Tre indizi fanno una prova; dunque in Cina la manovra contro le aziende Usa dell’informatica è acclarata. L’ultimo provvedimento è probabilmente il più rumoroso: la Apple è stata esclusa dalla lista dei fornitori alle amministrazioni statali. I-pad e Mc Book non potranno più essere acquistati con i soldi dei contribuenti cinesi. Non è ancora chiara l’estensione del provvedimento, ancor di meno risulta evidente la motivazione, confusa nelle immancabili “ragioni di sicurezza”. Il suo impatto deriva da considerazioni opposte.
Da una parte il suo significato è chiaro; esistono sia la perdita di commesse governative che il messaggio ai Cinesi: nessun prodotto di nessun marchio è più forte della legge che il governo impone. Dall’altra parte, il successo dell’azienda di Cupertino in Cina è stato trionfale. Si rivolge infatti largamente ad un pubblico di consumatori, lontano dagli acquisti pubblici. La Cina, dopo gli Usa, è il suo secondo mercato. La Greater China (che comprende Taiwan e Hong Kong) registra il 16% del suo fatturato totale. Nel mirino di Pechino appare proprio questo straordinario successo di pubblico. Lo scorso Aprile un violento attacco della TV di Stato ha colpito la Apple, accusata di utilizzare con fraudolenza i dati dei suoi utenti e di offrire loro un servizio di assistenza inferiore alla reputazione dell’azienda.
In realtà l’azienda sconta un peccato originale, ben più grande delle sue presunte responsabilità. È infatti coinvolta nella cyberwar combattuta tra Cina e Stati Uniti. Pechino la accusa di essere uno strumento di Washington per l’immensa operazione di spionaggio conosciuta come Datagate, esplosa in seguito alle rivelazioni di Snowden. Specularmente, la Cina viene accusata di esercitare il furto di informazioni sensibili su larga scala. Lo scorso Maggio 5 ufficiali dell’esercito cinese sono stati incriminati negli Usa per spionaggio industriale. Inoltre ad alcune aziende high tech è stato proibito di condurre affari negli Stati Uniti. Stiamo dunque assistendo a una recrudescenza delle tensioni. L’ultimo provvedimento cinese ha riguardato anche le aziende dell’antivirus Kasperky e Symantec. In precedenza erano stati colpiti, con procedimenti diversi, Google, Cisco, IBM e Qualcomm.
Stiamo probabilmente assistendo a un gioco delle parti, a un copione già scritto che tuttavia può sfuggire al controllo. La cybersecurity infatti non è una merce qualsiasi, sulla quale si possono imporre dazi o contingentamenti. Pechino stringe la morsa, ma segnala una persistente debolezza. Tecnicamente non riesce ancora a competere con Washington. Decenni di Silicon Valley non sono passati invano. La fucina di creatività si è combinata con talenti, aziende, venture capital e commesse militari. Ne è risultata una supremazia ancora inattaccabile, soprattutto per un paese specializzato in produzioni non sofisticate. Inoltre, lo smisurato piacere che nella clientela cinese causano i prodotti Apple (e non solo), rende la chiusura del mercato più uno spauracchio agitato che una minaccia reale. Ecco perché il valore dell’ultimo provvedimento cinese contro la Apple è soltanto simbolico. Tende a riaffermare la forza di Pechino, proprio mentre i suoi cittadini, acquistando I-pad e McBook, la mettono in discussione.
I cinesi ospitano ampie produzioni di materiale elettronico targato Apple, o con qualsiasi altro marchio. Il successo indiano sul lato software è stato replicato da loro sul lato hardware.
Stante la situazione, la mossa del governo di Pechino è curiosa. Probabilmente intendono davvero liberarsi dei sistemi operativi più chiusi, nel tentativo di realizzare un controllo maggiore sulle vulnerabilità eventualmente inserite ad arte dalla controparte.
O magari cercano di lanciare prodotti a minor costo – oberati di oneri di brevetto più modesti – per rendersi ancora una volta più autonomi a livello meramente industriale. Vai a sapere. Una cosa è sicura: sono cinesi, hanno fatto le valutazioni del caso.