Il Presidente cinese Xi Jin Ping mette in guardia contro l’ossessione del PIL. Sostiene che la crescita della ricchezza – che il PIL rappresenta nella sua versione squisitamente economica – deve essere bilanciata, qualitativa, senza strappi. Sa che una flessione del ritmo annuale – dal 10 al 7% – privilegia la stabilità, lancia un segnale di maturità ai mercati, evita il rischio di fughe in avanti. È una delle battaglie che sta portando avanti contro le scorie della dirigenza precedente. Per la corruzione gli arresti sono eclatanti, nella ricerca di sviluppo equilibrato le critiche appaiono più teoriche.
Eppure anche Xi deve aver esultato come tutti i Cinesi quando il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato il suo ultimo bollettino. Nella classifica era certificato che il Pil cinese aveva superato quello statunitense, concludendo una rincorsa secolare. L’entusiasmo era giustificato, seppur simbolico. Il sorpasso è stato conteggiato con i valori a parità di potere d’acquisto. Il costo della vita negli Stati Uniti è più alto, la conversione dunque dei parametri rende la Cina prima in classifica. È il primo passaggio; gli altri 2, più importanti, si avranno quando il Pilsarà primo in valore assoluto (entro un decennio) e soprattutto quando il suo valore pro-capite raggiungerà quello statunitense (in un futuro non prossimo). Solo allora, la Cina sarà compiutamente il paese più ricco al mondo (al netto degli stati più piccoli come Lussemburgo, Qatar e Singapore che godono di situazioni particolari).
L’annuncio del FMI ha dato comunque fiato alle trombe nazionaliste cinesi che insistono sulle virtù del popolo che riescono a convertirsi in successi economici. Ritornano negli editoriali i concetti di risparmio, frugalità, sacrificio, rispetto della collettività. Sono i capisaldi della cultura cinese, i valori che la connotano.
L’Occidente è la terra del progresso tecnologico, non di quello morale e culturale. Da questo punto di vista la convinzione cinese è ugualmente radicata di quella europea o nord-americana. Washington, Londra, Berlino sono le capitali della supremazia militare, culturale, industriale. Quando queste competenze si diffondono – come succede nella globalizzazione – gli antichi valori cinesi prevalgono: il sorpasso del Pil ne è solo il primo esempio. Mentre gli altri paesi sembrano languire nella gestione del declino – indulgendo nei consumi e aumentando il debito pubblico – la Cina procede con il lavoro e il risparmio.
Queste osservazioni sembrano dimenticare che anche la specializzazione del lavoro è antropologica, che le invenzioni tecnologiche sono culturali. Si può essere spendaccioni negli shopping center e finanziare le migliori università al mondo. Se si negano queste verità, come spesso succede nella stampa cinese, si corre il rischio di duplicare l’arroganza, non di sconfiggerla. Dietro la grande industria degli anni ’30 in America ci sono state sia invenzioni che sofferenze. Il benessere che ne è derivato è stato successivo; la società dei servizi ha soppiantato ma non eliminato quella manifatturiera. Xin Jin Ping conosce questi percorsi meglio dei cantori del nazionalismo cinese. Per questo è impegnato a trasformare la Cina. Sa che il suo paese ha ancora margini di miglioramento. Quando avrà la sua Silicon Valley, smetterà di produrre calzature e abbigliamento.