L’isola che non c’è

Vi sono spiriti che nascono ribelli, ma altri, più quieti e remissivi, celano nel profondo un debole rigagnolo che un bel giorno, dopo una pioggia copiosa, si gonfia e acquista vigore. Fino a generare una piena la cui lucida furia tutto travolge, e spazza via.

Osservando il muratore che con pochi e precisi colpi di cazzuola chiudeva il loculo, all’interno del quale la salma di suo padre si sarebbe col tempo dissolta nella costosa bara in lucido mogano, Olga pensò che i cimiteri sembrano tutti uguali. Forse perché vi alberga il medesimo cordoglio e la stessa inconfutabile certezza della fine, che tutti ci accomuna o dovrebbe senz’altro accomunarci.

Cadeva una pioggia fine e vaporosa, triste come una giornata di metà novembre, come in effetti era. Durante il funerale non aveva potuto fare a meno di osservare i suoi famigliari. Sua madre Gianna aveva mantenuto per tutto il tempo un’espressione di incredula riprovazione che ben si intonava al volto squadrato dalle labbra sottili e alla figura matronale, avvolta in una pelliccia di visone tanto pretenziosa quanto inutile, dato che a Milano c’erano 10 gradi. Riprovazione, certo: perché un marito suicida era un fallimento inconcepibile per la famiglia Vergani, e del resto l’atteggiamento dello zio Cesare, fratello maggiore della madre, irrigidito nel cappotto grigio scuro di buon taglio, confermava lo sdegnoso sconcerto. Fabrizio, suo marito, aveva optato per una sobria ma chiara solidarietà con la suocera dal cui fianco sinistro non si era mai staccato, lasciando Olga alla sua attonita, solitaria sofferenza, imitato dal figlio diciannovenne Mattia.

La freddezza della famiglia alllineata in prima fila, con l’esile figlia del defunto signor Carlo Colombo che aveva mantenuto per tutto il tempo una posizione defilata, aveva finito per accrescere l’imbarazzo dell’anziano prete, già sufficientemente in difficoltà a celebrare le esequie di un suicida, il quale aveva chiuso la cerimonia con la frettolosa distrazione di chi non vede l’ora di andarsene.

Olga aveva considerato che gli schieramenti nella famiglia erano da anni quelli che si erano palesati al Cimitero Maggiore: e lei, senza più l’appoggio discreto ma sostanziale del padre, era rimasta davvero sola. Con l’aggravante del tormento di un oscuro presentimento che aveva trascurato o, peggio, più o meno coscientemente elaborato come un inevitabile finale.  Sapeva da sempre dell’infelicità del padre, al quale non aveva mai avuto l’ardire di chiedere perché mai avesse sposato una donna come la mamma: figlia di un imprenditore che con una piccola azienda metalmeccanica aveva negli anni accumulato una solida ricchezza, era avara, conformista e superficiale, con un istinto innato per gli affari e per la scelta delle frequentazioni utili da coltivare. Aveva sempre lavorato nell’azienda paterna insieme al fratello e quando lei era piccola aveva fatto molte pressioni affinché il marito lasciasse il piccolo negozio di articoli per pescatori al quartiere Isola per entrare nell’azienda di famiglia, con mansione consona e adeguata retribuzione[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Ma il mite, evanescente Carlo, che aveva studiato Lettere e amava i classici della letteratura russa, nei quali si immergeva con incondizionata empatia nei tempi morti in negozio, aveva opposto un’ostinata ed estenuante resistenza passiva, finché la moglie non aveva desistito e lo aveva lasciato al suo negozietto in via Borsari, archiviando definitivamente quel matrimonio come un evidente errore, tuttavia non risolvibile con una separazione: per borghese perbenismo ma anche per carogneria pura. Nel corso degli anni successivi aveva gradatamente perso qualsiasi interesse nei suoi confronti, e così si erano ritrovati a condurre esistenze parallele che raramente si incrociavano davvero.

