e percepivano un simbolico compenso come custodi, mansione svolta con diligenza per lo più dalla moglie, ma nessuno ebbe mai di che lamentarsi. Potevano contare sulle mance a Natale e a Pasqua e sui compensi per le pulizie in alcuni appartamenti, servizi che la Wanda prestava quando il marito le dava il cambio in portineria. Le cose parevano andare benino, sebbene l’officina non rendesse un granché e nella nascita di quel bimbo inspiegabilmente bellissimo la donna volle leggere un ulteriore segno di magnanimità del cielo. “Si guasterà crescendo”, pensava guardando il figlio sgambettare nell’androne, il faccino dalle guance rosate, gli occhi blu, la fossetta sul mento e i capelli biondi e mossi sempre svolazzanti: perché il bimbo tardò un poco a parlare ma camminò precocemente, manifestando da subito una pericolosa propensione per la fuga.

La sua beltà si mantenne nel corso degli anni e si definì palesando la discrasia di una grazia femminea nei lineamenti e di una vitalità febbrile e sottilmente prevaricatrice che traspariva dalla persona, con una netta preponderanza della seconda. I problemi incominciarono alle elementari, perché Donato era uno spirito libero e manifestò da subito un’aprioristica intolleranza verso qualunque rapporto di subordinazione. Dotato di un’intelligenza brillante e di una memoria eccezionale, fu più veloce di tutti gli altri a imparare a leggere, scrivere e far di conto. Prese ben presto a marinare la scuola e a rispondere con beffarda impudenza all’anziana maestra la quale un giorno disse alla madre, scuotendo il capo con rassegnata frustrazione:

“E pensare che con la testa che ha potrebbe studiare qualsiasi cosa: ma niente, sembra che la sola cosa che lo interessi sia sfidare costantemente chiunque cerchi di imporgli una qualsiasi disciplina. E’ un capobranco per istinto ed esercita una cattiva influenza sui compagni più deboli”.

Ci aveva azzeccato, la maestra, e l’indole pericolosamente indomita si definì con sempre maggior chiarezza negli anni delle medie. Se fisicamente Donato non assomigliava a nessuno dei genitori (se non fosse nato in casa si sarebbe di certo pensato ad un involontario scambio di culle), dal padre aveva senz’altro ereditato l’insofferenza per le regole e per le consuetudini imposte dal convivere sociale: tuttavia, la mite evanescenza paterna pareva essersi coagulata in un pervicace nocciolo di irridente ribellione.

La Wanda lo sogguardava agitata da un inspiegabile disagio: soggiogata dalla sua avvenenza e dalla sua feroce vitalità incominciava a dubitare che fosse un dono del demonio anziché del cielo. Il padre non se ne dava pena e seguitava a trascorrere i suoi giorni con il consueto sereno menefreghismo.

Nell’inverno del ’64, durante il peregrinare pomeridiano con il gruppetto di coetanei che costituiva la sua banda, gli capitò di imbattersi nella locandina pubblicitaria dello spettacolo di un famoso circo che si era attendato a Lambrate. Un giorno bighellonò tra le grandi roulottes e le gabbie degli animali, incuriosito e affascinato da quella gente e dall’orgogliosa emarginazione errabonda che aveva scelto come stile di vita.

Di chiedere ai genitori i soldi per il biglietto non se ne parlava nemmeno, aveva ormai assimilato di essere stato destinato a una famiglia di poveracci che non avrebbero mai potuto permettersi di sciupare una lira per divertirsi. Dei due, gli faceva più compassione la madre con il suo patetico affannarsi, ma nella pietà covava un sotterraneo disprezzo per i suoi evidenti limiti e per la modestia delle sue aspirazioni. Almeno il padre non ne aveva alcuna e si accontentava di tirar sera rifuggendo la fatica e le rogne.

Introdursi sotto l’ampio tendone di tela a spettacolo iniziato eludendo la blanda sorveglianza fu piuttosto semplice. Insieme al Nandino Cremaschi, all’Oscar Filzetti e al Luciano Bellarini, suoi fedeli compagni di molte scorribande ai limiti della legalità e talvolta decisamente oltre, una volta entrato guidò il gruppetto in un punto che consentiva una buona visuale della pista sulla quale si svolgeva lo spettacolo. Lo trovò piuttosto deludente: i clown, i trapezisti e i giocolieri lo annoiarono, le acrobazie equestri risvegliarono un poco la sua attenzione, i cagnetti agghindati e l’orso che giocava a palla gli parvero grotteschi. Poi entrò in scena una grande gabbia nella quale il domatore in giacca rossa dagli alamari dorati si inchinava alla platea, una lunga frusta nella mano destra. Al gentile pubblico fu chiesto di rimanere in silenzio e dopo pochi istanti da uno stretto tunnel entrò la tigre: enorme, altera, possente, le orecchie tonde poste ai lati della grossa testa piatta e gli occhi sfavillanti, piccoli sbuffi di vapore si levavano dalle labbra arricciate in un brontolio sommesso mentre saltava con elegante leggerezza sullo sgabello.

