Le banche, italiane e non solo, vengono scambiate sul mercato a prezzi che oscillano come in un suq arabo. Una volatilità impazzita che mette gli investitori su un ottovolante, dai cui sedili sembra impossibile fermarsi a fare analisi o riflessioni ponderate. Proviamo allora a farle noi:
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Una bad bank pubblica è quindi necessaria?
Non sarebbe meglio prima imporre un processo di aggregazione fra le banche più piccole, anche per evitare che i vecchi assetti di potere rimangano inalterati dopo l’aiutino pubblico? Ad esempio, MPS aveva un azionista di maggioranza che, a suon di aumenti di capitale, si è diluito fino a perdere gran parte del suo peso azionario. Carige ha avuto una situazione simile.
Pensando ad alcune popolari, non sarebbe meglio aspettare la loro trasformazione in SPA ed imporre in qualche modo agli azionisti un aumento di capitale?
È un concetto un po’ rozzo da un punto di vista tecnico, ma lo chiedo perché penso che un azionista debba farsi da parte se non ha denaro per salvare la società in questione o se ce l’ha e non lo investe in attesa dell’aiutino pubblico.
Grazie per lo spunto.
In realtà penso che un’operazione di fusione ispirata al principio di “annegare” i problemi in un pozzo più ampio non rappresenti affatto una soluzione. La capacità di maggior profittabilità che deriva da economie di scala è piuttosto contenuta ed in ogni caso fare una fusione allo scopo di “poter” licenziare e chiudere sportelli mi sembra un percorso un po’ lungo senza cambiare il tragitto che andrebbe intrapreso anche in un’ipotesi stand-alone.
Fondersi per licenziare e chiudere sportelli, per evitare di dover licenziare e chiudere sportelli… mah… forse una complicata operazione di fusione concepita così servirebbe solo a facilitare il dialogo fra azienda e sindacati nell’impostare una trattativa.
Poi, certo, rimangono delle situazioni dove una fusione aiuterebbe a diluire (ridurre) certe dinamiche localiste e/o clientelari e/o politiche, e su quel fronte credo che siano opportune.
Grazie per la risposta.