Scrivo immersa in una pineta a pochi metri dal mare, uno dei tanti micromondi presenti all’interno del Forte Village, una specie di Sardegna in miniatura che in questo momento ospita due microcommunity: una convention Skoda e Linkontro Nielsen, il motivo per cui sono qui.
Sono entrata al Forte Village giovedì mattina e ne uscirò domenica pomeriggio, come immagino gran parte di chi è qui non per lavoro ma in vacanza: è un posto meraviglioso e pensato perché sia possibile riposarsi da tutto, dall’auto al dover pensare dove andare, cosa fare, dove cenare, in che spiaggia fare il bagno. Palme, pineta, prato, spiaggia, tennis, calcetto, SPA, piscina. Un tempo questo era il mio ideale di vacanza, soprattutto da adolescente, quando i miei genitori ci trascinavano in spiagge libere o in lunghi viaggi on the road, orfani di uno dei miei posti del cuore perché patria delle vacanze d’infanzia, il Villaggio Guglielmo a Copanello.
Le prime vacanze da sola, potendo scegliere, le ho sempre fatte in villaggi o in situazioni selvagge ma controllate, chiuse, come il Centro Velico di Caprera, che fa il paio con il Villaggio Guglielmo nel capitolo paradisi perduti in cui ho paura di tornare perché potrei scoprire che non mi ci trovo più perché non sono più quella lì.
Ci sto ancora bene, qui, soprattutto in spiaggia, che è bianca, lunga e stretta, bellissima e selvaggia anche quando addomesticata, come molte spiagge sarde. Dalla finestra vedo i pini e la chiave della mia bella e ampia camera è una pigna dorata, la resina profuma tutto e il vento e gli uccellini fanno da colonna sonora. Ci verrei di mia spontanea volontà? Non più. Sono diventata i miei genitori, anche se sono molto più viziata di loro (e da loro). Quello che un tempo mi sembrava indispensabile, e cioè arrivare in un posto dove chiudere fuori tutto il resto e fare amicizia con chi trovavo, adesso mi fa sentire claustrofobica e per quanto ami la spiaggia qui continuo a pensare a tutti i posti che potrei vedere nel giro di poche decine di chilometri.
Forse non sono strana, almeno a giudicare dai dati: Dan Peltier scrive su Skift
“travelers now use their smartphones to make discoveries while they’re in a destination and find local hidden gems not on tourist maps.”
Non voglio più visitare un posto, voglio viverlo: qui siamo oltre la tradizionale dicotomia tra turista e viaggiatore, perché sempre più spesso vogliamo vivere prendendo a prestito le esperienze e le abitudini di chi in una città o in un luogo vive tutti i giorni dell’anno. Non a caso, sempre più spesso, affittiamo un appartamento invece di prenotare una stanza d’albergo e ci spostiamo di vita in vita cambiando pelle ogni due giorni.
Si scontrano così due modelli di turismo: l’accoglienza professionale e l’ospitalità culturale. La prima vede il turismo come responsabilità degli albergatori e delle destinazioni turistiche: i turisti (o viaggiatori) arrivano in un posto e ci si prende cura di loro offrendo una dimensione parallela del luogo, un suo doppio. L’ospitalità è invece una conseguenza della qualità della vita in un posto nel senso più ampio possibile, senza fermarsi ai pubblici esercizi pensati per chi viene da fuori. In questa dimensione il cibo è sicuramente quello che fa la differenza tra un posto e l’altro. Cibo che ci vede sempre più esigenti e competenti: come evidente dalla ricerca Health, Wellness & Nutrition più che mangiare tanto vogliamo mangiare bene e sano allo stesso tempo, aggiungo io anche in viaggio.
Non so quale dei due modelli – l’accoglienza o l’ospitalità – vincerà, ma so che il primo deve prendere ispirazione dal secondo per adattarsi alle nuove esigenze di sempre più persone che vogliono immergersi in una cultura e non rinchiudersi in una sua declinazione.
sull’argomento potresti viverci da qui alla pensione con corsi di formazione a ristoratori e albergatori di firenze che non conoscono la materia.
È un po’ quello che faccio, ma ho paura che sia un qualcosa che o intuisci da solo o non accetti neanche se ti fanno la cura Ludovico