L’ultimo colpo

“Mi sono chiesto anche io, tante volte, perché sono diventato bandito e ho pensato che l’unica ragione, l’unico motivo, è stata la Milano dei tempi di guerra. Ero giovane, a quell’epoca, sono nato nel 1922 e Milano era distrutta dalla guerra, interi quartieri erano rasi al suolo. Anche la mia casa, la casa di mia madre e delle mie sorelle. Sono diventato un bandito perché vedevo tutte le mattine mia madre alzarsi alle quattro e fare la coda per ore, per avere mezzo chilo di pane. E anche perché tutta Milano era così: c’era una metà della città che viveva sull’altra metà, una prendeva all’altra e l’altra subiva”. (Ezio Barberi, illustre rappresentante della ligera all’Isola negli anni ’40, in un’intervista all’Europeo del 1971).

Pioveva come non dovrebbe mai piovere in una mattinata di fine giugno, nemmeno a Milano: un’acqua fitta e pungente che precipitava inesorabile dal cielo di un grigio malevolo. O forse invece era proprio il tempo più adeguato a un funerale, come se la città intendesse così esprimere un silenzioso cordoglio, anche se il defunto era un ladro.

 Occorre tuttavia precisare che Giovanni Spertini, detto brevemente il Vanni, era sempre stato un ladro onesto, per quanto l’affermazione possa apparire balorda. Egli apparteneva all’ultima generazione di ladri che si attenevano senza deroghe a un rigoroso codice d’onore: niente armi, nessuna violenza, non ci si immischia con la droga e, soprattutto, non si ruba ai poveretti, semmai li si aiuta. Una razza di ladri ormai scomparsa; lo sapevano bene i componenti dello sparuto gruppetto che accompagnava il feretro nel campo del Cimitero Maggiore più lontano dalle cappelle di famiglia e dalle tombe monumentali, un campo irto di lapidi modeste, molte delle quali evidentemente dimenticate da anni. Allo scarso riparo di un unico ombrello nero, quattro uomini si stringevano gli uni agli altri con il medesimo malinconico disappunto dei gatti randagi sorpresi dall’acquazzone.

Apparivano impacciati, nelle striminzite giacchette riesumate per necessità dal fondo polveroso di qualche vecchio armadio e palesavano, nei volti come nelle figure, i segni inequivocabili della sconfitta. Eppure, qualcosa suggeriva che essi si fossero ben adattati a interpretare il ruolo di perdenti e lo sapessero fare con l’impareggiabile lievità della noncuranza.

Il sacerdote officiante, al pari dell’unico svogliato chierichetto che gli reggeva l’ombrello a braccio teso, aveva fretta di terminare quel funerale modesto. Vi erano       appena quattro facce da spender poco che se ne stavano in disparte a guardare il cuscinetto di fiori ormai fradici di pioggia, posato sulla bara da quattro soldi. Sulla floscia striscia viola dai bordi dorati campeggiava un’unica scritta: Grazie (“ma grazie di che? E da chi, poi?”, pensava il prete stizzito).

I quattro si avviarono in silenzio lungo il viale principale verso l’uscita; una volta fuori ristettero per qualche istante a osservare la facciata austera, infine volsero le spalle al luogo in cui tutto si conclude. Nessuno di loro riponeva grande fiducia in un’eventuale vita ultraterrena: diversamente, avrebbero dovuto prendere in considerazione un paio di concetti scomodi come il peccato e l’espiazione, e preferivano farne a meno. Tanto, avevano intuito fin da piccini che di Santi in Paradiso disposti ad accogliere le loro preghiere ne avrebbero trovati ben pochi, dunque era meglio arrangiarsi.

“È finita un’epoca, bisogna farsene una ragione e tirare i remi in barca”,

mormorò a mezza voce quello che sembrava il più anziano della strapelata compagnia, in realtà un cinquantenne precocemente incanutito la cui specialità consisteva nell’apertura delle casseforti da appartamento. Per via del suo aspetto sgualcito da vecchio, lo chiamavano Nonno da tanto di quel tempo da averne scordato il vero nome.

