“Please leave the room if this will offend you”, “per favore lasciate la stanza se questo vi turberà”.
Furono queste le ultime parole che Budd Dwyer, senatore repubblicano del boscoso stato della Pennsylvania, pronunciò al termine della conferenza stampa indetta il 22 gennaio del 1987 per negare ancora una volta le accuse di corruzione, frode e associazione a delinquere a seguito delle quali era stato condannato a 55 anni di carcere e ad una sostanziosa ammenda pecuniaria. A quelle parole seguì il gesto fulmineo di un revolver 357 Magnum portato alla bocca e dello sparo che spappolò il suo cervello e molto altro, in diretta televisiva.
A volte, la recitazione di un gesto eclatante e condiviso appare come l’unica forma di riscatto possibile.
“…copriti bene, Emilio, che stasera fa un freddo cane. Chi te lo fa fare, poi, di uscire a quest’ora della notte per andare fin là a perdere ore di sonno per quattro soldi…”
“Fin là” era in viale Pasubio, che non era poi così lontano da via Piero della Francesca, zona Fiera, dove Emilio abitava con la madre vedova proprio sopra alla Pasticceria Grecchi, e non era certo per i quattro soldi in più, perché aveva mentito e di soldi non gliene davano proprio, ma d’altronde con la vita che faceva lo stipendio percepito dalla ditta di ricambi auto a Cinisello Balsamo dove era impiegato come magazziniere era più che sufficiente.
Sulla temperatura, niente da dire: faceva davvero freddo, quel freddo umido e penetrante che mordeva Milano da dicembre a marzo, e amalgamandosi subdolamente con i gas di scarico degli autoveicoli e con le esalazioni mefitiche degli impianti di riscaldamento a nafta dei condomini, ancora così diffusi sul finire degli anni ‘80, generava una foschia persistente e unta. Nemmeno il vento gelido che di tanto in tanto discendeva dalla Grigna e dalla Grignetta riusciva a ripulire la sottile patina fuligginosa caparbiamente sedimentata sui vetri delle case e su ogni cosa.
Vi era tuttavia una motivazione più intima e recondita che per quattro sere alla settimana spingeva Emilio a rivestirsi con gioiosa impellenza verso le dieci mezza, e a salire sulla Panda celeste a dispetto del gelo e della stanchezza della giornata passata per lo più in piedi, per dirigersi verso viale Pasubio nella scalcagnata sede di una radio privata, anzi una radio “libera”: una delle tante entrate in attività a Milano e in tutta Italia dal 1976, anno in cui una sentenza della Corte Costituzionale sancì definitivamente la liberalizzazione delle trasmissioni anche via etere in ambito locale, dopo che già nel ’74 era stata concessa ai privati la facoltà di trasmettere via cavo.
In quei locali perennemente caotici e polverosi, da mezzanotte alle tre del mattino, Emilio mandava in onda la musica che amava in modo assolutamente arbitrario, ma soprattutto diffondeva ad un pubblico invisibile eppure certo e presente l’interpretazione di un ruolo frutto della sua immaginazione, tramutandosi nell‘Uomo di Mezzanotte. Perché l’Uomo di Mezzanotte, che era poi il titolo del suo programma, non aveva nulla a che vedere con Emilio Galbiati, di anni trenta, essendo nato a Milano il 27 febbraio del 1957 sotto il segno dei Pesci, inutilmente diplomato in ragioneria e impiegato con mansioni di magazziniere, orfano di padre dall’età di diciotto anni e convivente con la madre, signora Vilma, di anni settantadue, ancora scapolo, piantato dall’unica fidanzata quasi sulla soglia della Chiesa cinque anni prima.
