In memoria di due luoghi felici

“Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice (Jean Claude Izzo, da “Chourmo – Il cuore di Marsiglia”)

In fondo, ho sempre avuto un approccio di atavica diffidenza verso il mare, o tutt’al più di annoiata avversione, non sapendo (non volendo) nuotare e non amando particolarmente stare al sole.

Va detto che per molti anni per me, bambina cresciuta nella periferia milanese, il mare era stato solo quello delle colonie estive sulla riviera romagnola, parallelepipedi bianchi senza alcuna grazia posti in qualche assolata e desolata traversa, lontani tanto dall’immancabile pineta che da quel pezzo di spiaggia nuda riservata alla colonia, sempre delimitata da recinzioni tanto provvisorie quanto efficaci nel sottolineare la nostra reclusione.

Bimbi vestiti tutti uguali, identici cappellucci flosci sulla testa, orari e regole imposti con la medesima rigidità delle caserme, sandali di tela che sollevavano nuvolette di polvere nella canicola immota e densa di certi interminabili pomeriggi, e un magone inconsolabile che faceva contare i giorni mancanti al rientro in una qualche periferia fetida, dove l’estate puzzava di asfalto molle, di gente sudata e di rifiuti marcescenti.

Non che non sia sensibile all’incontestabile magnificenza di tanti paesaggi marinari, ma ne sono sempre rimasta spettatrice: non mi sono mai appartenuti, come io non sono appartenuta a loro. Quasi mai.

Nel 1973 trascorsi in un paesetto della costa ligure di ponente un lungo periodo di convalescenza dopo una brutta infezione polmonare. I medici mi avevano consigliato il mare, avevo allora ventisette anni e la prospettiva di due mesi di riposo all’inizio dell’estate mi aveva fatto tornare con la memoria alle lunghe vacanze degli anni scolastici. Vivevo sola da qualche tempo in un appartamentino in via Procaccini, al primo piano di un vecchio immobile dalle finestre alte e strette e con angusti terrazzini dalle balaustre a colonnine di cemento.

Era un periodo della mia vita in cui le cose andavano così e così: non propriamente male, ma avvertivo costantemente un’insofferenza di fondo nei confronti di tutto ciò che facevo, non vi era nulla di cui fossi realmente soddisfatta, non il lavoro né le frequentazioni e nemmeno il modo in cui gestivo i rapporti con i miei genitori dai quali mi ero da poco sganciata, con una scelta che non avevano capito fino in fondo e che aveva lasciato uno strascico di imbarazzata distanza.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Mamma volle accompagnarmi a tutti i costi, e in realtà in quel momento fui ben lieta di sentirmi ancora “la sua bambina” e di abbandonarmi a cure sollecite e un poco asfissianti. Affittammo una casa a due piani dalle mura dipinte di un pallido rosa che sorgeva un po’ fuori mano, su di una piccola altura. Era piccina, quattro stanzette in tutto, con un minuscolo giardino ombreggiato da una rigogliosa palma e delimitato da una recinzione di legno bianco parzialmente celata dagli oleandri. Era tuttavia dotata di una terrazza di dimensioni sproporzionate posta sul retro della casa, al secondo piano: sotto, diversi metri più in basso, c’era il mare. Non vi era arenile, solo una successione di aguzzi scogli, e comunque non era accessibile dalla casa. La spiaggia era distante, per arrivarci occorreva scendere lungo la strada e fare un lungo giro.

In quei due mesi tuttavia non vi andammo spesso, e su quella terrazza costantemente ventilata, dalla quale si godeva una splendida vista, riannodammo i fili di un’antica confidenza che si rinnovò più complice e solidale. La padrona di casa ci faceva sovente visita con la scusa di portarci pomodori e insalata del suo orto, e si fermava a bere una bibita fresca. Sono convinta che fu dapprima per controllare che trattassimo con il dovuto rispetto quella dimora a cui teneva molto, poiché era appartenuta a sua madre, ma si instaurò presto un rapporto cordiale che mamma avrebbe mantenuto, benché a distanza, anche negli anni successivi.

