I più cinici conoscono già la fine delle proteste: si scioglieranno, vittime di una miscela più forte di loro: stanchezza, repressione, isolamento. Alla fine l’ordine sarà ristabilito e Hong Kong tornerà a scivolare verso la Cina. «Le fabbriche riapriranno, arresteranno qualche studente», cantava Fabrizio De André del maggio francese. Tuttavia i dimostranti non si ritirano. Sfidano la pioggia e i gas urticanti al pepe.
Resistono alle minacce, non cedono alle blandizie. Hanno addirittura chiesto le dimissioni del governo locale. Dimostrano un’inaspettata tensione ideale, unita finora a un acuto realismo. Sanno di non poter colpire la Cina e mirano al suo guardiano, il governatore Leung Chunying (lo chiamano “C.Y.”). Probabilmente chi alza il sopracciglio con rassegnazione è ben informato. Sarà difficile che Hong Kong viva nel caos; proprio nel rispetto della legge, nell’esposizione all’estero, nella regolarità del business ha trovato la sua ragion d’essere diversa e la sua prosperità.
Gli analisti più aperti, quelli intellettualmente curiosi, i network specializzati in breaking news sperano nella continuazione e nel successo della protesta. Anche il loro obiettivo è l’amministrazione di Hong Kong. Sperano sia sconfitta dagli ombrelli dei manifestanti. Pensano che forse una soluzione negoziale sia possibile e che dunque gli studenti, Occupy Central, le autorità religiose cattoliche siano non solo concordi ma rappresentino la maggioranza della popolazione. Pensano che alla fine Pechino dovrà scendere a patti e salvaguardare la diversità dell’ex colonia, che la Cina non possa intervenire perché sotto gli occhi del mondo intero non può permettersi una riedizione di Tien An Men. Questi valutazioni sono più nobili, ma confondono probabilmente i sogni con la realtà.
Per capire cosa succederà a Hong Kong, bisogna guardare a Pechino. Difficilmente la Cina ucciderà la gallina dalle uova d’oro. La città è ancora un centro finanziario di prim’ordine, una destinazione per decine di milioni di turisti, meta di investimenti e Ipo dalla madre patria. È utile, realisticamente accettata, in via di duplicazione nelle altre città cinesi lungo la costa. Al momento della fine della colonia, nel 1997, Hong Kong valeva il 16 per cento del pil cinese, oggi è scesa al 3. Per i dimostranti la posta in gioco è proprio mantenere la diversità, per la Cina è banalizzarla progressivamente. Vivono dunque una convivenza sbilanciata: si sopportano, certamente non si amano, anche per motivi culturali. Visti da Hong Kong, i visitatori cinesi sono “locuste” che saccheggiano i supermercati e non rispettano le regole del vivere civile; visti dalla mainland China, gli abitanti della special administrative region sono “servi dell’imperialismo britannico”.
Cosa farà Pechino? Verosimilmente lascerà sbrogliare la matassa a C.Y. Leung. Questo è peraltro il suo compito. La questione di Hong Kong non può essere trattata dal centro perché non è di interesse nazionale. Non è la democrazia in discussione, ma soltanto l’ordine pubblico. Se non fosse così, se la polizia locale fosse insufficiente a reprimere si aprirebbero scenari completamente nuovi o dagli esiti imprevedibili. Questo non è nelle intenzioni della Cina. Hong Kong non può e non deve diventare un caso politico. Nelle celebrazioni per la festa nazionale del primo ottobre, il segretario Xi Jinping ha imposto l’unità del partito. In altri tempi sarebbe stato il preludio all’invio dei carri armati. Ora serve invece a rinserrare le fila dopo le tremende purghe anti-corruzione.
La Cina ha bisogno di un uomo forte che sappia dimostrare di unire la leadership e risolvere i problemi. Se cresce la sua autorevolezza, tenderà a negligere Hong Kong. Più sarà potente, meglio potrà procedere al rinnovamento. Se invece si dimostrerà debole, dovrà mostrare i muscoli. Hong Kong tornerà allora a essere una caso esemplare e agli uomini con le stellette sarà chiesto di muovere i cingolati.