La stessa sorte era toccata alla figlia, che sin da bambina aveva manifestato una scellerata quanto rimarchevole similitudine con il padre, divenuta più evidente dall’adolescenza: il medesimo fondamentale disinteresse per il denaro, l’ineffabile svagatezza che implicava una certa disattenzione per il quotidiano,  ed infine l’uguale, evidente quanto vana superiorità intellettuale, una percepibile ampiezza di orizzonti che aveva reso Carlo tanto affascinante agli occhi della signora Gianna in un primo momento, ma che li aveva presto condotti ad una completa, perfetta incomunicabilità.

Quella sera, nell’appartamento in piazza Principessa Clotilde adiacente a quello nel quale viveva la madre, Olga osservava Fabrizio il quale seduto rigidamente sul divano guardava un programma televisivo. Ne osservava l’espressione chiusa e vagamente ostile del volto lungo e stretto dalla fronte alta, uguale a quella del figlio seduto accanto, appena più scomposto, concentrato sullo schermo del cellulare. Gli stessi fini capelli biondi e gli occhi chiari e sempre un poco vacui del padre, identica fisionomia lunga e dinoccolata, ed ugualmente noioso e privo di fantasia.

Non lo voleva, lei, quel figlio.

Aveva conosciuto Fabrizio quando, appena laureato in Ingegneria, era stato assunto nell’azienda di famiglia e poiché a sua madre piaceva molto se lo ritrovava sempre tra i piedi. Come a quella festa di Capodanno in cui lei aveva bevuto decisamente troppo per vincere la noia e il fastidio di una compagnia che non le interessava: era stato così che aveva concepito Mattia, e non si ricordava nemmeno se era stato bello.

Non lo voleva proprio, un figlio, ma poi si era lasciata condizionare da un sotterraneo bisogno di solidità e Fabrizio era certamente pragmatico e risolutivo, e così aveva accettato di sposarlo. Aveva appena vent’anni quando era nato Mattia e aveva dovuto lasciare l’Università, dove frequentava il Corso di Storia dell’Arte. Ecco, forse gli addebitava questa responsabilità, come se fosse lui colpevole della mancanza di perseveranza e dell’incapacità di organizzarsi che le avevano impedito di completare comunque gli studi.

In ogni caso, per quanto si fosse sforzata si era sempre sentita irrimediabilmente  in dissonanza con quel bambino che considerava un fastidioso incidente. Strano, un mammifero femmina che non sente il legame viscerale con la propria creatura. Anomalo, forse addirittura anormale. Ma non poteva farci niente e più passavano gli anni più il disagio si era accresciuto, e quella sera si ritrovò a sogguardare con limpido distacco quel figlio lungagnone ed estraneo che crescendo si era srotolato come un tappeto e che, cogliendo la sua freddezza, si era legato sempre di più al padre e alla nonna.

Le era quasi venuto da ridere, il giorno di San Valentino, quando dalla tasca della giacca di Fabrizio, che aveva tolto dalla gruccia porta abiti per portarla in lavanderia, era sfuggito un biglietto colorato: raffigurava due piccoli orsi seduti su un muretto e visti di spalle, che si tenevano per mano, o per la zampa, in un tripudio di cuoricini rossi. Sotto l’immagine, vergata in una calligrafia infantile e piena di svolazzi, una dedica che suggeriva una dichiarazione di intenti:

“in attesa di tempi migliori, con tutto il mio amore”.

Non avrebbe mai immaginato che suo marito fosse un tipo da biglietto di San Valentino. Con gli orsetti, poi. Faticava anche a immaginare Fabrizio nelle vesti di adultero: lui, così abitudinario e schizzinoso, poi francamente poco portato per il sesso, a voler usare un eufemismo. Aveva riportato la giacca in camera da letto lasciando il biglietto dove lo aveva trovato: solo, stracciato in quattro pezzi. Lo aveva fatto con la curiosità dello scienziato che vuole osservare il risultato di un esperimento, perché un tradimento non mutava né aggravava la distanza che si era insinuata e approfondita negli anni.

Non era successo assolutamente nulla. Lui aveva continuato a lavorare in ufficio con lo zio e a trascorrere due sere la settimana al circolo del tennis (sebbene a questo punto Olga lo immaginasse impegnato in altre attività ginniche che non richiedevano l’uso della racchetta), lei aveva seguitato a recarsi nel negozio di antiquariato in via Manzoni dove faceva la commessa, come non mancava di sottolineare sua madre masticando con scocciato disgusto ogni singola sillaba – com mes sa – prima di sputarla fuori.

