Night in the city (Le Canzoni Inclinate)

Il disastro di Bhopal, la bomba sul rapido 904. Dai, Orwell, mica te la immaginavi una chiusura d’anno simile, quando scrivesti il tuo “1984”.

Era questo il pensiero che attraversava la mente svagata e stanca di Brunilde Pozzi, intanto che usciva dalla Stazione Centrale di Milano con la borsa da viaggio in mano. Tornava da Roma, dove aveva trascorso il consueto, imbarazzante Natale con la madre e il patrigno, trattenendosi fino al 30 e barcamenandosi tra vacui chiacchiericci e impacciati silenzi. Quando suo padre se ne era andato alla chetichella, molti anni prima, la madre non aveva fatto nulla per dissimulare il sollievo. A venticinque anni, a lei era toccato ammettere che, benché vivesse ancora in famiglia, sui rapporti tra i suoi genitori non aveva capito un bel niente.

Un signore distinto, camminando in direzione opposta alla sua, la urtò e passò oltre, come se nemmeno se ne fosse accorto. Neppure lei parve risentirsene; d’altronde, era talmente abituata all’altrui noncuranza verso la sua persona da non stupirsene nemmeno più.

Chissà che aveva in testa sua madre, quando insistette tanto per affibbiarle quel nome, Brunilde, immediatamente amputato in Bruna, in modo da appiccicarle addosso un’evidente dissonanza. La piccina era infatti bionda: del resto, con i genitori entrambi chiari di pelle e di capelli, era piuttosto improbabile che non lo fosse. Bruna la bionda, così l’avevano soprannominata i compagni di scuola, dalla prima elementare alla quinta liceo la medesima e trita canzonatura, ancora ripetuta da qualche collega.

Minuta, di aspetto fragile sebbene di solida costituzione, aveva gli occhi di un celeste sbiadito e la carnagione diafana, il volto ovale dai lineamenti abbastanza regolari, il naso forse appena un poco lungo. Nel complesso graziosa, ma con un che di inequivocabilmente modesto che la faceva scomparire agli occhi dei più.

Durante il periodo trascorso a Roma con la madre, non aveva nemmeno accennato alla cocente delusione patita proprio l’ultimo giorno di lavoro, prima della chiusura per le festività natalizie.

Diplomata in lingue, Bruna aveva appena ventiquattro anni allorché era approdata nella filiale milanese, situata in Corso Sempione, di una grande azienda statunitense di cosmetici. Grazie alla perfetta padronanza dell’inglese, era stata assegnata alla Divisione marketing come segretaria del Direttore, il giovane dottor Malnati. Uomo ambizioso e piuttosto spregiudicato, egli aveva intrapreso una brillante carriera, assurgendo dapprima alla carica di Direttore Commerciale e poi a quella di Direttore Generale. Dotato di un’intelligenza brillante ma di modi spicci, al limite della scortesia, era perfettamente controbilanciato dalla discreta presenza operosa della sua segretaria: garbata e accomodante, essa riusciva nel difficile intento di contenere il tratto sgradevole del suo superiore, limitandone le ripercussioni nei rapporti con gli interlocutori. Bruna gli facilitava le giornate, organizzando lavoro e tempo libero. Standogli accanto per venticinque anni, aveva avuto modo di conoscere i suoi gusti e le sue manie, la vanità, le amanti, il chirurgo estetico di cui qualcuno sospettava l’esistenza, peraltro tenacemente smentita, e persino qualche poco edificante intrallazzo. Dunque, proprio non si aspettava di essere sostituita (con l’ultima giovane fiamma, poi) proprio in quel momento, all’indomani della nomina di Malnati ad Amministratore Delegato.

“Sai com’è, Bruna, ora ho bisogno di una segretaria un po’ più…”

(…un po’ più che?)

“Insomma, ci siamo capiti. Dal prossimo 2 gennaio resterai a disposizione del nuovo Direttore Generale, nominato dalla casa madre americana”.

