L’ironia della sorte

“In nomine Patris…”

Intabarrato in un lungo cappotto di cammello che sulla sua allampanata figura testimoniava i fasti di un passato glorioso (glorioso finché si vuole, ma inequivocabilmente passato), il Conte Arrigo Albiati Forvieri non poté fare a meno di notare come la gestualità un poco teatrale dell’intero cerimoniale, condotto con consumata maestria dallo ieratico sacerdote, si inserisse perfettamente nella scenografia di sontuosa bellezza dell’ambiente. Dieci minuti dopo la bara in lucido mogano era scomparsa, inghiottita dal ventre buio della bizzarra ed alta piramide che accoglieva le spoglie di alcune generazioni dei suoi avi nell’area del Cimitero Monumentale riservata ai Cattolici.

Sua madre, la quale si mantenne rigorosamente atea durante tutta la sua lunga vita, non avrebbe desiderato nulla di tutto ciò, né il funerale cattolico né le parole di commiato dell’officiante, ma ormai da tempo si era ritirata in una dimensione remota ed esclusiva. Quando era mancata, suo figlio aveva trovato più comodo non curarsi delle sue note convinzioni ed aveva affidato tutte le conseguenti incombenze ad una tradizionale agenzia di pompe funebri, certo del fatto che la signora Gertrude avrebbe apprezzato la magnificente quiete dei viali alberati del Monumentale e la vicinanza con l’amato consorte nell’eccentrica edicola di famiglia.

Originaria di Berna,  figlia di un geologo rimasto prestissimo vedovo il quale si era trasferito nel pavese con quell’unica figlia ed aveva acquistato una grande azienda vitivinicola, sua madre si era sposata in chiesa unicamente per rispetto della volontà della famiglia del Conte, mantenendo tuttavia per tutto il tempo della cerimonia un contegno di rigida immobilità ed aprendo la bocca solo per pronunciare il fatidico “sì”. La sua frequentazione della chiesa era iniziata e finita quello stesso giorno, escludendo quel funerale al quale tuttavia presenziò solamente la sua irrimediabile assenza.

Sopra Milano gravava un cielo ottusamente grigio che esprimeva tutta l’ostilità di un mese crudele come febbraio, sovente oscillante tra la promessa di un’imminente primavera e la ricaduta nel freddo viluppo dell’inverno.

Il Conte Arrigo Albiati Forvieri salutò e ringraziò il gruppetto di anziani parenti e amici di famiglia che avevano partecipato alle esequie e ristette ancora per un poco davanti all’oscura piramide. Poi si avviò lentamente verso la fermata del tram, lasciando che nella sua mente fluisse infine l’orribile certezza che da quel giorno in poi sarebbe stato completamente solo.

Per quanto si sforzasse, egli non ricordava che suo padre, il Conte Lorenzo, fosse mai stato impegnato in qualsivoglia attività lavorativa. Erede di un ricchissimo e nobile casato milanese, viveva della rendita derivante dagli affitti di un buon numero di alloggi dislocati in zone di pregio della città e da saggi investimenti di parte del cospicuo patrimonio; frequentava il Clubino Dadi, circolo riservato ai gentiluomini milanesi presso la Casa degli Omenoni situata sull’omonima via, andava sovente a cavalcare in un centro ippico al Parco di Monza, dedicava lunghe ore alla lettura e all’ascolto della musica e talvolta accompagnava la moglie nella tenuta sulle colline del Pavese, della cui amministrazione la donna aveva continuato ad occuparsi dopo la scomparsa del padre. Non comprendeva assolutamente la ragione del caparbio impegno di donna Gertrude in tale occupazione ma era persona intelligente e rispettosa dell’altrui volontà, perciò non la ostacolò mai.

Naturalmente il rampollo Conte Arrigo aveva frequentato il prestigioso Collegio San Carlo, distante poche centinaia di metri dall’aristocratico e basso palazzo situato in Corso Magenta il cui stile architettonico rimandava alle dimore nobiliari del Seicento lombardo e che la sua stirpe occupava sin dalla sua edificazione nei primi anni del Novecento.

Poco dopo la Laurea in Giurisprudenza conseguita alla Cattolica il giovane nobiluomo aveva lasciato la dimora dei suoi avi alla volta di Londra. Sarebbe stata la prima tappa di un lungo viaggio attraverso l’Europa e l’America, poiché suo padre riteneva che l’incontro ed il confronto con abitudini e culture di altri popoli fossero fondamentali per la formazione di un individuo.