Ma quella sera, pensando che non ci sarebbe stato più suo padre ad ascoltare i suoi sfoghi e i suoi voli pindarici con accorata complicità, Olga sentì che il rivolo che gorgogliava sommesso nella parte più celata del suo animo stava mutando voce fino a divenire un suono imperioso e potente, sebbene non riuscisse a comprenderne appieno il messaggio.

Si coricò tardi ma non dormì affatto: continuava a immaginare suo padre che qualche giorno prima aveva guidato fino a Bernate, aveva raggiunto la riva sassosa del Ticino sulla quale era solito pescare nella bella stagione, si era seduto e aveva ingoiato un intero flacone di barbiturici, che chissà dove si era procurato. Poi, infagottato nel vecchio eskimo, aveva aspettato di sprofondare nel sonno dal quale non si sarebbe mai più risvegliato, accompagnato dal frusciare lieve e confortante dell’acqua che scorreva veloce e vitale.

Non un rigo, niente. Sei mesi prima, all’età di settant’anni, si era deciso a chiudere il negozio: la sua latente deriva da quel giorno aveva subito una silente accelerazione, della quale Olga aveva confusamente intuito sia il pericolo che la fatalità, ma era stata poco più che una vaga sensazione.

Si sfilò dalle coperte,  si vestì, uscì di casa in punta di piedi e scese in garage. Salita in auto, girò un po’ senza meta guidando piano per le vie semi deserte, con i semafori che alle cinque del mattino lampeggiavano nella foschia umida a una luna preoccupata.

Le tornarono alla mente tanti pomeriggi della sua adolescenza trascorsi a studiare su un angolo del bancone del negozio, godendo della compagnia rassicurante del padre. Di tanto in tanto qualche cliente abituale attaccava interminabili bottoni narrando di epiche battute di pesca, di feroci lucci che si comportavano come mostri primordiali e di siluri che spaccavano qualsiasi lenza, per poi elucubrare sull’efficacia di mosche, cucchiaini e pasture varie.

Quando il nonno aveva iniziato l’attività aveva arredato l’ampio locale con dei mobili acquistati per pochi soldi da un rigattiere: recuperati da una vecchia drogheria, consistevano in un alto mobile a parete pieno di scomparti e cassettini con le maniglie in ottone e un lungo bancone in legno con il ripiano in marmo che riportava una vistosa scheggiatura nella parte centrale, ma non avendo i soldi per cambiarlo il nonno lo lasciò così, e suo figlio fece altrettanto anche quando avrebbe potuto sostituirlo. Volle invece cambiare nome all’esercizio, che da “Colombo Pesca Sportiva” divenne “L’Isola che non c’è”.

Successe alla fine del 2007. I nonni erano morti da un po’ e il quartiere venne inserito nell’ambizioso progetto di riqualificazione di Porta Nuova e Porta Garibaldi: forse suo padre volle alludere al fatto che l’Isola avrebbe perduto quella caratteristica di enclave un poco paesana dovuta anche all’antico isolamento geografico dal resto della città.

“Chissà che ne è stato del negozio, se è chiuso o se è ricominciata una qualche attività”,

mormorò Olga al buio e alla solitudine dell’abitacolo dell’auto. E a un tratto le venne un’idea: si trovava a Porta Garibaldi, si sarebbe fermata nel parcheggio di piazza Sigmund Freud e avrebbe aspettato che facesse chiaro. Poi, dato che non doveva andare al lavoro, avrebbe fatto colazione con tutta calma in piazza Gae Aulenti e da lì avrebbe raggiunto il negozio al quartiere Isola.

Cadde quasi all’improvviso in un sonno nero e privo di sogni, e quando si svegliò il rumore della città in movimento e la visione dei grattacieli incombenti la colsero di sorpresa: erano ormai le otto. Si sentiva indolenzita e aveva freddo, si ravviò i corti capelli castani e si rassegnò a portare in giro le occhiaie che segnavano gli occhi grigi come il colore del cielo.