Questo avvenimento naturalmente lo aveva ferito, ma non ne aveva fatto una malattia: solo, conosceva Annalisa da quando erano bambini, avevano frequentato le elementari assieme, e quando lei lo aveva lasciato, animata da un’insospettata e repentina esigenza di emancipazione,
“scusa, ma devo seguire la mia strada, che non è quella di moglie e madre”
aveva capito ed accettato le sue motivazioni. Si era però trovato a fare i conti con la sua timidezza e con la sua mancanza di intraprendenza, certamente aggravate da un aspetto anonimo che pareva renderlo invisibile agli occhi della gente ed in particolare delle donne, tanto che gli capitava di avvicinare ragazze che aveva incontrato in varie circostanze precedenti, le quali regolarmente non lo riconoscevano e scambiavano il suo saluto per un goffo tentativo di approccio, al quale reagivano infastidite.
Annalisa si era sposata sei mesi dopo, e quando lui lo aveva saputo si era trovato a riflettere con amarezza sulla disinvoltura con la quale le persone possono mutare le proprie convinzioni, anche le più radicali. Oppure, più semplicemente e per le ragioni più diverse ma con eguale spregiudicatezza, mentono.
Emilio era un ragazzo schivo la cui fisionomia non rimaneva impressa a nessuno: al pari di una farfalla – non una dalla sontuosa livrea disegnata con colori sgargianti, ma piuttosto una insignificante falena – la sua immagine si posava leggera e con altrettanta levità si allontanava, senza provocare la minima increspatura sulla superficie emozionale di chi lo incontrava, e questa noncuranza gli appariva talvolta come la negazione della sua stessa esistenza
Gli anni si erano succeduti rapidamente nonostante la monotonia dei giorni, delle settimane e dei mesi, ed Emilio pensava talvolta a se stesso come all’impronta dei passi sulla rena del bagnasciuga, che viene levigata dal fluire continuo dell’onda e scompare dopo poco, senza lasciare traccia alcuna.
Si era a poco a poco assuefatto alla sua solitudine, tanto da trovarne rifugio e persino piacere, e aveva animato i suoi silenzi con le note musicali. Il suo orecchio vi era abituato perché era cresciuto in una casa nella quale ogni momento della giornata era scandito e caratterizzato da una colonna sonora: suo padre era un musicista che aveva studiato al Conservatorio, così si era abituato sin da piccolo ad ascoltare musica classica, jazz, blues ma anche quella nuova musica proveniente dall’America, il rock’n’ roll di Elvis Presley, di Little Richard e dello scatenato, biondo e riccioluto Jerry Lee Lewis, detto il Killer. Fu proprio questo il genere al quale si appassionò e la cui conoscenza coltivò negli anni.
Conservava amorevolmente il vecchio, bellissimo giradischi stereo Garrard, con la puntina di diamante che frusciava dolcemente nel microsolco precedendo le prime note di ogni brano, il pesante coperchio in plastica trasparente e due imponenti casse acustiche in radica. Suo padre lo aveva comprato nel ’70 ed era costato talmente caro che la mamma quando ne aveva scoperto il prezzo aveva dato in escandescenze, ed era su quell’apparecchio, spostato dal soggiorno alla sua camera, che ascoltava gli LP acquistati dalla Ricordi in Galleria, dove si recava ogni sabato pomeriggio per poter ascoltare le novità discografiche del momento.
Emilio era sempre stato affascinato dall’irruente ingenuità della prima musica rock: un canovaccio un poco primitivo, poche note prorompenti, una chitarra, un basso e una batteria, e un cantante che faceva la differenza, che portava in scena uno spettacolo e che parlava di sentimenti o di banale quotidiano, ma sempre frugando nelle viscere. E spesso avveniva che il filo sottile che separava l’artista e la finzione scenica dall’uomo e dalla vita reale si spezzasse e l’uomo si identificasse con l’artista, impregnando la sua vita di ciò che cantava. Una prassi rischiosa che bruciò diversi valenti musicisti, come scoprì Emilio leggendo avidamente le loro biografie. Scoprì anche alcuni poeti maledetti, che cantavano il sottosuolo dell’animo umano, i perdenti e i derelitti, con voce arrochita e dolente che testimoniava la loro stessa ostinata permanenza nella parte sbagliata, perché la musica rock è anche questo.