(In un’altra vita, quella che di tanto in tanto ho sempre sognato di vivere, quella nella quale sono una donna intraprendente, determinata e disinibita in egual misura, ora troverei il sistema di ucciderti senza nemmeno sporcarmi le mani, razza di ingrato bastardo).

 Si ritirò volentieri nel claustrofobico bilocale in via Espinasse, nel quale non si era nemmeno presa il disturbo di esporre il minimo addobbo natalizio. La città era già asfissiata da troppe luci che ammiccavano meccanicamente e senza sosta, diffondendo il loro frusto messaggio ipocritamente allegro.

Guardando dalla finestra del tinello, nella foschia opaca del pomeriggio invernale notò che i due alberghi a ore, bassi edifici identicamente grigi affacciati sul marciapiede di fronte, avevano agghindato i rispettivi ingressi: vi era tuttavia qualcosa di grottesco in quel camuffamento e il loro aspetto miseramente squallido risultava assurdamente  messo in risalto. Non erano posti dove  la gente andava a dormire: tristi battone vi portavano i clienti disposti a sborsare qualche soldo in più per la loro prestazione; poi vi erano le coppie clandestine, distinguibili dalle prime perché varcavano la soglia tenendosi per mano, sforzandosi di ignorare la desolazione di un luogo che si poteva immaginare pervaso da un costante odore di minestra riscaldata e di ambienti poco arieggiati.

Si coricò presto, cercando di ignorare gli scoppi dei petardi sulla strada, provocati da coloro che si allenavano per la notte successiva. Dormì un sonno pesante e scontento.

La mattina dopo si alzò tardi. Dopo aver fatto la spesa, tornò a casa ben decisa a non uscire più fino al giorno in cui avrebbe ripreso il lavoro. Aveva gentilmente e fermamente declinato gli inviti delle poche amiche che frequentava, tutte accasate, a trascorrere la serata dell’ultimo dell’anno in compagnia, ben sapendo che in tale contesto la sua solitudine sarebbe risultata ancor più evidente e impietosamente sbattuta in primo piano, al pari della sordidezza dei due alberghi a ore nella cornice delle luminarie natalizie.

Tuttavia, nel lento scorrere di quell’ultimo giorno dell’anno, si sentì a un certo punto sopraffatta dal pensiero disturbante di essere arrivata a quel punto della vita in cui ci si ritrova a interrogarsi sulle proprie scelte, dubitando di avere sbagliato tutto. Con Cristiano, per esempio, al quale era stata legata da un lungo fidanzamento fin dai tempi del liceo. L’aveva tirata troppo per le lunghe, finché non si erano accorti di essere ormai irrimediabilmente distratti e lontani. E con Mauro, che aveva conosciuto durante una delle visite alla madre. Lui non voleva lasciare Roma, per la piccola azienda che conduceva con il fratello e per la famiglia; lei non voleva lasciare Milano, per il buon impiego e perché non voleva riavvicinarsi alla madre. Il lavoro l’aveva assorbita molto, forse troppo; poteva ricordare qualche simpatia irrilevante che si era risolta  nell’arco di una breve frequentazione: ed era arrivata a quarantanove anni.

(E se avessi davvero sbagliato tutto?)

 Nel tardo pomeriggio la colse allora una singolare frenesia, qualcosa di simile a un impulso di vitale ribellione. Si vestì con una certa accuratezza senza sapere bene perché e prese l’autobus fino in Piazza Castello. Camminò su via Dante e si diresse verso il Duomo, ma in via Meravigli deviò su via delle Orsole e sbucò in Santa Maria alla Porta solo per guardare la vetrina della Pasticceria Marchesi. Attratta dalla fragranza avvolgente di dolciumi e di cioccolato, entrò nell’elegante e antico negozio e si soffermò a contemplare i soffitti a cassettoni, i grandi specchi e le lampade art déco. Comprò un panettone tradizionale, pagandolo a peso d’oro, quindi tornò sulla strada sospinta da una bizzarra sensazione di levità, qualcosa che la riportava indietro nel tempo, fino alla spensieratezza dell’infanzia.

