Manzini e Rocco Schiavone, il noir con una fitta al cuore

“Eh ma era meglio il libro”

si dice sempre quando un romanzo o un personaggio vengono portati sullo schermo, in un film o serie TV; ma qui, nella nostra rubrica delle #LettureInclinate, ben difficilmente ci intratteniamo sulle trasposizioni dei nostri amati libri: non ci interessa, noi amiamo la narrazione, lo scritto, la carta (o anche lo schermo di un Kindle, o l’audio-lettura, per chi vuole).

Oggi però è difficile non riferirsi alla serie Tv sulle gesta di Rocco Schiavone, non foss’altro che per la faccia di Marco Giallini, che, come accade spesso e volentieri, ormai si sovrappone al poliziotto come lo conosciamo dai romanzi di Antonio Manzini (Roma, 1964); noi però, che della serie Tv non abbiamo visto nemmeno un minuto, siamo qui per dire che Manzini è un ottimo narratore, ed ha creato un personaggio complesso, aspro, vero, sardonico, scanzonato, disilluso.

Oggi parliamo del primo romanzo che Manzini ha scritto con Rocco Schiavone: Pista Nera (Sellerio, 2013, pagg. 273, Euro 13).

Ma prima di parlarne, vediamo un attimo di inquadrare questo tipo di narrativa, perché come abbiamo spesso avuto modo di argomentare, dire “giallo” o anche “poliziesco” è troppo comodo, troppo limitativo, poco preciso; abbiamo già discusso di questo con due autori, il primo è un colosso, James M. Cain, quello de “Il Postino Suona sempre Due Volte”, di “Mildred Pierce” e de “La Ragazza dei Cocktail”, fra i fondatori del noir americano; il secondo è italiano, milanese, ed è Alessandro Robecchi, con Monterossi ed i suoi poliziotti che si muovono a Milano, ma forse, meglio dire, dentro la città, o sotto di essa.

Manzini, attore, sceneggiatore e regista, oltre che scrittore, fa certamente parte a pieno titolo del “noir italiano”, insieme allo stesso Robecchi, a De Giovanni, al grande maestro Giorgio Scerbanenco e ad alcuni altri, come Carlotto e Lucarelli.

Thriller, giallo, poliziesco, hard boiled, noir…è un mondo vasto questo, ma se volessimo tornare sul punto, dovremmo ricordare la definizione proprio di Alessandro Robecchi, che introduce un elemento di analisi sociale, nel noir: non si cerca di scandagliare “il come” una persona è stata uccisa (perché ovvio, il morto c’è sempre, o quasi), il “chi” la abbia uccisa, ma anche “il perché” lo abbia fatto, dove quindi l’indagine su un omicidio diventa un’indagine sulla società, sulle ingiustizie, sulla disuguaglianza, sui rapporti fra le persone.

E allora torniamo al nostro Manzini, ed al Vice-Questore Rocco Schiavone: come si addice al noir, siamo in una città, in un commissariato, fra gli sbirri, ma capiamo subito che Rocco è via, è lontano dalla sua Roma, è stato trasferito in quel di Aosta.

Anche qui, sempre da manuale, ci sono i suoi sottoposti e Manzini non ci fa mancare un contesto abbastanza classico: i poliziotti un po’ scemotti, quelli più svegli e intelligenti, la giovane sbirra rampante, le macchine un po’ scrause, il caffè schifoso, gli orari assurdi e lo stipendio da fame, la grama vita da caserma. Rocco Schiavone non è più a Roma perché deve averla combinata grossa, è un uomo consumato dal suo passato, intristito non sappiamo bene da cosa, uno sbirro furbo e abile, incurante delle regole quando si rolla una canna in ufficio, tosto coi sottoposti, quasi disperato per la mancanza della sua Roma e di Trastevere, roso da qualcosa che il lettore capisce esserci, lì, pronto a essere rivelato.