Era il 1968 e il ragazzo, per nulla interessato né turbato dalle istanze che i suoi coetanei andavano urlando nelle strade e nelle piazze di Milano, non trovò alcunché da obiettare, convinto com’era che nel lavoro e nella sua prosaica necessità non vi fosse alcunché di gratificante né tantomeno di nobilitante: d’altronde il motto “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) era stato posto all’ingresso di molti campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale, confermando il tragico equivoco di tale assunto.

Così, vagamente consapevole della sua posizione di privilegio derivata semplicemente dall’appartenenza ad un ceppo di nobili e ricche origini, affrontò quella sorta di itinerario formativo con animo aperto e scevro da qualsiasi pregiudizio.

Il giovane Conte era alto, longilineo e biondo, il volto dai tratti di raffinata bellezza così simile a quello della madre tranne che per gli ardenti occhi scuri, le belle mani dalle lunghe dita affusolate sovente in movimento che imprimevano un’aggraziata forza persuasiva all’eloquio elegante e misurato.

Al pari di pochi altri individui rappresentativi di un’aristocrazia lombarda ormai ampiamente in via di estinzione (i nuovi ricchi erano imprenditori, faccendieri e gente di spettacolo e dovevano la loro agiatezza ad un oggettivo impegno, alla fortuna ed alla personale intraprendenza e ciò indipendentemente dall’eventuale giudizio morale di talune scelte) egli viveva in una sorta di bolla appartata e poco o nulla sapeva, né tantomeno capiva, dell’esistenza di coloro che in varia misura tribolavano per campare dignitosamente, ovvero della maggior parte delle persone.

Andò a finire che il suo viaggio di formazione perdurò all’incirca una trentina d’anni trascorsi fondamentalmente tra Londra, Dublino, Parigi, New York e Los Angeles. Fu attratto e distratto dalla frequentazione di una bella ragazza, di qualche avanguardia artistica o di facoltosi avventurieri: tutte situazioni vissute con la medesima genuina curiosità ma con l’ammirevole capacità di non esserne mai coinvolto in maniera irreparabile.

Durante quegli anni gli capitò di fare ritorno a Milano per brevi periodi di visita alla famiglia, la quale si era rassegnata alla sua dispendiosa volubilità. Sebbene provasse una sorta di affezione per la sua città, la trovava ormai inaccettabilmente provinciale ed in costante ritardo sull’interpretazione dello Zeitgeist, lo spirito del tempo.

Il gaudente peregrinare terminò bruscamente quando scomparve suo padre, evento in seguito al quale egli dovette scoprire che buona parte del patrimonio familiare era stato speso per mantenere il suo stile di vita e quello di suo padre, mentre l’avventura imprenditoriale della madre, dopo un breve periodo di relativo successo, nel corso degli anni aveva accumulato debiti consistenti. Gran parte di quel che restava servì per pagare una badante tuttofare che per un paio d’anni si prese cura della smisurata magione, del Conte Arrigo e di donna Gertrude, la quale un bel mattino si era persa nei suoi ricordi allontanandosi irrimediabilmente dalla strada del ritorno. Deceduta infine anche donna Gertrude, all’alba del nuovo millennio delle ricchezze del nobile casato Albiati Forvieri non rimaneva in pratica che l’austero palazzo di Corso Magenta, al cui mantenimento erano del tutto inadeguate le miserevoli condizioni del conto corrente bancario dell’unico erede, l’ormai ultra cinquantenne nullafacente Conte Arrigo.

La tiepida solidarietà di amici e conoscenti non andò oltre qualche generica frase di circostanza e si ritrasse con l’inesorabile discrezione di un’onda leggera che lambisce appena la rena. Egli faticò a fare i conti con ciò che gli rimase in saccoccia dalla vendita della dimora famigliare e dell’azienda agricola sulle colline pavesi, una volta che ebbe estinto tutti i vari debiti: più che altro, trovò arduo accettare il fatto che la sua vita da quel momento in poi sarebbe mutata e certamente non in meglio.

Si ritrovò in un minuscolo alloggio in affitto all’ultimo piano di una moderna palazzina in una traversa di Corso Magenta. Nello spazio ristretto di quelle stanze, nei giorni successivi si trovò a riflettere su quanto l’umana condizione potesse essere effimera e su come fosse volubilmente superficiale la natura di talune amicizie, che si rivelano condizionate e del tutto dipendenti dall’appartenenza ad un determinato ceto sociale piuttosto che da sincero affetto.

