Lanterne rosse proiettano ombre

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Tanto è ingombrante la presenza della Cina, ugualmente è silenziosa la sua emigrazione in Occidente. Il Paese dei record allunga la sua ombra sul resto del mondo, mentre i suoi figli lavorano e prosperano nelle pieghe delle città europee e americane. Non lavorano nelle campagne, raramente svolgono professioni liberali. La maggior parte lavora nei servizi, nel commercio, nella ristorazione, nella manifattura che gestisce direttamente. La diaspora nel sud-est asiatico rappresenta la parte più dinamica e ricca delle società. Spesso vessata, è riuscita a preservare la propria identità. In alcuni paesi, come Singapore, è anche maggioranza politica; negli altri paesi asiatici costituisce il tronco su cui germogliano i frutti economici. È presente, forte, solidale.
Anche dell’emigrazione negli Stati Uniti si conoscono i tratti sociali: dai coolies che costruivano le ferrovie all’uso dispregiativo di “Chinaman”, dalle fumerie d’oppio della letteratura all’operosità contagiosa e polivalente. L’emigrazione di oggi è molto più massiccia: è palpabile e ovviamente motivo di studio. Tuttavia le comunità cinesi sembrano invisibili nelle città. Numerose analisi rilevano la forte differenza tra il valore economico delle varie Chinatown e la loro ripercussione nella società. Il primo, calcolato anche per difetto, è decisamente più alto della seconda. L’impatto visivo è immediato, quello sociale più difficile da trovare. Abbondano le lanterne rosse, ma non se ne scorgono in controluce né l’origine né la destinazione.
Le comunità cinesi tendono a non integrarsi. Esistono certamente delle resistenze da parte delle città che li ospitano, ma queste si applicano anche ad altre etnie che invece partecipano maggiormente alla vita sociale del paese, si mescolano più agevolmente, sono più visibili e rumorose. Rinunciano infine più volentieri alla loro cultura d’origine, arricchendola con altre contaminazioni. Risulta difficile anche interloquire con le varie Chinatown, che – anche se poste al centro delle città – appaiono misteriose e talvolta impenetrabili. Due sono i motivi principali di questa auto-reclusione: il forte orgoglio patriottico e la finalità prevalentemente economica dell’emigrazione. Il primo stimola a “vivere in Cina” – con tutte le sue derivazioni – anche quando si sta all’estero. Ne sono espressione il cibo, i consumi, la medicina, persino le onoranze funebri. Le abitazioni per i Cinesi non sono ovviamente dei ghetti, però è difficile scorgere in esse un successo individuale, una comunanza di intenti con gli altri immigrati, una partecipazione alla vita politica di un quartiere e di paese. Esistono chiaramente eccezioni e progressi, ma il fenomeno registrato è ancora insufficiente.
L’economia – anche questa è una rilevazione provata da numerosi studi – è il motivo dell’emigrazione cinese. L’arricchimento veloce per migliorare le condizioni di vita proprie e della famiglia è il traguardo del trasferimento all’estero. Si lavora in condizioni disagiate, si affrontano viaggi costosi, si sopporta il distacco dalla patria come scorciatoia alla ricchezza. Non esistono tempi e spazi per socializzare, né disponibilità a rinunciare al passato. La declinazione della giornata si impernia sul lavoro, anche quando si dovrebbe riposare nell’abitazione. Per i paesi di accoglienza è dunque difficile interagire. Anche le persone colte, lontane da xenofobie, che guardano con simpatia alla Cina, si trovano in difficoltà nell’immaginare un rapporto che valichi l’aspetto monetario: pagare per l’erogazione di un servizio, sia esso un supermercato, un ristorante o un vestito pronto-moda. È un segnale preoccupante di scarsa integrazione, nella cornice di una contraddizione più vasta: quella di un grande Paese che trae vantaggio dalla globalizzazione senza essere globalizzato nei suoi atteggiamenti.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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