In quegli anni a Milano erano attive diverse piccole emittenti radiofoniche private autofinanziate, che mandavano in onda palinsesti prevalentemente musicali suddivisi in rubriche tematiche, molte delle quali allestite soddisfacendo le richieste telefoniche degli ascoltatori.
Capitò che Emilio una sera decise di telefonare proprio a una di queste stazioni radio nel corso di un programma di dediche e richieste. Capitò che chiese un brano di Tom Waits, e non ce l’avevano. Non avevano nemmeno Nick Drake, né i Joy Division né i Cure o i Traffics. Del resto, avrebbe dovuto aspettarselo, dato il tipo di musica che trasmettevano, prevalentemente di cantautori italiani.
“Senti, perché una di queste sere non vieni a trovarci con la tua collezione di LP?”
Qualche sera dopo Emilio, le braccia cariche dei suoi preziosi vinili, approdò in quella soffitta in viale Pasubio e subì immediatamente la fascinazione di quel luogo disordinato e malamente illuminato, un poco soffocante ed esclusivo, intimo e caldo come un’alcova, dove in due minuscoli ambienti divisi da una parete a vetri, tra giradischi, mixer ed equalizzatori, piatti per la messa in onda, cuffie e microfoni, e dischi sparpagliati ovunque, veleggiavano con qualche difficoltà il barbuto Direttore e regista, il tecnico del suono e di tutto ciò che aveva a che fare con elettronica ed elettricità, il conduttore di turno e la segretaria tuttofare, una sparuta ragazzina dai capelli arruffati ad arte, con degli occhialini tondi e spessi e con lunghi incisivi da coniglietto piazzati su un faccino mobilissimo che accentuava la somiglianza con una di quelle bestiole. Dimentico dell’abituale ritrosia, sciorinò davanti ai loro occhi, luccicanti dell’autentico interesse di chi condivide una passione, i suoi 33 giri, il rock nelle sue varie e composite declinazioni ed evoluzioni dai primi anni ’60 all’87.
“…sai, noi qui abbiamo puntato sulle dediche e sulle richieste, molta musica italiana, qualche pezzo straniero di grande ascolto, da hit parade…la tua è roba forte, riservata ad una nicchia di appassionati del genere. Però…te la sentiresti di condurre un programma notturno? …diciamo da mezzanotte alle tre, te lo inventi tu, e vediamo come va. Ah, guarda che qui siamo tutti volontari, abbiamo messo in piedi ‘sta roba per divertirci, chiaro che si campa con altro”.
Emilio si sentì pervadere da una sconosciuta, eccitante sensazione di calore che partiva dal ventre e risaliva ad infiammargli il volto accorciando il respiro, e disse subito di sì. Una settimana dopo, si presentò prima delle nove con la scaletta pronta e spiegò come intendeva impostare la rubrica intitolata “L’uomo di mezzanotte”:
“Presenterò i brani con dei brevi cenni relativi alla biografia dell’artista, qualche curiosità, alcuni aneddoti…poi vorrei rivolgermi a chi veglia di notte, per scelta, per necessità o per semplice insonnia. Non ho intenzione di esaudire richieste né di leggere dediche: voglio parlare con loro. Manderemo in onda le telefonate di chi vuole raccontare qualcosa, qualsiasi cosa. Che ne dite?”
Il Direttore, che era uno studente fuori corso in Scienze Politiche facile agli entusiasmi, come pure tutti gli altri, fu subito d’accordo.