Erano i figli della ligera, gli ultimi sopravvissuti ancora a piede libero di una malavita meneghina di modesto cabotaggio già avviata all’estinzione dall’inizio degli anni ’60, quando a Milano giunsero le famiglie malavitose dal Sud e iniziarono guerre sanguinose per la spartizione del territorio e degli affari illeciti. Non più ligera, malviventi di piccolo calibro che tiravano a campare faticando il meno possibile, una sorta di romantici banditi che sovente distribuivano soldi ai più bisognosi del quartiere di residenza in cui erano profondamente radicati, ma criminali senza scrupoli né pietà.  L’ennesima prova di tale mutazione risaliva a sette mesi prima, nel novembre del ’79, quando nel ristorante “La Strega”, al numero 22 di via Moncucco, gli uomini di Angelo Epaminonda si scontrarono con la banda di Francis Turatello, arrestato un paio d’anni avanti. Avevano un obiettivo e non volevano testimoni, così li ammazzarono tutti, anche la cuoca.

In parte per via di sani principi e un poco per pavidità (erano spavaldi ma non temerari né spregiudicati), non si erano mai decisi a seguire il nuovo corso della mala milanese, quello delle audaci rapine a mano armata iniziato dalla banda di via Osoppo e proseguito con le imprese del bel René, quel Vallanzasca della Comasina che comunque era finito presto e male.

Già superati anche quelli, peraltro; i tempi correvano troppo in fretta mentre loro restavano sospesi tra le ragnatele di un evo scomparso, muovendosi come certi acrobati sul filo che separava il lecito dall’illecito, privi di rete di protezione.

Avevano dovuto infine rassegnarsi a svolgere senza troppo impegno lavori per lo più precari e con un ampio margine di tempo libero: negli intervalli sempre più lunghi tra un furto e l’altro il Nonno passava i pomeriggi allo Zoo dei Giardini Pubblici, con il suo mazzo di palloncini colorati mollemente fluttuanti all’altro capo del filo; Carletto vendeva gelati e bibite agli spettacoli pomeridiani del cinema Capitol e riforniva l’Isola di sigarette americane di contrabbando; Enzo raccoglieva le scommesse legali, ma non solo quelle, in uno degli appositi gabbiotti allo sferisterio della pelota di via Palermo; Alfredo riparava apparecchiature elettriche nel negozietto del Vanni ed era colui che lavorava con maggiore regolarità. Il furto era un’attività che assomigliava sempre di più a un passatempo di scarso rendimento al quale dedicarsi nei ritagli di tempo. Altro che bella vita, auto sportive e donne facili: erano ingenui farabutti un poco spelacchiati che faticavano a sbarcare il lunario, ma camminavano da troppo tempo sul lato sbagliato della via per convincersi a cambiare direzione.

“A Milano girano un mucchio di soldi, ma oramai sono roba di quelli che sparano: a noi restano i furti negli appartamenti, i pezzi di ricambio di auto e moto, qualche magazzino di elettrodomestici mal custodito, un po’ di contrabbando di sigarette, le scommesse alla pelota basca e i borseggi sui tram, quando proprio butta male. Con il gioco delle carte abbiamo chiuso, le famiglie del Sud si sono prese tutte le bische di Milano”,

fece Carletto, il quale da sgamato giocatore d’azzardo aveva dovuto riconvertirsi in topo d’appartamento.

“Va bene che non abbiamo mai pensato di diventare ricchi, ma così manco si campa, porca l’oca”,

aggiunse Enzo.

“Guardate il Vanni, non aveva nemmeno i soldi per il funerale e noi con la colletta abbiamo potuto dargli appena una cerimonia da povero diavolo”.

“Ma noi siamo dei poveri diavoli, Enzo”,

concluse Alfredo.

Era stato proprio Alfredo a volere quel Grazie sul cuscino di fiori e gli altri, comprendendone il significato, non avevano posto obiezioni.

Era il giorno del suo diciottesimo compleanno, una radiosa giornata di maggio del ‘53. Alfredo varcò la soglia dell’orfanotrofio di via Pitteri per l’ultima volta; in tasca aveva i soldi guadagnati negli ultimi anni nella bottega dove gli avevano insegnato il mestiere di elettricista e l’indirizzo di un prete di Baggio che lo avrebbe aiutato a trovare un alloggio e un lavoro. Non ci andò mai, da quel prete: ad aspettarlo là fuori trovò il Vanni, il quale manteneva la promessa fatta alla madre del ragazzo poco prima che questa morisse. Doretta era una sua amica d’infanzia bella e sventata, finita assai giovane a fare la spogliarellista nei night club più scalcagnati di Milano. Rimase incinta, ebbe una gravidanza difficile e l’aiutarono gli amici dell’Isola, il rione nel quale abitava. La levatrice che la fece partorire disse subito che c’erano complicanze, lei non ne volle sapere di andare in ospedale.