Piazza Aulenti a quell’ora aveva un’aria meno conviviale e più da passaggio frettoloso. Un cappuccino e una brioche fragrante consumati nel tepore di un bar profumato di caffè appena tostato le tolsero il freddo dalle ossa, e si chiese se suo marito al risveglio si fosse stupito della sua assenza, concludendo che fosse abbastanza improbabile.

Lasciò la piazza e da via De Castillia prese per via Confalonieri. Dieci minuti dopo era in via Borsieri, passò davanti alla serranda abbassata del Blue Note e pochi metri dopo si ritrovò ad osservare la vetrina di un’agenzia di viaggi che aveva occupato il vecchio negozio di suo padre, mantenendo il nome “L’Isola che non c’è”.

Sbirciando attraverso la vetrina polverosa e assai poco attraente, dove vi erano esposti pochi cataloghi un poco sciupati e alcune locandine sbiadite che proponevano spiagge assolate e mari dalle acque cristalline, notò che l’arredamento era scarno e neppure in buone condizioni, e in quell’ambiente dall’aria sgangherata scorse solo un uomo anziano dietro il banco. Non avrebbe saputo dire quale misterioso richiamo la spinse ad entrare, forse la curiosità e l’affezione per un posto che apparteneva ai suoi ricordi.

L’uomo la accolse con un sorriso che corrugò ulteriormente il suo viso grinzoso, illuminato dagli occhi talmente chiari da sembrare trasparenti. Alto e magrissimo, pareva un vecchio hippy con quella lunga chioma candida, i jeans sdruciti e lo spesso maglione a disegni peruviani. Aveva le mani lunghe e scarne, e le dita erano ornate da numerosi anelli in argento che in parte coprivano dei complicati tatuaggi.

“…posso aiutarla?”,

e la sua voce baritonale, calda e vibrante, era senz’altro capace di superare qualsiasi barriera dell’animo, così lei si ritrovò a rispondergli

“…sì, se mi può dare un’altra occasione”,

e mentre si ascoltava parlare si chiese che mai intendesse dire, con quelle parole, e perché le stesse scagliando contro quello sconosciuto. Ma in quel locale che conosceva così bene e che non riconosceva affatto, dove ogni cosa appariva offuscata eppure chiarissima, le sembrava di stare in una dimensione appartata e sospesa. Fu del tutto normale accettare il tè nero e denso che il vecchio le offrì,

“…poi vaglieremo con calma le diverse possibilità”,

e mentre lo osservava versare l’acqua fumante nelle tazze da un bollitore ammaccato non le apparve nemmeno più tanto vecchio. Ebbe la certezza che con quello sguardo limpido le sapesse leggere dentro, e fu per questo che prese a raccontargli della sua vita, che la stava lentamente stritolando e della sensazione sempre più viva e ineluttabile di porre i piedi sullo stesso sentiero che aveva imboccato suo padre. E del moto di ribellione che stava divenendo sempre più pressante, insieme all’esigenza di un gesto risolutivo e spettacolare.

Il vecchio la ascoltò con attenzione, annuendo di tanto in tanto.

“… io le posso offrire una via di fuga. Dei documenti nuovi, con i quali potrà andare dove vorrà e ricominciare. Le suggerirei innanzitutto di prelevare tutto il denaro che possiede e quello sarà l’ultimo gesto da compiere con la sua vecchia identità. Si trasferisca in una qualsiasi città italiana, apra un conto con i nuovi documenti e poi si sposti nella località prescelta. Lì potrà intestarsi un altro conto sul quale trasferire il denaro dall’Italia. E sarà libera.”

Belize, Polinesia,  Tahilandia, Oceania. L’argine si ruppe, e la piena travolse qualsiasi dubbio, spazzando via ogni titubanza.

A mezzogiorno, Olga aveva già fatto delle foto tessera ed era passata dalla Banca per prendere accordi con un esterrefatto direttore per l’estinzione del suo conto corrente personale. L’indomani sarebbe passata a ritirare il denaro e poi i documenti. Infine sarebbe andata alla Stazione Centrale e avrebbe preso un treno, con destinazione ancora sconosciuta. Nonostante la notte pressoché  insonne, si sentiva sorretta da un’energia potente ed era elettrizzata al pensiero di uscire di scena in punta di piedi, senza nessuna spiegazione.