Per una volta, avrebbe indossato l’altra vita e si sarebbe lasciata guidare dalla leggerezza. La città sarebbe stata sua, almeno per quella notte.

Light up, light up
Light up your lazy blue eyes
Moon’s up nights up
Taking the town by surprise…

Si era fatto ormai buio e la maestosa Cattedrale riluceva del suo perenne biancore lattiginoso; al cospetto di tanta beltà l’abete natalizio posto sulla piazza sbiadiva, relegato a un’ineluttabile pochezza. Era  scesa la sera dell’ultimo giorno dell’anno, quell’ora sospesa in cui Milano si acquieta per farsi bella, in attesa dei festeggiamenti notturni. Passanti frettolosi, abbracci e strette di mano scambiati per strada; Bruna proseguiva il suo innocente cammino verso piazza San Babila. Dalla scala che immetteva alla metropolitana salivano folate di aria tiepida, ma non fu quello a guidare i suoi passi, bensì una melodia rotonda e dolce come il profumo che l’aveva attirata dentro la pasticceria.

Nel mezzanino, appoggiato al muro e seduto su di uno sgabello pieghevole, un uomo suonava la chitarra. Non era un ragazzo, certamente aveva superato la quarantina; Bruna notò che indossava capi di buona qualità  e che aveva belle mani che parevano morbide e curate. Non vide alcun piattino o scatola a terra, dunque non cercava soldi, dei quali in effetti pareva non avere un immediato bisogno. Suonava cantando a mezza voce, lo sguardo color nocciola vagamente trasognato, certamente altrove. Bruna osservò il volto dalla mascella squadrata, le guance leggermente incavate, le pieghe profonde ai lati della bocca, i corti capelli castani con qualche filo bianco.

L’uomo  fece ritorno dallo spazio interstellare nel quale doveva aver viaggiato e   rilevò la sua presenza. Abbozzò un sorriso gentile e seguitò a suonare, cercando di tanto in tanto i suoi occhi. Non scendeva quasi nessuno ai treni e lei rimaneva lì, con il suo panettone in mano, aggrappata alle note vibranti che le dita affusolate dell’uomo riuscivano a cavare dalle corde della chitarra, tormentandole amorevolmente. Si manteneva immobile per non spezzare quell’incanto, cullandosi nell’idea che fosse dedicato a lei sola.

“Buonasera, mi chiamo Dario”,

“…Brunilde”,

rispose lei, perché quella notte non era più Bruna, non era più quel nome interrotto: era la completezza fiera di Brunilde.

Dopo un poco uscirono e camminarono nella notte parlando di cose senza senso, solo per creare un intreccio nel quale muoversi senza ferirsi. Lui abitava all’ultimo piano di una vecchia casa in via Milazzo, dove mangiarono il panettone guardando dalla finestra la sagoma oscura della bella Chiesa dell’Incoronata, singolare costruzione risultante dall’unione di due luoghi di culto costruiti in epoche successive, tra Corso Garibaldi e via Marsala. Suonò la mezzanotte, Milano era in festa per salutare il nuovo anno; loro erano smarriti in un lungo abbraccio, da qualche altra parte.

La destò il freddo, o forse il silenzio, o magari le sue stesse membra, indolenzite per aver dormito su di un nudo pavimento, in un appartamento vuoto e polveroso, i vetri offuscati dalla sporcizia. A terra giacevano i resti del panettone tradizionale della Pasticceria Marchesi, nell’aria fredda e satura di umidità percepì un vago sentore di legno di sandalo. Sulle mattonelle scure e polverose le uniche impronte visibili erano quelle dei suoi stivaletti con il tacco; l’uscio di legno era accostato, ma non chiuso. Si chiese come diavolo fosse finita in quel luogo e perché, ma non ne aveva la minima idea.