Gli accadde allora di leggere una sorta di perversa ironia nei recenti accadimenti: non poteva essere del tutto casuale che da Corso Magenta la malasorte lo avesse cacciato in via Brisa, una silenziosa traversa dell’aristocratico e vivace corso, null’altro che un vicolo cieco posto di fronte alla Chiesa di Santa Maria alla Porta. La strettoia moriva su di una squallida spianata adibita a parcheggio sulla quale si affacciavano i ruderi del medioevale Palazzo Gorani con l’antica torre, sorretta da tristi impalcature. Sull’altro lato dello spiazzo, al di sotto del livello stradale, si intravvedeva della vegetazione selvatica tra la quale si affastellavano le rovine delle fondamenta di un edificio di rappresentanza risalente ai tempi dell’Imperatore romano Costantino, IV secolo dopo Cristo, come segnalato da un modesto cartello posto all’ingresso della via. Tra le superstiti geometrie in pietra si aggirava una pacifica moltitudine di gatti e i flessuosi felini parevano essere gli unici consapevoli custodi di tanta arcaica bellezza. Un vicolo cieco, un meraviglioso passato abbandonato all’oblio e ad una inesorabile, definitiva decadenza: come non cogliervi un’irridente metafora del suo presente?

Il Conte Arrigo Albiati Forvieri, il quale durante tutta la sua esistenza non aveva mai avuto necessità di guadagnarsi il denaro che spendeva né di preoccuparsi dei suoi pasti o della conduzione di una casa, poiché qualcuno si era sempre occupato delle sue necessità, dovette imparare ad arrangiarsi e non ci mise molto a rendersi conto che anche rinunciando alle abitudini più onerose il denaro che gli era rimasto sarebbe bastato a malapena per un anno. Dopo avere a lungo meditato, giunse infine alla conclusione che allo scadere di quel periodo si sarebbe procurato la morte e gli parve allora che le rovine romane, con quella platea gattesca freddamente sorniona ed eternamente in attesa di un indefinito qualcosa sarebbe stata il palcoscenico ideale per quell’ultimo atto.

In America il candidato repubblicano George W. Bush prevaleva sul democratico Al Gore e diveniva il quarantatreesimo Presidente degli Stati Uniti, mentre il Consiglio Europeo di Nizza si apriva con la proclamazione della Carta Europea dei diritti fondamentali. A Milano, dove sotto il cielo plumbeo di dicembre si respirava ancora a pieni polmoni l’ansiosa aria di rinnovamento che aveva agitato il primo anno del nuovo millennio, il Conte si mise a lavorare alla stesura di un’adeguata missiva di addio, per quanto non vi fosse alcuno al quale indirizzarla. D’altronde il tempo stringeva: era quello l’ultimo inverno che avrebbe visto e non vi sarebbe stata un’altra estate, ma solo uno scampolo di primavera.

Poiché ambiva ad una fine di un certo impatto scenico, che stava diligentemente programmando, non poteva lasciarsi morire d’inedia e dunque era costretto, anche se con innegabile impaccio, ad andare per negozi a fare la spesa. Non frequentava le botteghe dei dintorni di Corso Magenta: non se lo poteva più permettere, ma soprattutto aveva deciso di defilarsi da un ambiente dal quale si era sentito ripudiato.

Saliva su di un tram o prendeva la metropolitana e si spingeva fino all’Isola, al Giambellino o verso qualche altra periferia. Durante quegli spostamenti gli accadeva di osservare i viaggiatori pressappoco della sua età e il più delle volte, su certi volti anonimi segnati da un’atavica stanchezza, intravvedeva l’alone luminoso di un’orgogliosa resilienza e gli pareva di cogliere il bagliore di una qualche segreta soddisfazione, una sorta di compiutezza di cui non trovava traccia nel proprio sguardo.

Incominciava a nevischiare stancamente la mattina in cui si trovò a passare davanti a quella panetteria in via Paolo Sarpi. “Panificio Rosalba”, recitava l’insegna sopra la vetrina: si bloccò sul marciapiede, un arresto rigido come quello di un giocattolo a cui si fossero d’improvviso scaricate le batterie.