“Vanni, devi fare due cose per me. La prima: oggi stesso molla il bambino dai Martinitt, io non ho nessuno, almeno lì lo faranno studiare e gli daranno da mangiare. Coprilo bene anche se è primavera e appuntagli un biglietto con su scritto “Alfredo, 10 maggio 1935”. La seconda: trova qualcuno che ti tenga informato e se non lo adotterà nessuno, il giorno del suo diciottesimo compleanno vai a prenderlo e tienilo con te. Se deciderà di fare il ladro, almeno che impari da uno bravo. Promettilo, ti prego”.

Il Vanni promise, fece ciò che gli aveva chiesto e Doretta spirò la sera stessa in pace, per quanto si possa morire in pace a vent’anni. Il Vanni fu sincero, riferendo ad Alfredo che Doretta non aveva voluto rivelare l’identità del padre: ciò che omise fu il fatto che, poiché la ragazza usava prostituirsi con i clienti del locale ove lavorava, non aveva la minima idea di chi fosse.  Per Alfredo Di Maggio (fu quello il fantasioso cognome affibbiatogli dall’inserviente dell’orfanotrofio che lo accolse, quel lontano giorno di primavera) il Vanni rappresentò la famiglia che non aveva avuto e quando egli fu stroncato da un infarto mentre sorbivano la prima tazza di caffè del mattino in cucina, non era pronto a perderlo. In fondo se ne era andato come aveva sempre desiderato: “quando è ora un colpo secco e via, da non accorgersene nemmeno”, diceva sempre. Certo, magari non così presto, poco prima del suo sessantacinquesimo compleanno.

In tutti quegli anni Alfredo aveva affiancato il Vanni nel negozietto dove questi riparava (quando non aveva di meglio da fare) radio e piccoli elettrodomestici; soprattutto aveva imparato i segreti dello scasso e più tardi, dopo il corso per corrispondenza alla Scuola Radio Elettra Torino, anche quelli degli allarmi antifurto. Non possedendo una natura avida ed essendo buono d’animo, non faticò ad adottare le regole predicate dal Vanni e dalla sua combriccola. Poiché il Vanni aveva amato Doretta come si ama una sorella, tutti conoscevano Alfredo come suo nipote, tranne gli amici presenti al funerale.

 Smise di piovere nel primo pomeriggio e un vento allegramente impetuoso ripulì il cielo sopra Milano, ridipingendolo di un azzurro sfacciato. Persino il Cavalcavia Bussa rivelava una misteriosa bellezza, apparendo come un temporaneo passaggio da un qui a un lontanissimi, per sempre separati da un arcano incantesimo che aveva le sue insondabili ragioni.

La sera si ritrovarono tutti al bar tabacchi di via Jacopo Dal Verme, che frequentavano da tempo immemore e dove Alfredo ricevette le condoglianze degli avventori abituali. Tutti all’Isola sapevano come vivessero il Vanni, Alfredo e gli altri; seppure non approvassero quello stile di vita, accordavano loro una certa indulgenza: in passato molti avevano avuto modo di conoscerne la generosità e li consideravano galantuomini passati di moda, accettandoli come parte di una comunità esclusiva e molto solidale.

Anche il Vichingo, il marcantonio biondo che sembrava un Cristo che non si sarebbe mai lasciato inchiodare a una croce, si era avvicinato con evidente imbarazzo ad Alfredo e, senza dire una parola, gli aveva stritolato la mano nelle sue. Strano tipo, quello. Di notevole presenza scenica, un po’ bauscia nei generosi resoconti delle sue conquiste amorose, parlava con tutti ma non si legava davvero a nessuno. E aveva una gran moto, una Harley Davidson Electra Glide tutta cromature e nero. Certo, per quanto avesse le spalle larghe (e le aveva), anche lui portava sul groppone una storia piuttosto pesante. Gliel’aveva raccontata per filo e per segno lo zio Vanni, giusto un sabato sera di cinque anni prima.