Il sole è caldo, lo sento bruciare sulla mia pelle delicata e chiara da milanese. Ma subito c’è questa brezza fresca e odorosa di salmastro che viene in soccorso, lenitiva ed ingannevole, perché non mi risparmierà una scottatura, sarà soltanto una distrazione. Ma ancora non mi muovo, rimango qui con gli occhi chiusi ed il pensiero altrove, e il rumore dell’acqua che si infrange in piccole onde dalla cresta spumosa sugli scogli, ora un sommesso mormorio che più tardi diverrà fragore impetuoso, mi suggerisce che tutto è ancora possibile.

Tra quelle vecchie mura appartate ripresi fiato, le parole  che si disperdevano lievi nel vento mi aiutarono a capire che ero pronta per passare oltre. Tornai a Milano rafforzata nel corpo e nello spirito, cercai e trovai un altro impiego, più gratificante e con migliori prospettive di carriera, abbandonai senza rimpianti certe vecchie compagnie alle quali ormai mi legavano solo vuote chiacchiere ed abitudini stantie e soprattutto ragionai di come qualsiasi mutamento non debba intendersi come definitivo, perché la vita è in costante evoluzione, e occorre imparare ad adeguarsi a condizioni che non cessano di variare.

Ripensai sempre con affetto a quel luogo ricordando la sua bellezza delicata, le tinte pastello delle abitazioni sulle coste frastagliate, la schiva ruvidezza delle sue genti, ma forse lo amai soprattutto per ciò che rappresentò in quel momento della mia esistenza: una parentesi di pace e di meditazione, e senza dubbio  lo scenario naturale ebbe un ruolo importante.

L’anno successivo all’inizio di luglio non avevo ancora nessun programma per le vacanze perché non ero nemmeno certa che le avrei fatte, avendo iniziato a lavorare in una grossa azienda da pochi mesi.

Avvenne che per un guasto al telefono che perdurava da giorni la SIP, la Società telefonica di allora, si decise infine a mandare un tecnico il quale si presentò alla mia porta alle 8 del mattino, e che speravo si sbrigasse perché potessi correre in ufficio senza perdere troppo tempo. Capitò invece che quando me lo ritrovai davanti le mie priorità cambiarono di colpo, per quella giornata e per molte altre successive.

I tratti somatici di Nicola, originario di un paese del foggiano, erano la testimonianza inconfutabile del passaggio nel corso dei secoli dei popoli nordici nelle terre di Puglia: era alto, atletico e biondo, gli occhi verde acqua e dritte sopracciglia chiare, i lineamenti fini e tuttavia decisi, il mento squadrato ingentilito da una fossetta tonda, la carnagione ambrata e la bocca ben delineata, sempre pronta ad un sorriso irresistibile.

Era un tecnico di centrale, di solito non usciva per le riparazioni ma in quel periodo sostituiva un collega che era in ferie: quando si dice il caso. Mi telefonò la sera stessa, e un po’ ci avevo sperato. Mi richiamò anche le sere successive, quella settimana aveva il turno fino alle ventitré in centrale, e quando infine combinammo di trovarci una sera al Jamaica era come se ci conoscessimo da un’infinità di tempo, poiché in quelle lunghe conversazioni telefoniche ci eravamo rivelati ed avvicinati, colmando distanze e sgretolando resistenze.

Così, quando all’inizio di agosto il mio capo partì per un giro di un mese negli States e mi concesse magnanimamente due settimane di ferie, non mi sembrò affatto strano accettare la proposta di Nicola e partire con lui alla volta di San Severo, dove avrebbe salutato la famiglia ed avrebbe ritrovato gli amici della sua adolescenza.

Fin dall’inizio della nostra storia non ci scambiammo alcuna promessa: era apparso subito chiaro che non avremmo potuto avere nessun progetto comune. Io ero cauta ed organizzata, rispettosa delle regole e certo un poco conformista, ero cresciuta avendo ben chiari i concetti di diritti e doveri, avevo qualche ambizione ed una solida prospettiva di carriera che coltivavo con tenacia e dedizione.