Si era da poco laureato e la governante di allora, l’efficiente e discreta signora Renata, in certi pomeriggi si portava appresso la figlia che faceva l’ultimo anno delle Magistrali, cosa della quale andava molto fiera. La ragazza studiava nel vasto locale che faceva da stireria e da guardaroba e gli capitava sovente di incrociarla. La giovane Rosalba era bruna, la figura ammorbidita dai fianchi arrotondati e dall’alto seno, gli occhi verdi come la giada e un sorriso che poteva annientare per il fuoco che disvelava all’improvviso. Si era presto accorto dei suoi sguardi adoranti ai quali non si era affatto sottratto, affascinato da quel gioco di ingenua seduzione.

Giunse all’improvviso un caldo pomeriggio di maggio e si trovarono in casa da soli per qualche ora. Lui la prese per mano, lei lo seguì nella sua stanza perché era quello che voleva, benché capisse che non avrebbe avuto null’altro che quel breve momento e il ragazzo fu lusingato e confusamente commosso dal suo ardore e da ciò che considerò un bellissimo dono. Due giorni dopo partì per quel viaggio che sarebbe stato ben più lungo del previsto e non la rivide mai più. Tuttavia, di tanto in tanto gli era capitato di rammentare quell’infuocato, tenerissimo incontro, del quale non si poté scordare nemmeno dopo molte donne e innumerevoli storie, sebbene non avrebbe saputo spiegarne il motivo.

 Gli venne in mente che la governante era sposata con un panettiere, il quale aveva il negozio proprio in via Paolo Sarpi. Panificio Rosalba. Ma no, non poteva essere ed erano comunque passati trentadue anni. Tuttavia, spinse il battente della porta a vetri ed entrò nel negozio, i movimenti infiacchiti da un incerto turbamento.

“Buongiorno, ho finito tutto il pane ma se ripassa tra una mezz’ora troverà la seconda infornata”.

Ravvisò subito lo sguardo del colore della giada, anche se il sorriso aveva perduto il calore di un tempo. Dal modo in cui ristette impietrita, comprese che anche la donna doveva averlo riconosciuto.

La signora Renata era rimasta in contatto con donna Gertrude fino alla scomparsa del Conte e aveva raccontato alla figlia del rovescio finanziario che aveva colpito i suoi vecchi datori di lavoro. Avevano poi appreso della sua morte e Rosalba si era chiesta che ne fosse stato di Arrigo: era stato il suo primo amore, irragionevole e senza speranza come spesso è il primo amore. Ripensandoci negli anni successivi,   aveva maturato la certezza che non fosse nemmeno il tipo d’uomo che avrebbe voluto avere al fianco; era dunque un bel ricordo che non le aveva lasciato nessun rimpianto. Per una ragione o per l’altra aveva avuto molte relazioni ma non si era mai sposata e aveva poi finito per abbandonare l’insegnamento, sostituendo gli anziani genitori nella gestione del negozio.

In quei minuti durante i quali i due rimasero a scrutarsi, sospesi tra passato e presente, doveva essere successo qualcosa che aveva avuto il repentino potere di scardinare i presupposti sui quali più o meno consapevolmente si basava il rispettivo vivere quotidiano.

Rosalba aveva soppesato l’alta figura del Conte, il viso ancora piacente appannato da una nuova, dolorosa fragilità e aveva provato l’impulso di raccoglierlo e di proteggerlo come avrebbe fatto con un gattino randagio incontrato in un giorno di pioggia, perché la maggior parte delle donne è troppo spesso animata da questo rischioso impulso.

Da parte sua, il Conte Arrigo si era incantato dinanzi al fascino della matura bellezza di Rosalba e della granitica determinazione che traspariva dal suo sguardo e aveva subito deciso di rispondere, ancora una volta, a quello che riconobbe come un inequivocabile invito. Tanto, la lettera di commiato che aveva preparato non era un granché e anche la faccenda del suicidio non era certo di facile realizzazione.

Finì dunque che gli abitanti di quella zona che erano soliti frequentare il Panificio Rosalba furono per molti anni serviti dalle nobili mani di un Conte, ma non lo seppero mai. Per loro, quell’uomo dai modi cortesi e addirittura raffinati era semplicemente il marito della signora Rosalba e per quanto molti pensassero che doveva essere uno che, come si usa dire, aveva “appeso il cappello al chiodo”, dovettero riconoscere che raramente una coppia era apparsa più affiatata e più felice.

https://youtu.be/jf8HvT22hBg

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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