Non si può dire con certezza che ciò dipenda dall’iniezione di ottimismo somministrata con la puntata di “Economia per tutti” della scorsa settimana, ma è un fatto che quella visione sembra aver contagiato improvvisamente anche i più autorevoli osservatori.
Il panel di esperti di Consensus Economics, come ha riferito qualche giorno fa il Financial Times, dopo aver previsto a dicembre una recessione nell’eurozona per quest’anno, stima invece ora un PIL in crescita dello 0,1%. Da Davos, poi, sono arrivati scenari anche più rosei, mentre il FMI ha anticipato che a breve intende rivedere al rialzo le previsioni di crescita economica globale per il 2023.
Quale che sia stato il nostro ruolo, noi comunque restiamo umili (si scherza, eh), ma soprattutto, allungando lo sguardo di qualche anno, ci dedichiamo questa settimana a sviscerare, invece, due minacce che potrebbero concretizzarsi di qui in avanti e condizionare la restante parte di questo decennio.
Sono minacce, nel loro insieme, glocal. Una domestica, l’altra globale
Gli indizi della prima sono legati all’inquietante diversità di passo, nell’arretramento dell’inflazione, tra l’Italia e le principali economie europee.
Certo, è vero che la discesa della febbre inflazionistica è lenta e graduale ovunque, tanto che BCE non si stanca di ripetere (in primis ai mercati che non vogliono sentirlo) di essere ancora lungi dall’aver terminato la somministrazione della terapia basata sull’aumento dei tassi. E’vero, altresì, che un’indagine sulle aspettative di inflazione, recentemente condotta da Banca d’Italia sondando le imprese circa la politica dei prezzi che intendono praticare nei prossimi mesi/anni, fornisce dati rassicuranti sul regredire dell’inflazione.
Tuttavia, non può sfuggire, numeri alla mano, come l’inflazione sia già oggi considerevolmente più bassa in altri importanti paesi, segno che la nostra economia sta sì percorrendo la stessa traiettoria degli altri, ma con impressionante lentezza, cosicché viene spontaneo domandarsi quanti anni impiegheremo per allinearci. Pare dunque confermarsi, anche in questo caso, una sorta di negativo eccezionalismo italiano: quando c’è crescita, cresciamo meno della media, in fasi recessive accusiamo maggiormente il colpo ed ora, quando l’imperativo è smorzare l’inflazione, vi riusciamo solo con grande ritardo.
Perché questa differenza? Che ne è della narrazione dei mesi scorsi, secondo la quale l’inflazione era tutta riconducibile alla bolletta energetica, ora che il prezzo dell’energia scende marcatamente per tutti i paesi, ma dalle nostre parti l’inflazione cala meno che altrove? Colpa dei furbetti del cartellino prezzi? Effetto della politica dei bonus generalizzati che ha condotto a sovvenzionare la domanda, anziché favorirne il processo di distruzione? Perché le geremiadi sugli aumenti di prezzo sono corali, ma i consumi non flettono?
Ma, soprattutto, quali conseguenze ha questo nostro disallineamento? Una su tutte: l’inesorabile perdita di competitività delle imprese italiane gravate da costi di produzione più alti delle concorrenti internazionali. Insomma, potrebbe delinearsi una brutta miscela composta di mancanza di competitività, modesta crescita, elevato debito, salari fermi e inflazione a lungo più alta che altrove. Il tutto mentre resteremo destinatari di una politica monetaria, quella condotta da BCE, pensata a misura della condizione economica prevalente tra i 27, non certo dell’eccezione italica.
Sono, queste, tutte condizioni di maggiore vulnerabilità anche alla seconda minaccia che vi raccontiamo nella conversazione inclinata di questa settimana: la crisi energetica permanente.
La ragione è semplice e inquietante insieme: l’OPEC, il supremo ente regolatore del rubinetto della produzione che da decenni alterna tagli e aumenti di produzione per governare il prezzo del petrolio, oggi non ha più leve per indurre l’incremento dei barili e quindi la discesa dei prezzi. Tutto congiura perché la bolletta petrolifera aumenti: la capacità produttiva ormai satura, i costi di estrazione sempre maggiori, l’assenza di nuovi investimenti su una fonte di energia condannata a morte dalla transizione ecologica, la necessità di ricostituire le riserve Usa intaccate per tenere basso il prezzo durante la campagna elettorale di mid-term, l’eclissarsi degli scenari di recessione, la riapertura cinese e, last but not least, il fatto che il principale produttore sia pienamente coinvolto in una guerra, sia sanzionato sul petrolio a ragione di ciò e quindi potrebbe decidere di ridurre drasticamente la produzione pur di far salire il prezzo.
Su questo e molto altro, per riconoscere e capire queste due minacce e immaginare come difendersi, appuntamento sulla vostra piattaforma preferita.
Bibliografia della puntata:
– “Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita” di Banca d’Italia
– “Oil Leaders” di Ibrahim Almuhanna
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