Un messaggio di spiritualità nella Corea globalizzata

Prima ancora di finire, la visita di papa Francesco in Corea è stata comunemente giudicata un successo religioso e un trionfo politico. Lo testimoniano numerosi indici: dallo straordinario bagno di folla all’attenzione del grande pubblico, dall’inedita copertura dei media alle speranze che ha suscitato. In realtà i buoni risultati erano attesi per l’attenta preparazione della visita.

Dopo un’assenza – difficile da comprendere – il Papa è tornato in Asia. L’ultima volta è stata 15 anni fa, quando Giovanni Paolo II si è recato in India. L’ultima visita in Corea ha avuto luogo ¼ di secolo fa. Da allora l’Asia orientale è cresciuta politicamente, economicamente e, senza contraddizione, religiosamente. Secondo fonti pontificie, lo scorso anno ci sono stati più battesimi in Asia che in Europa, nonostante la grande differenza di popolazione cattolica. Solo il suo 12% vive in Asia, 137 milioni dei quali il 62% nelle Filippine. Gli altri stati vantano dunque valori marginali, con la relativa eccezione della Corea dove la popolazione cattolica è in grande crescita. Rappresenta ormai l’11% dei cittadini e viene assimilata ad uno scudo religioso e sociale per i più poveri.

La scelta della Corea per la prima visita trova motivazioni aggiuntive. Il messaggio evangelico si è diffuso in una società complessa, dove le sofferenze del secolo scorso si uniscono ai moderni livelli di benessere. Papa Francesco ha ricordato i martiri cristiani ma anche il dolore della guerra civile, lanciando un messaggio inequivocabile: la Corea è una, va riunita con mezzi pacifici e la fede religiosa può dare un contributo. Ufficialmente non ha trovato ascolto in Corea del Nord – sarebbe stato ingenuo aspettarsi il contrario – ma non ha usato anatemi secondo lo stile della Guerra fredda che ancora colpisce la penisola. Anche la semplicità dei suoi modi potrebbe favorire il dialogo. Sembrano lontani gli orpelli, le misure di sicurezza che impedivano il contatto con i fedeli, il distacco divino. Sono stati ugualmente marginalizzati scontri teologici con le congregazioni cristiano-evangeliche che superano di gran numero i devoti al Vaticano. Il messaggio più importante è venuto dal richiamo ai valori di base dell’uomo. Nel paese che vanta tra i più alti tassi di sviluppo, Papa Francesco ha richiamato la necessità di non confondere il progresso con l’acquisizione di beni materiali.

In una nazione all’avanguardia dell’elettronica di consumo, ha indicato la via della frugalità e dei rapporti umani. Sembra ironico, ma ha lanciato un messaggio di spiritualità in un continente che si crede ne sia la culla. Nella moderna globalizzazione l’Asia del nord è un immenso opificio che sforna merci sempre più sofisticate. Forse sorprendentemente, queste capacità produttive sono esplose nelle terre dedite alla contemplazione, alla frugalità, molto spesso alla privazione. Il messaggio del Papa sembra essere chiaro, nell’auspicare un ritorno alla semplicità. È il vescovo di Roma, ma non ha voluto convertire nessuno. Quest’ultimo è stato il lascito più prettamente politico: avvertire che i missionari del passato – pur appartenendo alla sua stessa fede – sono entrati in collisione con le forze tradizionali di quei paesi, tanto antiche da non poter essere sradicate. Il Vaticano sa che i tentativi di conversione dei secoli passati sono una ferita ancora aperta, l’ostacolo più grande da parte asiatica a un’apertura dialogante.

La Corea che, al contrario della Cina, è un paese che non ha vissuto i missionari cattolici come emissari dei colonizzatori occidentali e che reagisce con fastidio al proliferare di sette protestanti molto aggressive, lo ha accolto con grande affetto e rispetto. I richiami di Papa Francesco all’unificazione delle due Coree rimarranno probabilmente lettera morta: nessuno in Corea del Sud, Giappone, Russia, Cina in realtà vuole l’unificazione per i motivi più diversi. Se però Papa Francesco dichiara che la Chiesa non ha ambizioni universaliste, lancia un ponte di grande gittata. Potrebbe arrivare fino a Pechino, se volesse, che non avrebbe più modo di ripetere la litania della minaccia straniera per le sue anime cinesi.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

Una risposta a “Un messaggio di spiritualità nella Corea globalizzata”

  1. Come mi dà fastidio se altre esperienze mi indicano la strada “giusta” da seguire (si pensi a certi dettami globalisti), non sono sicuro che la tradizione cattolica possa adattarsi al meglio in quelle realtà.

    Tuttavia, per avere colleghi coreani, una cosa la so.
    L'”educazione” è ferrea e lascia poco spazio all’iniziativa personale; sin da bambini sono allevati in un ambiente fortemente (forse troppo) competitivo. La “società” è dura e fortemente condizionante, tale da importi modalità di comportamento.
    Risultato: persone educate e gradevolessime che, quando vengono in Europa, si sentono…liberi.
    Forse, il cattolicesimo lascia loro qualche possibilita’ in più di non sentirsi falliti o esclusi se non riescono a soddisfare le aspettative a loro imposte.
    Sinbad

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