Dario Ferrari, un grande romanzo su due generazioni perdute

ricreazione finita

Antonio D’Orrico, critico letterario del Corriere della Sera, Sette e La Lettura, è stato negli ultimi trent’anni “responsabile” di molte scoperte, forse potremmo dire epifanie, che il vostro umile estensore delle #LettureInclinate ha fatto nella sua ormai non breve vita di lettore maturo.

Fu D’Orrico, trattando di Lamento di Portnoy prima e Pastorale Americana poi, a fare breccia parlando di Philip Roth come di un talento portentoso e poi, in tempi più recenti, di Sandro Veronesi, Edna O’Brien e ancora Andrea Vitali e Alessandro Piperno, o Pierre Lemaitre.

Negli ultimi anni, siamo stati meno in sintonia con lui e le sue scelte, ma oggi siamo di nuovo a celebrare una proposta che D’Orrico ha fatto nella sua colonna su La Lettura: parliamo di Dario Ferrari, nato a Viareggio nel 1982 e del suo secondo romanzo, che si intitola La Ricreazione è Finita (Sellerio, Pag. 466, Euro 16): il critico lo ha definito

“il più bel romanzo italiano degli ultimi tempi”

e su questo abbiamo più di qualche dubbio, ma poco importa, perché certamente si tratta di un gran bel libro, che val la pena di leggere.

L’AUTORE

Su Dario Ferrari non sappiamo tantissimo: questa è la sua opera seconda, è laureato in Filosofia e, come il protagonista di questa storia, Marcello Gori, ha seguito un dottorato di ricerca all’Università di Pisa; siamo nel 2017 e Marcello è un trentenne un po’ spiantato, che rimedia a fatica qualche centinaio di euro ogni mese, “per fortuna quasi tutti in nero”: mette insieme qualche serata come cameriere, dà lezioni private, aggiorna un sito di produttori di tessuti ed è anche per questo che vive ancora con la madre, separata dal padre, il quale possiede un bar in cui vorrebbe coinvolgere il figlio, senza successo.

IL LIBRO

Il romanzo si apre proprio con un burrascoso incontro fra padre e figlio e notiamo subito che il registro narrativo è scanzonato, ironico, disilluso: se volessimo fare un parallelo con altri autori italiani, potremmo citare Malvaldi (conterraneo del nostro) e Robecchi.

Questo ad esempio è Fedè

“il barbiere ottuagenario di via Coppino cui né l’età né gli ettolitri di alcol dozzinale sono riusciti a togliere saldezza alla mano, acutezza della vista e vividezza delle bestemmie. Prende 7 euro per la barba, 15 per barba e capelli, non richiede prenotazioni, non emette ricevute e non c’è verso che ti faccia uscire dal suo bugigattolo senza averti insultato la mamma”.

Il padre di Marcello

“…se in passato può essere stato piacente ormai mi sembra poco più di un vecchio scorbutico con un mefistofelico alito da MS (nonostante, almeno ufficialmente, non fumi da vent’anni)

..e la madre

“Mia madre è un’insegnante di storia dell’arte che lavora da decenni nella stessa scuola e il cui progresso più significativo nell’ultimo decennio è stato quello di pensionare le sue gloriose diapositive e accettare la lavagna elettronica”.

Come si nota forse già da questi piccoli contributi, Ferrari è molto attento alle parole, alla lingua che usa, e si vede che questa è stata la sua vita in decenni di studio; il racconto è in prima persona, è Marcello che ci dice di sé, di quel che gli succede, della fidanzata Letizia, una ragazza di famiglia ricchissima che studia medicina, che così si rivolge al suo Marcello:

“-Te non hai emozioni. Sei anaffettivo: vivi la tua vita come se fosse quella di un altro. E manco di un altro qualsiasi, ma proprio di un altro di cui non ti interessa nulla”.

