Chi ha paura della sharing economy?

La paura è una brutta bestia.

Di solito si ha paura di cose che non si conoscono, fuori dalla propria sfera di confidenza.

Ciò che oggi sta succedendo nel mondo è nuovo, estremamente nuovo, per questo è perdonabile il timore verso le nuove dinamiche di consumo, o la cosiddetta sharing economy.

Ma se istintivamente siamo portati a valutare per analogia, dobbiamo ricordare che quando si paragona vecchio a nuovo il benchmark può essere fuorviante.

Tanto più affrontiamo novità, tanto più è faticoso comprendere cosa succede, e, soprattutto, che implicazioni possa avere.

Ragionando di sharing economy risulta difficile non partire dai social network: la condivisione del primo asset, ovvero noi stessi, i nostri gusti, opinioni e azioni: blogselfie, pagine facebook ne sono testimonianza principale, così come l’user generated content in generale.

E la capacità delle piattaforme di monetizzare ciò che in precedenza non poteva essere monetizzato in tale scala, ha sicuramente giocato un ruolo.

Il passo ulteriore che le nuove piattaforme stanno permettendo è di estendere la meccanica ad altre tipologie di asset.

Ma qui si crea il problema: se non esisteva prima un “market” per noi stessi, ne esistono già di consolidati per gli altri asset, e con i relativi meccanismi di monetizzazione.

Questi sono anche regolati, e si appoggiano su dinamiche (intermediazioni) la cui efficienza è (relativamente) facile da migliorare con processi e software.

News, carta e social: un discorso più complesso.

La prima forma di critica a questi modelli prende vita dall’impatto che essi hanno sulla struttura esistente del mercato, gli operatori che al momento gestiscono lo stesso genere di asset : basti pensare ad Uber, visto come nemesi dei tassisti, o ad AirBnB nemico degli Albergatori.

Addirittura c’è chi accosta allo schiavismo la nuovo proposta di Amazon, che permette a chiunque dotato di smartphone, auto e patente di consegnare i prodotti gestiti dalla piattaforma; al più si può dire Amazon nemico degli operatori logistici (o delle Poste).

Insomma, si parla dei nemici, ma quello di cui si parla molto poco sono gli amici.

[tweetthis]La sharing economy distrugge ricchezza o pone le basi per altro?[/tweetthis]

Chi sono gli “amici” di questi modelli?

Gli amici sono quelli che posseggono un asset, automobile, casa, o semplicemente del tempo da dedicare, e scelgono di capitalizzarli percependo un beneficio economico.

Chiaramente siamo noi, i Consumatori; forse oggi Consuproduttori, o Prosumatori, o quale altra parola vogliamo creare.

Ma perchè mai questo dovrebbe far paura?

E’ chiaro che se guardi l’attività di consegna o il taxi con la lente della contrattazione collettiva o della licenza il tutto può sembrare fosco e perverso.

Rimane che negli anni novanta abbiamo finanziato con soldi pubblici vagonate di posti operatore per call center, sopratutto nel sud; dati orari fissi e intensità dell’attività, onestamente mi pare scelta molto più fosca rispetto a liberalizzare qualsiasi piattaforma oggetto del ragionamento.

Ma se metti le lenti del mondo attuale, dell’impreditorialità, della flessibilità, questo tipo di mestieri lasciano la libertà di scegliere il proprio tempo, l’asset più importante, e quindi possono giocare un ruolo anche come ammortizzatore di precarietà, un cuscino dove appoggiarsi mentre stai iniziando o dove cadere se la fortuna non ti arride, che comunque ti permettono di non rinunciare a percorrere la tua strada, potendo contare su attività alternative.

In questo contesto ogni decisione di acquisto assume una variabile in più, la redditività dell’asset durante il non utilizzo: è una risorsa aggiuntiva.

E’ possibile che un meccanismo del genere abbia controindicazioni nel welfare?

Sebbene coltivando sani dubbi, mi sono sempre trovato a considerare questo modo di ragionare come un grado di libertà aggiuntivo.

E questo non può che aumentare l’efficienza dell’allocazione di risorse, quindi il rischio legato a ciscuna decisione, sia del singolo e che della popolazione (rischio sempre più elevato nel mondo flessibile).

Ma se la mia era solamente una sensazione, qualcuno ragionando in modo scientifico sui modelli peer to peer  rental  (Sundararajan, Fraiberger New York University, October 6, 2015), ha raggiunto conclusioni interessanti:

Perhaps the most important takeaway from our current findings, one we fully expect to persist with extensions and alternative calibrations, is that peer-to-peer rental marketplaces have a disproportionately positive effect on lower-income consumers across almost every measure.

This segment is more likely to switch from owning to renting, provides a higher level of peer-to-peer marketplace demand, is more likely to contribute to marketplace supply, and enjoys signicantly higher levels of surplus gains. We highlight this finding because it speaks to what may eventually be the true promise of the sharing economy, as a force that democratizes access to a higher standard of living.

E’ chiaro anche che questi argomenti sono basati su US, e non tutti i modelli portano le stesse evidenze in tutti i contesti.

Ma a fronte di questo, possiamo almeno ammettere che la questione è complessa, ha possibili impatti positivi, e ragionare mettendo da parte la paura?

Rimane il fatto che questa dinamica di consumo è dove il mondo vuole andare; e non per qualche complotto ordito da non meglio identificati cospiratori, ma perchè ciascuno di noi ha iniziato a chiedersi come meglio utilizzare le proprie risorse.

Ci sta poi che alcune piattaforme supportano questo utilizzo meglio di altre.

E proprio per questo, piuttosto che bloccare l’espansione di questi modelli, è meglio gestirne l’evoluzione, indirizzarla con regole condivise ed uniformi, promuovendone la proliferazione.

Abbassare barriere per evitare pericolosi, questo sì, fenomeni di concentrazione.

L’onda non si fermerà per qualche legge Italiana, e bloccare servirà solo a selezionare le più determinate tra le piattaforme, e non è detto siano le migliori.

Insomma, se proprio vogliamo aver paura di qualcosa dovremmo aver paura di noi stessi, dello sguardo che abbiamo sul nuovo, perché questo potrebbe raccontarci molto di noi. Comprendere ed affrontare gli eventi, anziché respingerli, può farci evitare di correre in direzione contraria ad un futuro migliore.

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Pubblicato da Peppe Tomei

Pragmatico pontificatore e battutista seriale, innovatore di mestiere e di passione; sopravvissuto alla bolla del '00 mentre esplorava California ed Israele, dopo qualche tempo nel Private Equity nostrano decide di rimettersi in gioco nel mondo Corporate, per coltivare il gusto del "fare", atterrando in modo stabile a Milano.

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