Donato percepì un afrore selvatico mescolarsi al sentore di umidità, di piedi, di sudore, di stallatico e di fiati mescolati aleggiante nel freddo dell’alto tendone. Osservò l’uomo in giacca rossa e gli parve piccolo e arrogante di fronte a quella bestia che avrebbe potuto squarciargli la gola in un istante, se avesse voluto, e probabilmente voleva e sarebbe stata la giusta punizione per quello che gli parve un affronto, un atto di lesa maestà. Sgattaiolò fuori disgustato e rabbioso, un’idea ben chiara in testa: restituire alla tigre la sua dignità di creatura libera.

I compagni lo ascoltarono perplessi, ma non riuscì a vincere i loro timori e così decise di arrangiarsi. La sera dopo non era in programma alcuno spettacolo; uscì di casa verso le nove di sera (sua madre dormiva già e suo padre era al caffè), salì sul tram n. 14 e al Cimitero Monumentale prese il 33 fino a Lambrate, un grosso tronchese sottratto dall’officina paterna nascosto sotto il cappotto. Trascorse qualche mezz’ora giocando a flipper in un bar e a mezzanotte si incamminò verso l’accampamento del circo.

Scorse il fioco riverbero dell’insegna luminosa nella foschia umida che era calata sulla città. Solamente in un paio di roulotte si intravvedeva la luce filtrare dalle veneziane poste a riparo delle piccole finestre ma non se ne curò e puntò con passo deciso e felpato verso i ricoveri degli animali. In quel brullo spiazzo di periferia il silenzio della notte invernale era percorso da brevi fruscii e da sommessi respiri. A guidarlo nel buio brumoso verso la gabbia della tigre fu l’odore: aspro e caldo, speziato e inebriante. Percepì il fiato fetido da carnivoro quando la bestia dischiuse le fauci in un breve ruggito che mise in agitazione i cavalli, e rimase per qualche attimo a fissarne lo sguardo dorato risplendere nell’oscurità immobile, sedotto da quel momento straniante. Quando recise la catena e aprì la porta della gabbia realizzò che la sua breve vita avrebbe potuto finire in quel momento e provò un’assurda eccitazione. Si parò di fronte alla tigre guardandola negli occhi freddamente scintillanti: ma non era un gesto di sfida, bensì una genuina pretesa di fratellanza.

La bestia interruppe di colpo qualsiasi brontolio, il respiro usciva in piccoli sbuffi candidi dalle grosse narici rosate. Si raggomitolò sul fondo della gabbia e slanciò il corpo flessuoso e imponente in un lungo balzo che passò sopra la testa di Donato come un alito di vento tiepido. Il ragazzo si volse appena in tempo per vederla scomparire veloce e furtiva verso la città.

Fu travolto da un’indicibile euforia e allora pensò di liberare tutti gli animali: ma i quattro cavalli, usciti che furono dai box, dopo un momento di spaesamento presero a galoppare in tondo come se fossero sulla pista facendo un gran baccano di nitriti e scalpitio di zoccoli. “Stupide bestie, non sanno che farsene della libertà”, si ritrovò a pensare, ma intanto dalle roulottes stava accorrendo gente e qualcuno aveva chiamato i carabinieri: fu in quella notte di nebbia che Donato Perego, di anni 12, varcò la soglia del carcere minorile milanese Cesare Beccaria.

La tigre fu catturata qualche ora più tardi nei pressi del Parco Lambro e i proprietari del circo, considerata la giovane età del malfattore, decisero di non sporgere denuncia. Poiché dei furtarelli nei negozi ai quali si dedicava da qualche tempo coadiuvato dalla sua banda non vi era alcuna segnalazione, trascorse appena qualche ora al Beccaria e se la cavò con una lunga predica, sopportata con strafottente disinteresse.

La storia ebbe tuttavia un epilogo di una certa amarezza per la tigre: in seguito a quella brevissima fuga divenne inutilizzabile per gli spettacoli circensi poiché la sua aggressività non era più gestibile e finì in uno zoo ad intristire dietro altre sbarre. In qualche modo Donato venne a saperlo: pensò che non avrebbe mai più avuto il coraggio di affrontare lo sguardo di quell’animale e rifletté che i gesti apparentemente più nobili possono avere esiti tanto imprevedibili quanto indesiderabili.

La storia di Donato Perego non finisce qui: il seguito sabato prossimo, 27 ottobre, con link alla prima parte per gli “unicisti”  sconfitti dal sondaggio. Stay tuned, dunque.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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