Orbene, cosa capita al nostro Marcello? Gli capita di partecipare ad un concorso per due borse di studio triennali (da milleduecento euro al mese) e, in maniera assai rocambolesca, di piazzarsi al secondo posto, quindi di ottenerla. Marcello dovrà studiare per tre anni, retribuito, alla corte del professor Sacrosanti, classica figura di barone universitario, che gli assegna un argomento particolare: deve approfondire vita ed opere del genius loci, Tito Sella, intellettuale della sinistra extra-parlamentare, incarcerato per aver partecipato ad azioni anarchiche alla fine degli anni Settanta; in carcere studia e scrive, è incompreso ai più, è certamente da riscoprire e rivalutare (anche perché una sua opera, la “Fantasima”, una sorta di autobiografia, non si è mai ritrovata e il nostro Gori potrebbe farcela). L’archivio degli appunti e delle memorie di Sella è, come si conviene per un “rivoluzionario” di quegli anni, custodito a Parigi, dove ancora bazzicano alcuni suoi compagni di ventura, in ossequio ai risultati della dottrina Mitterand.

Il racconto inquadra questa vicenda, racconta con arguzia e abilità l’ambiente universitario, gli avvenimenti di questa vita banale che ora pare avere una svolta, facendolo in modo gradevole, scanzonato, con vena satirica certamente apprezzabile. Ma, attenzione, questa non è la cifra stilistica che, a nostro avviso, fa eccellere questo romanzo: Marcello potrebbe tranquillamente essere uscito da uno stralunato pomeriggio al Bar Lume, giusto per fare un cross-over con i personaggi di Malvaldi (che Dario Ferrari cita, guarda caso, nella sua Nota finale).

No, quello che fa fare il salto di qualità a questo romanzo non è questo, ma il cambio di registro, e anche di passo, che l’autore imprime al racconto dopo duecento pagine: Ferrari apre un lungo flash-back a cinquant’anni prima, abbandona Marcello Gori e la prima persona, e inizia a narrare Viareggio, gli anni Settanta, la contestazione, il lavoro ai cantieri navali, i bagni della Versilia e cinque strani soggetti (Athos, Miro, Giorgio, Romano e ovviamente Tito Sella, cui si uniranno Emma, e poi Barabba) che pensano di non poter accettare tutte le ingiustizie della loro società, fondano una brigata anarchica, la Brigata Ravachol, e dalle prime riunioni clandestine in oratorio (!) poi passano a ideare azioni prima puramente dimostrative e poi sempre più ardite (grottesco e spassoso il racconto del rapimento del rampollo di un potente imprenditore locale).

Cambio di passo, si diceva: sì, perché l’autore, laddove nella prima parte è ironico, sardonico, abilmente superficiale, poi diventa accuratissimo, analizza il contesto sociale, i sentimenti di queste persone, le loro idee e discussioni, sempre in bilico fra la goliardia e il crimine, fra il desiderio di giustizia sociale, il coraggio e la paura.

Se Sella finisce in carcere, qualcosa è andato storto: dopo centocinquanta pagine di rievocazione emozionante e avvincente, la narrazione torna in mano a Marcello Gori, spostatosi nella Parigi dei jilet-jaunes ad analizzare l’archivio di Tito Sella, e portandoci verso il compimento di questa vicenda, dove passato e presente si incontrano e i vari filoni narrativi arrivano a definirsi sotto i nostri occhi, con notizie dolorose, scoperte sconcertanti ed un colpo di scena finale.

Ciò che ci colpisce in questo romanzo è l’abilità dell’autore nel variare gli stili narrativi, fornirci ritratti di persone che ci pare di conoscere da sempre, entrare nel difficile contesto sociale degli Anni Settanta, fra idealismo e violenza, e nella vita di Marcello e di Tito, due generazioni in qualche modo perdute, anche se in modo diverso.

Nelle parole che Dario Ferrari sceglie per lui, il percorso di Marcello, gli consente, alfine, di ritrovarsi:

“E’ forse la prima volta che vivo senza residuo, senza distacco ironico, senza guardarmi vivere con uno sguardo mezzo partecipe e messo disincantato”

dice verso la fine della sua vicenda: dove sei ora, Marcello? Dove sono tutti i “marcello” di questa nostra generazione, cosa fanno oggi, nel 2023? Chissà se Dario Ferrari continuerà a raccontarcelo.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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