Quando Emilio si mise le cuffie e partì il brano che aveva scelto come sigla, una ballata dolcemente malinconica di Tom Waits, per l’appunto “Midnight lullaby”, ballata di mezzanotte, guardò il regista dall’altra parte del vetro e al suo cenno prese il volo, perché ebbe davvero la sensazione di spiegare le ali sulla città buia eppure viva, e provò una leggera vertigine quando comprese che stava uscendo da se stesso per calarsi in un personaggio che aveva appena abbozzato nella sua fantasia.
Aveva una bella voce, piana e ricca di sfumature, priva di inflessioni dialettali, che attraverso il microfono parve acquisire spessore e profondità: era la voce dell’Uomo di mezzanotte, che si rivolgeva a
“…chiunque a quest’ora sia sveglio con il buio attorno, e me lo voglia raccontare. Io sono qui con la mia musica e tutta la mia attenzione, sono l’Uomo di mezzanotte e posso essere solo vostro, almeno per un poco”.
La prima sera non telefonò nessuno, ma i ragazzi gli fecero i complimenti guardandolo straniti, perché nessuno si sarebbe aspettato da lui tanta capacità di suggestione né tanta consumata perizia nell’esprimerla.
Dopo qualche sera, arrivarono le telefonate: un tassista che era solito fare il turno di notte e che narrò di come, nell’abitacolo buio dell’auto, potessero venire fuori le confidenze più intime da parte di perfetti sconosciuti, un’infermiera che aveva assistito un’anziana ammalata ed aveva capito che stava per morire quando il gatto si era allontanato velocemente dal suo letto, sul quale era solito sonnecchiare, una ragazza che era stata abbandonata dal fidanzato senza una spiegazione, e per questo non riusciva a mettersi il cuore in pace.
L’Uomo di mezzanotte sapeva creare effimere alchimie con i suoi interlocutori, con i quali stabiliva un contatto immediato e partecipe e con spontanea abilità sapeva blandire, consolare, rassicurare. A differenza di Emilio, l’Uomo di mezzanotte toccava la sensibilità di queste persone, che si sarebbero ricordate quelle conversazioni per molto tempo, cercando di immaginarsi il volto che si celava dietro la voce: diventando invisibile aveva infine trovato visibilità.
Il freddo aveva abbandonato la città e lasciato il posto ad una primavera ancora titubante e ormai le voci che intervenivano nella trasmissione notturna erano quasi esclusivamente femminili.
Lei incominciò a telefonare verso la metà di aprile, quando c’era l’aria leggera e voglia di luce e di calore anche in una metropoli affaccendata ed impietosa come Milano, e le giornate si allungavano, ma poi arrivava sempre e comunque il buio.
Lei il buio lo aveva nella voce – roca, beffarda, sporcata dagli sbuffi di fumo che frammentavano le sue parole, incessantemente, e l’unica cosa che aveva da raccontare era la sua amarezza.
“Credevo che avrei cambiato il mondo, ma in fondo non ci ho mai provato. Mi sono limitata a stare sempre dalla parte sbagliata, quella che cantano le tue canzoni. Tu ne parli, io ci sto dentro, capisci la differenza?”
Il tono dei suoi interventi divenne via via più intimo e provocatorio; l’Uomo di mezzanotte si lasciò dapprima intrigare e per qualche sera resse il gioco ambiguo di quella voce opaca, poi chiese alla regia di non mandare più in onda le sue telefonate ma di passargliele in privato.
“…che succede, Uomo di mezzanotte, ti vergogni di me prima ancora di avermi conosciuta? Vuoi finalmente dare un’occhiata alla parte sbagliata, quella vera, non quella delle tue canzoni?”
Dopo avere accettato di incontrarla,
“…come ti riconoscerò, ragazza sbagliata?”
“…dall’odore, se hai buon fiuto”,
l’Uomo di mezzanotte tornò di colpo ad essere Emilio, e se ne pentì.