Lui, intelligente ed estroverso, curioso di tutto e naturalmente dotato per molte cose, era governato da un’indolenza di fondo ed affinava l’arte di sottrarsi con garbo. Lavorava sei ore al giorno ed aveva più volte rifiutato l’offerta di iscriversi ad un corso per ottenere una mansione superiore e più impegnativa. Abitava in un alloggetto disadorno che aveva sempre un vago sentore muffito in una casa di ringhiera a Gorla, lungo il Naviglio Martesana: gli piaceva perché dalla balconata si vedevano alcuni orti e più in là si poteva scorgere la facciata di una bella villa liberty. Gli altri inquilini erano persone anziane che lo coccolavano come un nipote prediletto, e alle quali lui faceva piccoli favori.

Nicola era un mammifero felice tediato da scarsissimi bisogni primari, soddisfatti i quali si dedicava con passione ad una forma di ozio attivo, che nulla ha a che fare con la pigrizia: leggeva, passeggiava, giocava a carte nel bar del quartiere con pensionati e sfaccendati, si soffermava a discorrere con chiunque avesse qualcosa da dire, inclusi i senzatetto che in estate nel tardo pomeriggio bazzicavano i parchi cittadini, dividendo un panino e una birra con loro.

Avevamo una matrice comune nella provenienza da famiglie che faticavano a tirare la fine del mese, ma io miravo ad una vita più agiata, lui viveva con poco e gli andava bene così. Era questa sua noncurante ed amabile leggerezza che mi affascinava, era come l’acqua di un torrente, refrigerante ed inafferrabile, non potrai mai possederla ma la sua carezza resterà sulla pelle, a lungo, ed è una sensazione bellissima ed irrinunciabile.

Partimmo dunque al tramonto per viaggiare con il fresco, sul suo Citroen Pallas di terza mano che oscillava sulle sospensioni idropneumatiche come una nave che beccheggi sulle onde. Il siluro dalla linea affusolata filava nella notte serena, e ad un tratto pensai che avrei voluto rimanere per sempre nell’intimità esclusiva e rarefatta dell’abitacolo ad ascoltare musica sfiorando di tanto in tanto la sua mano e a parlare a bassa voce per non incrinare la purezza di quel momento.

Raggiungemmo San Severo la mattina, dopo aver dormito qualche ora davanti ad un autogrill nei pressi di Pescara. Posto nell’alto Tavoliere,  il paese mi colpì per la ricchezza di edifici storici e di chiese, oltre che di corsi e viali alberati.

Il padre di Nicola, scomparso da qualche anno, aveva fatto per tutta la vita il casellante alla stazione di San Severo, e la mamma abitava in una casetta a ridosso della ferrovia, nella quale era rimasta sola dopo che la figlia si era sposata. Sua sorella Teresa non sembrava nemmeno parente alla lontana: piccola e bruna, lisci capelli neri e occhi scuri, un visetto anonimo dall’espressione mite. Abitava lì vicino, in un appartamento in affitto con soffitti altissimi e pavimenti in marmo che guardava su un largo viale piantumato, ancora mezzo vuoto dopo sei anni di matrimonio perché mancavano i soldi per arredarlo. Suo marito era un omone barbuto ed affabile, e avevano una splendida bimba bionda di cinque anni affetta da un grave ritardo mentale, che sorrideva sempre con un’espressione un poco vacua negli occhi blu porcellana e che tutti trattavano con sorridente ed amorevole premura, rassegnati ad un fardello sotto il peso del quale non intendevano soccombere.

Fummo ospiti della madre di Nicola, che mi accolse con esuberante semplicità per una settimana. La mattina partivamo per Torre Mileto e passando per gli sterminati campi di cocomeri di Apricena raggiungevamo il mare, dove ci incontravamo con gli amici di Nicola, i quali arrivavano da San Severo, da Torremaggiore e da Apricena: alcuni non avevano mai lasciato il paese di origine, altri invece erano emigrati con le famiglie a Milano e tornavano dai nonni per le vacanze: era il caso di Giusy, mingherlina e vivacissima, il viso stretto e appuntito sormontato da una testa gonfia di capelli crespi che bagnava in continuazione nel tentativo di tenerli a bada. Quell’anno era leggermente claudicante a causa di una pallottola vagante che l’aveva colpita ad una gamba una sera che si era appartata con un ragazzo dalle parti dell’Idroscalo: la sua versione era che si fosse semplicemente trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, e tutti fingevano di crederle. Vi erano anche un paio di cugini di Nicola: la diciassettenne Cristiana, alta e flessuosa, una bellezza selvatica e acerba, capelli neri lunghi fino alla vita e occhi grigi ombreggiati dalle ciglia nerissime, il viso dai tratti delicati, con una carnagione lattea che al sole non si abbronzava né si arrossava, e il trentacinquenne Antonio, il più vecchio del gruppo.