C’è naturalmente un morto, sulle piste sopra Aosta un uomo viene ritrovato a pezzi sotto una coltre di neve, maciullato da un gatto delle nevi che passava di lì; parte l’indagine, Rocco va sulle piste con le sue inseparabili Clark (“Io quelle betoniere che portate voi ai piedi non le metto neanche morto”), che poi naturalmente dovrà buttare.

La struttura narrativa del romanzo è classica e alterna lo svolgimento dell’indagine a filoni paralleli, inclusa una certa “impresa” poco lecita che Schiavone porterà avanti; ci sono nella narrazione dei momenti introspettivi, che l’autore rende passando al corsivo ed alla prima persona: troviamo un personaggio dolente, che dialoga con la moglie, un dialogo che prosegue per tutto il romanzo per poi rivelarci l’espediente narrativo, ottimamente riuscito, col quale l’autore ci dà conto di uno dei motivi della disperazione del nostro protagonista.

L’intrigo è ben orchestrato, presto l’indagine si concentra su un luogo, la scuola di sci, su alcuni soggetti, sulla ragnatela dei rapporti della vittima, un ristoratore di origini siciliane di nome Leone Miccichè, e si arriverà alla scena madre finale, magistralmente e teatralmente immaginata in chiesa, al funerale della vittima.

La scrittura di Manzini è spigliata, diretta, molto cinematografica: qui ad esempio Rocco deve “convincere” il direttore dell’ufficio postale del posto, tal Peroni, a, diciamo, far fare alla posta della vittima un passaggio preventivo in commissariato:

“Peroni non lo vide arrivare. Sentì solo il dolore sulla guancia e la testa che contemporaneamente compiva un arco di una trentina di gradi alla sua sinistra. Si toccò la guancia proprio dove Rocco gli aveva mollato la sberla improvvisa. <<Allora>>, disse calmo il vice-questore. <<Glielo ripeto con civiltà. Mi farà avere la posta di Miccichè oppure le devo rendere la vita un infermo?”.

Non manca il medico legale, personaggio centrale di ogni inchiesta (sul quale anche Camilleri ha scritto pagine memorabili); qui si chiama Fumagalli ed eccoci all’autopsia sul cadavere:

“<<Ho provato a rimettere insieme i pezzi. Ho fatto puzzle più semplici>> […]

<<Cazzo!>> uscì bello tondo e preciso dal cuore del vicequestore.

Non c’era un corpo. C’erano una serie di brandelli più o meno ricomposti a formare un oggetto che si avvicinava solo lontanamente a qualcosa di antropomorfo.

<<Ma come fai?>>

Fumagalli si pulì le lenti <<Piano piano, come fanno i restauratori>>”

Qui invece vediamo Schiavone alle prese con il povero Deruta, un questurino prossimo alla pensione che si presenta in ufficio sempre sudato e trafelato:

“<<Eppure sei umido. La mattina ti lavi?>>

<<Sì, certo>>

<<Ma non ti asciughi>>

<<No, è che prima di venire al lavoro aiuto mia moglie al panificio>>

<<Quello che sorprende […] non è che lavori al panificio di tua moglie, Deruta. Che tu abbia una moglie, questo è straordinario!>>”.

E poi, quando Deruta confessa che non ha i soldi per il dentista perchè servono a mantenere la figlia agli studi di veterinaria, Schiavone lo fulmina:

“<<Ah. Capito. Vi state tirando su il medico di famiglia, bravi!”

Schiavone indaga, picchia, sfotte, interroga, briga, traffica, litiga col Questore, parla con i giornalisti, sogna di andare in Camargue, di fuggire, di tornare a Roma: è lui il centro di questa storia, a lui il palcoscenico, lui è il fulcro, il factotum. Ma se pensate di non dover avere (anche) una fitta al cuore o di versare una lacrima, nel leggere questo romanzo, se pensate che questo – e che sarà mai – è solo un giallo, beh, sbagliate di grosso.

 

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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