La notte era finita; la luce del primo mattino del nuovo anno l’aveva strappata all’altra vita, restituendola a quella di tutti i giorni.

A dispetto dei suoi sforzi, nei giorni successivi non riuscì a spiegarsi il suo risveglio in quel luogo disabitato. Per quanto scarsamente convincente, finì con l’accogliere l’ipotesi che il nervosismo represso, la lunga camminata e il freddo l’avessero condotta a un momentaneo stato confusionale.

Tornando al lavoro dopo Capodanno trovò un gran subbuglio: il dottor Malnati aveva perso la vita il 31 dicembre, in un incidente sugli sci a Cortina.

In un’altra vita avrei trovato il modo di ucciderlo senza sporcarmi le mani, ma non dicevo sul serio, pensò subito Bruna, sforzandosi di scacciare la sensazione di colpevole disagio che la stava opprimendo.

Il nuovo Direttore Generale, una donna mandata da New York, assunse anche la carica di Amministratore Delegato e convocò subito Bruna.

“Dunque…Brunilde, che bel nome: avrò bisogno di tutta la sua attenzione, lei conosce molte cose di questa filiale che io ignoro”.

Brunilde. Lei poteva essere Brunilde, lei era Brunilde.

Lavorando accanto a quella donna cortese e inflessibile, Brunilde acquisì una luminosa sicurezza e fu finalmente consapevole delle sue manifeste capacità. Assorbita dagli impegni e dalla sua laboriosa evoluzione interiore, non si era nemmeno accorta dello scorrere dell’inverno e dell’inizio di una nuova stagione, più clemente e colorata, foriera di desideri e di illusioni che avrebbero potuto tramutarsi in speranze.

Era una bella serata di maggio e al cinema Arlecchino, in via San Pietro all’Orto, era programmato l’ultimo film di Woody Allen, “La rosa purpurea del Cairo”. Nessuna delle sue amiche era disponibile, così decise di andarvi da sola. Alla biglietteria c’era una discreta confusione e a un certo punto fu spinta in avanti, urtando l’uomo che la precedeva nella fila.

“Mi scusi!”,

disse subito, e quello si voltò, guardandola. Un uomo di aspetto gradevole, il volto dai tratti volitivi segnato da qualche ruga e gli occhi color nocciola. Le rivolse un sorriso gentile e rimase per un poco imbambolato, come se stesse frugando nella memoria, mentre Brunilde considerava che vi era qualcosa di terribilmente familiare nel suo aspetto.

“…niente, si figuri. Scusi, lo so che può sembrare una scusa davvero banale, ma…ci siamo già incontrati da qualche parte?”

Lei ebbe la sensazione di riconoscere la sua voce e anche la lieve fragranza di legno di sandalo, poi notò le sue mani, eleganti e curate, e scivolò per qualche istante in uno straniamento assoluto.

“Forse. Può darsi, anche se non saprei dire dove né quando. Comunque, io sono Brunilde”.

“Felice di conoscerla, Brunilde, o di riconoscerla, chissà. Io sono Dario”.

There are places to come from
And places to go…

*****

“Presto, ch’è tardi”, borbottava il Bianconiglio, zampettando a destra e a manca e consultando l’orologio che estraeva dalla tasca del panciotto, nel quale si pavoneggiava. Ma l’orologio era fermo, ogni giorno su un’ora differente: dunque, che fretta c’era?

In certe storie il tempo si lascia docilmente manipolare, per porgere a chi leggerà un momento di quiete, un respiro profondo, un’innocente e consapevole evasione.

Vi auguro buone cose, ma prima ancora che vi accompagni la capacità di immaginarle, la costanza di perseguirle e il coraggio di custodirle.

A presto.

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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