Movimenti nel Mar delle Filippine

Mar delle Filippine

Nello scacchiere del Pacifico le Filippine sono uno dei numerosi alfieri, ma la loro posizione può essere utile ai pezzi più pregiati sul terreno. Ne ha beneficiato Obama che da Manila ha ottenuto la ricompensa migliore dal suo tour asiatico: un accordo sulla difesa che di fatto concede basi militari, uno strumento prezioso che i verbosi colloqui di Tokyo, Seoul e Kuala Lumpur non sono riusciti a eguagliare. Per 10 anni le navi statunitensi potranno ora attraccare in alcuni porti filippini, gli aerei atterrare nelle strisce di asfalto, il personale stazionare nelle basi. Per eludere i propri dettami costituzionali, i firmatari filippini hanno mantenuto che la gestione delle basi sarà esclusivamente nazionale e che le forze armate di Washington saranno presenti “a rotazione”.

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Obama ha rassicurato Pechino: la decisione non sarà contro nessun paese, ma a favore della legalità nelle controversie marittime internazionali. Come in un riflesso condizionato, gli analisti hanno subito pensato agli isolotti contesi delle Secche di Scarborough e di Second Thomas dell’arcipelago delle Spratly. Non è stato necessario un acume particolare: in quegli scogli si sta combattendo una guerra di proclami e di posizione tra la Cina e le Filippine. Tensioni, propaganda, scaramucce, minacce e intimidazioni sono gli ingredienti tipici di un cocktail piuttosto frequente in quei mari: la tensione tra i paesi del sud-est asiatico e la Cina, della quale la disputa con le Filippine e il Vietnam ha raggiunto i livelli più pericolosi. La Cina riafferma la propria sovranità per convalidare la “linea di nove trattini”, una geografia che porrebbe il suo confine meridionale a migliaia di chilometri dalle sue coste. I paesi rivieraschi del sud-est asiatico sono ovviamente tutti preoccupati delle rivendicazioni cinesi. Non hanno alternative se non rivolgersi agli Stati Uniti. Se per il Vietnam significa scrivere un nuovo capitolo dopo la guerra per la riunificazione, per l’arcipelago si tratta di rinverdire un’alleanza strategica, nata con la colonizzazione post-spagnola e la liberazione dall’occupazione giapponese nella seconda guerra mondiale.

Le Filippine sono state un fedele alleato degli Usa, ma nel 1991 – appunto con la fine della guerra fredda – una politica nazionalista ha scelto di chiudere le basi di Clark e Subic Bay, tradizionali avamposti statunitensi in Asia. Le ragioni del ritorno al passato sono ovviamente numerose e interconnesse, ma una prevale e le sintetizza: il timore della Cina. Il Ministro degli esteri Albert del Rosario – ex Ambasciatore a Washington – non ha lesinato schiettezza quando ha affermato che gli scontri navali con la Cina nel 2012 hanno fornito alle Filippine la determinazione di approfondire i legami militari con gli Stati Uniti. Si tratta di un indubbio successo per Obama, mentre la decisione ha ovviamente scatenato le proteste di Pechino. La partita a scacchi continua, anche se su schemi prevedibili. La Cina poteva facilmente immaginare che mostrare i muscoli avrebbe consegnato le Filippine nelle braccia di un avversario ancor più potente. L’ostinazione ha prevalso sulla trattativa, il nazionalismo ha sconfitto i tempi lunghi della diplomazia. Nello scorrere delle stagioni, il peso del Regno di Mezzo avrebbe potuto far valere il timore che incute. Ora lo stallo continua, gli isolotti continuano a essere contesi, ma le truppe Usa ritorneranno a 200 km dal teatro di battaglia

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Pubblicato da Romeo Orlandi

Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia. Professore di Economia della Cina e dell'Asia. Esperto di globalizzazione. Autore, editorialista, relatore a convegni.

Una risposta a “Movimenti nel Mar delle Filippine”

  1. El juego de ajedrés comenzó, cuantos al mismo tiempo serán solo el tiempo lo dirá. Eccellente analisi come sempre, un piacere leggerti Romeo, grazie.

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