L’IMU per le scuole paritarie e la Babele delle tasse

Le reazioni piuttosto scomposte di questi giorni sul tema dell’ICI/Imu che anche le scuole paritarie, secondo la Cassazione, dovrebbero pagare (i vescovi hanno parlato di sentenza “ideologica e pericolosa“), è sintomatica della scarsa o nulla alfabetizzazione in materia di determinazione dei tributi.

Che cosa dice la norma su cui la Cassazione si è pronunciata? Che sono esenti da imposta gli immobili utilizzati da enti non commerciali, destinati esclusivamente allo svolgimento “con modalità non commerciali” di una serie di attività con significativa valenza sociale, tra cui quelle “didattiche”. E a precisazione di che cosa si intenda per attività svolte con modalità non commerciali, l’art. 4 del DM 200/2012 stabilisce che è tale l’attività paritaria, cioè quella che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni, laddove siano osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, e sempre che l’attività sia

“svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso”.

Nella causa decisa dalla Cassazione con sentenza n. 14225 depositata l’8 luglio 2015, la Corte ha chiarito (ma il punto era pacifico anche nella giurisprudenza precedente) che la sussistenza del requisito di “non commercialità” non dipende dal tipo di attività esercitate, ma dalle modalità del suo esercizio. Anche un’attività didattica può essere svolta secondo canoni di economicità, quando vi siano corrispettivi (ricavi) in grado di coprire i costi della produzione. E poiché nel caso di specie risultava che gli utenti della scuola paritaria pagassero un corrispettivo, i giudici hanno ritenuto che lo stesso fosse un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali.

Poiché si trattava dell’applicazione di una norma agevolativa, era evidentemente a carico dell’ente che gestiva la scuola dimostrare la sussistenza delle “modalità non commerciali” di esercizio dell’attività, ad esempio allegando la natura meramente simbolica dei corrispettivi, rispetto al costo effettivo del servizio. La Corte, che è giudice di legittimità e non del merito, sul punto non si sofferma, non spiega cioè (non essendo chiamata a farlo) che cosa avesse dimostrato il contribuente nel corso del giudizio, limitandosi a cassare con rinvio la sentenza di appello, che aveva errato nel ritenere “irrilevanti” ai fini Ici il pagamento di un corrispettivo da parte degli utenti.

Le accuse di “sentenza liberticida” della Cei mi sembrano dunque piuttosto ingiustificate, non solo rispetto a una sentenza che sembra aver interpretato correttamente la norma esentativa in questione, ma anche per un’altra ragione. Nell’ambito del sistema Ici/Imu, l’utilizzo dell’immobile costituisce in linea di principio un fatto irrilevante: si tratta di un tributo patrimoniale, di per sé non correlato all’esercizio di una particolare attività, i cui soggetti passivi possono essere privati, imprese o enti pubblici. Il presupposto dell’Ici/Imu non è un “capitale (immobiliare) produttivo“, ma qualsivoglia immobile, indipendentemente da un uso produttivo dello stesso, tanto che pagano l’imposta sia le abitazioni che i fabbricati strumentali.

Rispetto a questa “universalità” del tributo patrimoniale, l’art 7 lettera i) del Dlgs 504/1992, che esenta gli immobili utilizzati da enti non commerciali per finalità di rilievo sociale come quelle didattiche, costituisce una eccezione alla regola – con finalità agevolativa – rispetto alla normale irrilevanza dell’utilizzo (produttivo o meno) dell’immobile. E’ comprensibile dunque che tale agevolazione incontri il limite delle modalità non commerciali di esercizio dell’attività; in caso contrario risulterebbero alterati i meccanismi di mercato, posto che alcune attività svolte secondo criteri di economicità, solo perché di indiretto rilievo sociale, beneficerebbero di sgravi di imposta altrimenti preclusi al resto delle imprese, con probabile sospetto di una violazione della normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato.

Dunque, piuttosto che insistere con norme agevolative dagli effetti potenzialmente distorsivi, meglio sarebbe semmai eliminare l’Imu su tutti i fabbricati strumentali, favorendo così gli investimenti produttivi, invece che inseguire la facile demagogia dell’abolizione dell’imposta sulle prime case.

Sarebbe d’altro canto sbagliato paragonare la situazione delle scuole paritarie o degli altri enti non commerciali a quella dello Stato o degli enti pubblici territoriali, i cui immobili sono sempre esenti. La tassazione, per questi ultimi, si tradurrebbe infatti in una mera partita di giro, e l’esenzione da imposta dello Stato è del resto un fatto generalizzato anche in altri settori impositivi. Lo Stato, Regioni, Comuni etc. sono ad esempio esenti anche dall’Ires, ma non per questo i soggetti privati non commerciali avrebbero titolo per lamentare una disparità di trattamento, che sarebbe grottesco anche solo evocare.

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Pubblicato da Dario Stevanato

Professore ordinario di diritto tributario, Università di Trieste. Avvocato. Professor of Tax Law at University of Trieste

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