“Pensavo, zio: secondo te quanto ci si può ricavare, da quella moto?”

“…non scherzare, Alfredo. Il Vichingo non si tocca: suo padre, l’Evasio, era mio amico e lo ha accoppato quella megera della moglie per gelosia. Ora lui è il protetto del Gildo, il padrone dell’officina dove lavora, in via Carmagnola. E il Gildo era uno di noi, poi ha trovato quella bella figliola della Tosca che lo ha preso per la collottola e lo ha rimesso sulla retta via”.

Aveva rivelato che il Gildo era anche il proprietario del negozio e del soprastante appartamento in via Strabone per i quali pagavano (e nemmeno con tanta regolarità) un affitto simbolico, ma questo la Tosca non lo sapeva, come ignorava che lui, il Vanni, in gioventù si fosse fatto un paio d’anni al gabbio tacendo sulla complicità in un furto del più giovane amico. Del resto, l’Isola è un posto ricco di segreti e con qualche scheletro ben chiuso negli armadi.

Da quel momento, Alfredo aveva tolto gli occhi dalla moto e guardato con simpatia il biondo Vichingo, considerando tra sé che forse nascere orfani non è nemmeno la peggiore delle disgrazie.

Alfredo rigirava pensoso il cucchiaino nella chicchera del caffè senza decidersi a berlo. La faccia lunga dai lineamenti delicati, di una grazia quasi femminea, era segnata dalla stanchezza delle ultime notti insonni.

“Sapete, il Vanni nelle ultime settimane si era fissato su una cosa”.

Narrò agli amici di come, nel suo girovagare notturno apparentemente ozioso, egli si fosse accorto di certi movimenti in via Sammartini, dove i locali dei Magazzini Raccordati (prima depositi di merci arrivate per ferrovia, in attesa di passaggio alla Dogana, poi sedi di attività commerciali e artigianali) erano in disuso e tutti chiusi da semplici lucchetti. Al riparo di un cumulo puzzolente di rifiuti aveva osservato alcuni ceffi introdurre una cassa lignea in uno dei vani, montare una porta di ferro con tanto di tastierino dell’allarme e celarla con un’innocua vecchia porta di legno, chiusa come le altre da catena e lucchetto. Lo aveva convinto a curare la zona per diverse notti, mentre egli montava la guardia di giorno e non avevano mai visto entrare o uscire nessuno.

“Telecamere sulla via non ce ne sono e quel tratto è scarsamente illuminato; i balordi che si bucano si radunano nel tratto precedente, dove hanno sfondato le porte di alcuni locali. Io dico di andare a vedere”.

Puntualizzò che aveva fotografato il tastierino dell’allarme con la Polaroid per studiarlo e, per quanto fosse piuttosto sofisticato, era certo di poterlo disattivare. Non impiegò molto a convincerli; decisero con una certa solennità che quello sarebbe stato l’ultimo colpo, in memoria del Vanni e suggellarono il patto con un’alzata di bicchieri di rosso della casa.

Si mossero il lunedì successivo, serata tradizionalmente fiacca in cui le vie di Milano dopo una cert’ora erano deserte e attesero l’ora più buia, le due. Il cielo era coperto da nuvole spesse e a rischiarare la via non comparve nemmeno la luna. Smontata la porta di legno con l’aiuto del Nonno che ora gli guardava le spalle, Alfredo armeggiò per quasi un’ora con l’allarme mentre sull’altro lato della strada Enzo faceva il palo, coadiuvato dal Carletto alla guida del furgone Westfalia che era stato del Vanni. Infine, Alfredo e il nonno entrarono.

“Lupo chiama Zebra, qui fuori tutto tranquillo”,

gracchiò la ricetrasmittente nella tasca del Nonno.

“Fa minga el pirla, Carletto. Occhi aperti e bocca chiusa, che non è un telefilm”.

Nel locale trovarono solo la cassa descritta dal Vanni; sollevandola si scambiarono un’occhiata perplessa: era leggera, troppo leggera. Caricarono in fretta, Alfredo riuscì a ricollegare l’allarme, rimontarono anche la porta di legno chiudendola con catena e lucchetto e si allontanarono indisturbati.