L’appuntamento era fissato per la mezzanotte del martedì successivo, sera nella quale la trasmissione non era in palinsesto, al bar Woodstock in via Ludovico il Moro, e lei aveva detto con la consueta inflessione irriverente di aver scelto quel locale sul Naviglio in segno di omaggio alla sua musica. Ma mentre guidava la Panda celeste verso il Naviglio, Emilio non riusciva a vestire i panni dell’Uomo di mezzanotte, poiché quell’interpretazione richiedeva una scenografia ed un’atmosfera adeguate: al di fuori del guscio avvolgente dello studio radiofonico e senza colonna sonora, l’Uomo di mezzanotte semplicemente non poteva esistere.
Decise che sarebbe comunque entrato al Woodstock ed avrebbe cercato di individuare la ragazza, senza tuttavia manifestarsi. Naturalmente si era fatto un’idea del suo aspetto, tanto arbitraria quanto convincente, e quando notò tra la gente (non molta, in un martedì sera) tre ragazze sole le studiò con attenzione. Ne escluse subito una, che venne raggiunta al tavolo da un ragazzo. Osservò dubbioso la seconda che sorseggiava una birra chiara seduta ad un tavolino: capelli di media lunghezza, biondi e spenti, sicuramente schiariti in casa e con una ricrescita scura piuttosto evidente, un volto pulito dal colorito anemico che gli occhi chiari non riuscivano ad illuminare, jeans, giacchetta striminzita e scarpe dal tacco basso. Si accorse che le mani che stringevano il boccale erano arrossate e sciupate e provò un moto di compassione per quella figuretta insignificante, che tutto poteva essere fuorché una ragazza sbagliata.
La terza era una giovane donna che stava appoggiata al banco e indossava un corto giubbotto di pelle nera sopra pantaloni attillati e stivaletti dal tacco alto. Si guardava attorno con strafottente indolenza scuotendo di tanto in tanto la criniera corvina, gli occhi bistrati di nero socchiusi per il fumo della sigaretta che stringeva tra le labbra rosse, le mani dalle lunghe dita con le unghie laccate dello stesso colore vermiglio. Il suo sguardo lo sfiorò per un attimo (appena una superficiale unghiata) e se ne distolse subito annoiato. Lui ebbe modo di studiarla con torbida curiosità fino a quando non si mosse verso l’uscita, con un misurato ondeggiare dei fianchi snelli sui tacchi sottili (“Addio, ragazza sbagliata”), e si accorse allora che la donna seduta al tavolino era sempre lì, il boccale ancora quasi pieno di birra che ormai doveva essere tiepida, il posacenere pieno di cicche. Fu colpito dalla malinconica rassegnazione che emanava dalla sua persona e che gliela fece sentire all’improvviso così simile, e come obbedendo ad un silenzioso richiamo le si avvicinò.
“Aspetti qualcuno?”
“…sì. No. Sì, ma non verrà più, ormai. Forse non ha mai avuto intenzione di venire, forse non esiste nemmeno”,
rispose lei con voce dolcemente roca, pensando che comunque era stato un gioco avvincente, e quel bel ragazzo dai lunghi capelli spioventi sulle larghe spalle, tutto vestito di nero e con le mani piene di anelli d’argento, non avrebbe mai potuto riconoscerla dall’odore, e infatti dopo un poco se ne era andato senza degnarla di uno sguardo (“Addio, Uomo di mezzanotte”), e lei rimaneva in ogni caso sola, con la desolazione della sua vita di cameriera con figlio illegittimo parcheggiato per qualche ora da sua madre.
Guardò Emilio e ravvisò qualcosa di familiare nei tratti delicati ma un poco indefiniti, nella voce profonda e gentile, nell’abbigliamento dignitoso ma scialbo, e gli sorrise con empatia, e lui scoprì che quando sorrideva era bellissima, e allora pensò
“che importa, se sarà solo per stanotte o se sarà per sempre”,
e sapeva che tutto questo sarebbe piaciuto molto all’Uomo di mezzanotte.
https://youtu.be/D1zxvLRN1AI