E fu di nuovo sera, e si ritrovò di nuovo di fronte a suo marito e a suo figlio, che consumavano svogliatamente la cena che lei aveva preparato con una certa cura, poiché dopotutto sarebbe stata l’ultima cena.

Eppure, un tempo aveva provato dell’affetto e della tenerezza per l’uomo con il quale aveva fatto un figlio, e dovette ammettere che forse la prima ad allontanarsi era stata lei, assorta in uno sterile livore per i suoi programmi saltati. E quell’incolpevole lungagnone, il diciannovenne scipito che era diventato suo figlio, non aveva chiesto di venire al mondo, ci si era ritrovato.

“Sei uscita presto, stamattina”.

E allora comprese cosa doveva e voleva fare:

“Ho molto riflettuto in questi giorni e vorrei essere meno brutale, ma non so dirvi altro che questo: io me ne vado. Tu, Fabrizio, potrai infine vivere la tua relazione con la donna che frequenti da un po’ e tu Mattia, starai sicuramente bene con tuo padre. Chissà, forse un giorno finalmente ci incontreremo, di sicuro non ora. Io mi trasferirò nella casa dei nonni all’Isola, papà l’aveva rimessa un po’ a posto e non aveva mai voluto venderla o affittarla. E’ ora di prenderseli, i tempi migliori”,

concluse con un sorrisetto neppure tanto sarcastico. Padre e figlio erano immobili, la medesima espressione sbalordita nella quale si insinuava lentamente un palese sollievo, ma anche del rispetto e persino dell’ammirazione per la donna che aveva finalmente deciso per tutti.

Olga pensò che l’indomani, invece di prelevare i contanti, avrebbe aperto un conto in un’altra banca milanese e vi avrebbe fatto trasferire il denaro: in fondo, il Direttore della vecchia banca tanto amico della signora Gianna le era sempre stato antipatico, via anche lui. Prima però sarebbe passata dal vecchio dell’agenzia viaggi, anche se i documenti non le interessavano più, e tutt’al più glieli avrebbe pagati lo stesso.

Mentre camminava seguendo lo stesso itinerario del giorno precedente si sentiva leggera,  pensava che non aveva ancora quarant’anni e avrebbe anche potuto iscriversi all’Università, e fare un sacco di altre cose, ora che ne aveva voglia. Un timido, tiepido raggio di sole si sforzava di perforare la coltre di nebbia sporca che offuscava il cielo di Milano. Arrivò davanti all’agenzia viaggi, ma la serranda era abbassata e attraverso la grata si scorgeva il locale vuoto, e la vetrina del tutto disadorna e polverosa. Che fine aveva fatto il vecchio hippy, con i suoi cataloghi sgualciti, quei quattro mobili scalcagnati e il bollitore del tè? Per fortuna non aveva pagato alcun anticipo per i documenti, ma le sarebbe piaciuto dirgli che infine aveva affrontato e risolto la situazione, e dunque non sarebbe fuggita.

Entrò nel bar situato pochi metri più avanti, e chiese al cinese dal volto tondo e pacioso che armeggiava con la macchina del caffè che cosa fosse successo all’agenzia lì accanto.

“Agenzia viaggi? Io sono qui da un anno, ma dopo che ha chiuso il negozio di articoli per pescatori il locale è sempre stato vuoto. Mai visto nessuno lì dentro, e non ho nemmeno mai incontrato quel vecchio, me lo ricorderei”.

Olga si precipitò in strada, alla ricerca dell’aria che tutt’a un tratto le era venuta a mancare, insieme al terreno sotto i piedi.

E avrebbe giurato che il vecchio fosse là, sul lato opposto della strada, con quel maglione di lana ispida troppo lungo e troppo largo e un sorriso fanciullesco che increspava il volto rugoso, mentre la guardava e annuiva col capo.

Fu solo un istante, poi il mondo smise di girare e Milano tornò al suo posto, e tutto fu di nuovo normale e familiare. Tutto, tranne quel vecchio bollitore ammaccato, così fuori posto in mezzo al marciapiede.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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