Aprirono la cassa senza troppe aspettative nel retrobottega del negozio, un’ampia stanza collegata a un cunicolo che, attraverso le cantine, da Via Strabone sbucava in via Jacopo Dal Verme. All’interno, protetti da un mare di palline di polistirolo, scovarono quattro cilindri di alluminio chiusi da un tappo a vite e un involto in velluto nero. Quando scoprirono cosa avevano rubato, rimasero per qualche istante inebetiti.

“…ragazzi, queste pietre a occhio son tutte da un carato”,

mormorò il Nonno, gli occhi di un celeste slavato che brillavano come i diamanti che aveva sparpagliato sul tavolo da lavoro.

“Sì, ma mi sa  che abbiamo pestato i calli a qualcuno di grosso. Io non m’intendo di quadri, ma le tele nascoste nei cilindri di sicuro avranno grande valore. E come le piazziamo? Noi conosciamo tanti ricettatori che potrebbero ritirare le pietre, ma se tentiamo con i quadri ci beccano subito, questi sono sempre furti su commissione.

Tutti guardarono Alfredo. Sebbene egli fosse di qualche anno più giovane degli altri, i quali erano sulla cinquantina, Alfredo era tacitamente riconosciuto come legittimo successore del Vanni, loro storico capobanda. Questi ragionò per diversi minuti in silenzio, osservando lo sfavillio dei diamanti sotto la luce della lampada.

“Sentitemi bene: siamo nei guai e non è la polizia che mi preoccupa. Vengono buoni i passaporti falsi che ci aveva preparato lo zio per precauzione un paio d’anni fa. Era anche un bravo falsario, lo sapete, e diceva che dovevamo prepararci per l’ultimo colpo, quello che ci avrebbe cambiato la vita. E però, le nostre strade dovranno dividersi per sempre. Cinque giorni per sistemare le cose, poi ci saluteremo”.

Proseguì spiegando come fosse necessario vendere i diamanti a quattro ricettatori diversi e poi filare a Linate con i soldi (tanti, di sicuro) e i documenti falsi per volare in qualche posto remoto, non fermandosi mai a lungo nello stesso luogo. In quanto ai quadri, non era roba per loro.

“Sapete che facciamo? Ognuno si prende una tela e il giorno della partenza la abbandona…non so, nel cortile della Pinacoteca di Brera o di Palazzo Reale. O magari della Questura di via Fatebenefratelli, in modo che comunque finiscano in buone mani”.

Si erano divisi le pietre in parti eguali e nel tardo pomeriggio del quinto giorno avevano in tasca il denaro: era certamente inferiore al valore reale ma era più di quanto avessero mai visto in tutta la loro vita; d’altronde avevano fretta di alzare i tacchi e ciò aveva impedito loro di dilungarsi nella trattativa. Si ritrovarono nuovamente nel retrobottega del negozio di Alfredo e si abbracciarono, commossi e stralunati, rendendo grazie al Vanni e ai suoi inaspettati doni.

Alfredo era pronto per partire, tuttavia tergiversava, girava a vuoto per le stanze della casa che lo aveva accolto da quando aveva diciott’anni ed era appena uscito dall’orfanotrofio. Fu preso allora dalla curiosità di guardare con più attenzione il quadro rubato. Lo dispiegò con delicatezza, era piuttosto grande e gli venne l’idea di collocarlo in una cornice a giorno della giusta misura, al posto di una brutta stampa del Duomo di Milano. Vattene, va via subito da qui, gli suggeriva il buon senso, ma egli si lasciò andare sul divano affranto da uno sfinimento opprimente, tutto intento a osservare quella tela: ritraeva una donna seduta di fronte a una sedia vuota al tavolino tondo di un bar, o forse di una tavola calda. Reggeva una tazzina con una mano, indossava un cappotto verde e un triste cappello dall’alta cupola, giallo come il termosifone posto a fianco del tavolo; alle sue spalle un’ampia vetrata si affacciava sul buio insondabile di un paesaggio ignoto. Il volto, rischiarato dal riflesso di una fila di lampade al neon sulla tovaglia bianca, era inespressivo, assente o del tutto disinteressato.