La mamma di Nicola diceva che era “rimasto offeso” dalla polio che lo aveva colpito da piccolo, e in effetti si avvertiva un manifesto risentimento nell’atteggiamento di quell’uomo dai lunghi capelli scuri ed incolti, il viso dalla fronte bassa dominato da un gran naso aquilino spiovente sui radi ed ispidi baffi che quasi coprivano a bocca dalle labbra sottili. In spiaggia non si spogliava mai, stava tutto il giorno con una larga camicia di garza sopra pantaloni di lino bianchi, e ci provava sempre con le ragazze più belle, con pervicacia autolesionista.

Poi vi era Lucia, bionda malamente tinta, bassa e con le gambe storte, sussiegosa  ed incline al malumore. Nel gruppo era soprannominata “la gatta” e ne compresi il motivo quando osservai il suo comportamento con il povero Michele, belloccio e vacuo, ed incomprensibilmente ossessionato dal corpo flaccido di quella ragazza più grande di lui: lo blandiva, lo illudeva e gli saltava agli occhi appena quello ci provava, in una schermaglia che, mi raccontavano, si ripeteva da anni. E poi la piccola Lina, bruna e morbida,  trent’anni e il cervello di una ragazzina di quindici, ed era la sorella piccola di tutti, che ne sopportavano pazientemente bizze e repentine malinconie.

Alla fine della settimana salutammo con grandi abbracci amici e parenti e scendemmo lungo la costa Garganica, attraversammo gli antichi borghi dalle case di pietra di Rodi, Peschici e Vieste, proseguimmo fino a Pugnochiuso e Manfredonia fermandoci nelle innumerevoli calette, su spiagge di sabbia fine e chiara con l’acqua trasparente, nella quale si rifletteva il biancore delle falesie, a tratti tinta di verde e di azzurro.

Dormimmo dove capitava, per lo più in pensioni piccole e pulitissime, verso l’interno. Restavamo ore intere seduti sulla sabbia tiepida a contemplare in silenzio tanta schietta bellezza, come se volessimo assorbirne la pace e l’energia, paghi della reciproca vicinanza, e fui sempre pienamente consapevole di quella felicità primitiva e provvisoria.

Mi capitò anche di chiedermi se, dopotutto, ciò che sentivo per quell’uomo non potesse divenire amore autentico, quello che supera trionfante qualsiasi differenza caratteriale e di vedute, e anzi se ne nutre. Non seppi mai rispondere a quella domanda, ma dopo il rientro a Milano ognuno di noi si ricollocò nel proprio quotidiano e ci perdemmo gradatamente di vista: senza traumi né discorsi conclusivi, smettemmo semplicemente di cercarci.

Non sono mai più andata nella casetta rosa sulla costa ligure di ponente, né ho mai  avuto curiosità di rivedere il Gargano, perché non voglio che le immagini di oggi si sovrappongano a quelle di ieri.

Le coordinate dei luoghi nei quali siamo stati felici in passato si rivelano sempre inesatte: preferisco custodire i ricordi vividi ed integri (colori, odori e suoni e brividi sulla pelle) di quelle due differenti parentesi marinare, che mi hanno accompagnata e sorretta per il resto della vita come piccoli, preziosissimi tesori da contemplare segretamente nei momenti di buio o di noia.

Chissà se Nicola ha saputo mantenere la sua innocente saggezza, la fanciullesca curiosità, la genuina distrazione da qualsiasi ambizione e dai beni materiali. Mi piace immaginarlo in un rosseggiante tramonto estivo sulla riva di qualche mare lontano, lo sguardo limpido assorto sul sole calante, lo stesso sole che risorgerà domani, e porterà sempre un giorno nuovo, fino all’ultimo.

https://youtu.be/UmFFTkjs-O0

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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