Alfredo pensò all’Isola, un luogo familiare e caro destinato a divenire ostile poiché presto qualcuno li avrebbe scovati; pensò alla Rosa, all’Emilia, la Fiammetta, la Paola, tutte quelle ragazze che aveva amato un poco e per un poco, senza conservarne nemmeno una; pensò al Vanni, al suo affetto ruvido, allo schietto disincanto e alla capacità di riderci sopra. Si sentì desolatamente solo, al pari della donna nel quadro, circondato da un’oscurità momentaneamente dissipata da un lampo di luce che disvela colori freddamente violenti. Sentì il dispiacere premergli il petto mentre gli occhi si gonfiavano di un pianto asciutto, poiché le lacrime non trovavano sfogo e si riversavano all’interno, in mille rivoli corrosivi. Senza il Vanni, quella vita da acrobati disperati non aveva più senso, fuggire per tutta la vita in solitudine ne aveva anche meno. La valigia giaceva ai suoi piedi, il denaro celato in un doppio fondo, la prima tappa sarebbe stata Lugano per aprire un conto in una banca svizzera. Seguitò a rimanere immoto davanti al dipinto, abbattuto da un inconsolabile scoramento. Ebbe a un tratto l’impressione che il volto della figura solitaria si fosse animato: lo sguardo era ora fissato su di lui, poté distinguere gli occhi scuri, quietamente malinconici. Poi vide le labbra color carminio schiudersi in un sorriso dolce e la mano posare la tazza per tendersi verso di lui, in un gesto d’invito.

 

Il giorno dopo, dei forestieri giravano per l’Isola. Non posero domande ad alcuno, possedevano già tutte le informazioni e avevano fatto due più due, così andarono dritti a casa del Nonno, di Carletto, di Enzo e di Alfredo: vi trovarono solo le tracce di una partenza frettolosa, e nient’altro. Tranne che a casa di Alfredo, dove l’ometto distinto con gli occhiali tondi, scortato da tre giganti di aspetto assai meno raccomandabile, rimase per un poco dinanzi al quadro nella cornice a giorno, il viso grinzoso paonazzo per l’ira trattenuta.

“Questo qui ci ha pure presi per il culo: ci ha lasciato un falso perfetto, identico all’originale in tutto e per tutto. Tranne per il fatto che manca la donna”.

Non si curarono nemmeno di smontarlo dalla cornice per esaminarlo meglio, non ne valeva la pena.

Nelle settimane successive, sui giornali si scrisse di tre quadri rinvenuti nel cortile interno della Questura di via Fatebenefratelli, dove erano stati evidentemente scaraventati nottetempo da ignoti. Provenivano nientemeno che dal Whitney Museum di New York e dal Des Moines Art Center nell’Iowa, dai quali erano stati clamorosamente sottratti diversi mesi prima. Mancava però una quarta tela, opera di un importante autore americano, di cui non si seppe mai più nulla.

Il Carletto, il Nonno e l’Enzo, gli ignoti menzionati dai mezzi d’informazione, rimasero tali: ebbero la saggezza di contentarsi di poco come erano abituati a fare da sempre; camparono a lungo facendosi dei nuovi amici e ripensando con nostalgia a quelli vecchi. Alfredo invece aveva varcato una soglia afferrando al volo la valigia e, tenendo per mano la donna che aveva ritrovato il sorriso, era uscito da quell’anonimo locale. Fuori era buio, ma sarebbe presto sorto il sole e avrebbe svelato l’inizio di un nuovo giorno.

Alla fine, coloro che ebbero la peggio furono i ladri, quelli bravi, che si trovarono a dover raccontare un’incredibile storia a gente ben più tosta di loro e passarono dei brutti quarti d’ora.

All’Isola qualcuno si chiese per un po’ che fine avessero fatto quei quattro balordi dopo la morte del Vanni, poi pian piano la gente smise di porsi domande, almanaccando sulle ipotesi più fantasiose. Il Gildo riprese possesso dei suoi locali e dovette spiegare due o tre cose alla Tosca, la quale dapprima s’infuriò per essere stata tenuta all’oscuro, ma le passò in fretta. Volle portarsi a casa quello strano quadro che raffigurava un locale vuoto: al Gildo non piaceva affatto, lei invece diceva, scherzando, che era certa che prima o poi a quel tavolo si sarebbe seduto qualcuno.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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