Riflessioni di un giovane che diventa un acido vecchiaccio

In un precedente articolo, abbiamo affrontato il tema del lavoro in ottica evolutiva: il mondo cambia e bisogna starne al passo e se si studia e acquisiscono capacità si ottengono riconoscimenti e opportunità in misura maggiore e con meno rischi. Sono cose che anche mia nonna sapeva.
Certo, formalizzarle matematicamente è un altro paio di maniche, e questo è sicuramente il primo importante riconoscimento al modello. Inoltre esso ha il pregio di darci nuove indicazioni su strumenti di policy alternativi ai 3 fattori elencati da Solow (risparmio, demografia, produttività): scolarizzazione, accesso all’istruzione, politiche di sostegno alla scuola (anche e soprattutto superiore), ricerca&sviluppo, training on job, formazione continua e politiche attive del lavoro sono strumenti efficaci quanto il tasso di risparmio per garantire che la crescita di capitale e innovazione non lascino indietro “morti” sul mercato del lavoro.
Concentriamoci sulla scuola, e riflettiamo nuovamente sulla domanda dell’altra volta: siamo stati scolari diligenti o il banco si cucinava da tanto lo scaldavamo? Insisto su questo punto perchè i fattori che influenzano il rendimento scolastico, ma soprattutto la stessa partecipazione scolastica, non mi sembra vengano ancora ben compresi e “modellizzati” dai ricercatori.

In un recentissimo lavoro del 2016, Grossman et al. evidenziano come un adeguato tasso di crescita della scolarizzazione riesca a garantire una crescita bilanciata  malgrado il progresso capital augmenting in corso.
La condizione necessaria per garantire che sia “bilanciata” è che l’accumulazione di capitale aumenti la produttività marginale della scolarizzazione relativamente alla produttività marginale del lavoro.
Questa complessa frase ha significati, e conseguenze, immensi[sociallocker]:

  1. sostiene che sia necessario che la scuola formi personale con alte qualifiche e competenze già in buona parte spendibili sul mercato del lavoro senza ulteriore lungo training formativo in azienda. Entra cioè in gioco l’efficenza del programma formativo scolastico e il suo “stare al passo costante” con il mondo imprenditoriale.
  2. dice che la crescita della scolarizzazione deve per forza essere un fattore endogeno che discende direttamente dalla accumulazione di capitale.
    Però io sono più acido e ne faccio anche un problema “etico” che potenzialmente sovverte questa opinione. Ed è il nodo nevralgico di questo articolo.

Sul primo punto il dibattito, specie in Italia, è infinito, inconcludente e troppo spesso sterile.
Se i legislatori e i sindacati studenteschi leggessero questi studi probabilmente sarebbero più favorevoli a riforme scolastiche che promuovano l’incontro e il confronto fra scuola e aziende, per un proficuo scambio di conoscenze, esperienze e professionalità. E invece ci perdiamo nelle secche di concetti astratti e a mio giudizio vacui quali “l’arte per l’arte”, “conoscenza pura”, “lo studio libero”, il cui significato concreto mi è ancora ignoto dopo tanti anni.
Si usa anche dire che le nostre scuole formino benissimo e che molti buoni/ottimi ricercatori e talenti all’estero siano italiani. Sorrido di tanta ingenuità. Pur essendo vera la proposizione, essa dimostra solo che questo paese non è business and talent friendly, e che la numerosità di quanti “emergono” non è sufficiente a garantire la crescita bilanciata indicata da Grossman&Co.
Ci sono una gran parte di laureati, anche ormai 40enni e oltre, impiegati in lavori sottospecializzati rispetto alle conoscenze acquisite in università.
E altro, oltre questo link, non ritengo necessario aggiungere.

In merito al secondo punto, sostenere che la crescita della scolarizzazione sia endogena perchè segue necessariamente all’accumulazione di capitale, tradisce una fiducia cieca nella “spontaneità” della crescita del livello di istruzione.
Ma a chi la vogliamo raccontare? Impegnarsi nel complicato e faticoso compito di comprendere, analizzare, metabolizzare e (eventualmente) criticare l’oggetto dello studio non è una passeggiata: ci vuole passione, dedizione, spesso sforzo, che tante volte avvertiamo penoso e futile.
Per continuare occorre sapere che tanto impegno serve ad uno scopo. Non riesco proprio a credere che sia una cosa “spontanea”.
Dove lavoro io si usa dire:

il nonno costruì, il figlio godette, i nipoti dispersero

grumpy004190

Sarà l’impressione di un ex giovane che invecchia e assomiglia ad una zitella acida, ma tanto la mia generazione quanto l’attuale stanno godendo dell’alto benessere raggiunto e penso ci siamo “seduti”.
Guardando le ricche società edonistiche, non mi sembra cioè che la partecipazione scolastica oltre la scuola dell’obbligo migliori, nè che la successiva dispersione scolastica si riduca. Nè cresce la mia fiducia sull'”etica dello studio” nella nostra società se stiamo qui a domandarci se sia opportuno o meno togliere i compiti a casa per dare più tempo libero ai ragazzi, che tra l’altro spesso stanno a scuola a “scaldare il banco”, benchè buona parte della colpa sia anche delle noiose e vetuste modalità di insegnamento.
E nel frattempo l’Estremo Oriente macina ritmi furiosi di scolarizzazione superiore.
L’istruzione superiore, che è alla fin fine l’oggetto e il “convitato di pietra” del nostro discorso, non è poi che la diano gratis così, per strada. I costi finanziari per l’iscrizione e la frequenza, ma non dimentichiamo anche quello speso per la ricerca di una facoltà e di un indirizzo di studi adeguati e rinomati, non sono pochi e spesso non sono alla portata di tutti, in barba alla meritocrazia.
E altrettanto brevi non sono certi corsi universitari che richiedono poi ulteriore specializzazione ritardando così l’inserimento nella professione e l’età di avvio e maturazione dei contributi, un peso che molti non possono o non vogliono permettersi.
E altro non ritengo necessario aggiungere.

Quindi, non solo non spingiamo adeguatamente le leve per bilanciare e rendere sostenibile la crescita, ma creiamo una società i cui obiettivi e “idoli” sono ben lontani dall’impegno richiesto. E mica finisce qui la mia tirata acida.
Alla fine del precedente articolo scrivevo:

Sembra quindi che il sistema economico tenda spontaneamente verso il progresso tecnologico, e allora bisogna evolversi se si vuole evitare una selezione darwiniana del lavoro, potenzialmente sanguinosa per gli effetti che la diseguale distribuzione della ricchezza può avere.

Una disuguaglianze marcata fra labor e capital shares provoca infatti distorsioni nella trasmissione della politica fiscale, del lavoro e monetaria, dato che impatta sulla composizione della base fiscale e della domanda aggregata: rispetto ai capitalisti, i lavoratori salariati hanno una maggiore propensione al consumo, perciò una diseguale distribuzione del reddito (magari accompagnata anche da disoccupazione proprio delle fascie più basse della popolazione) significa una minore base imponibile che riduce il moltiplicatore keynesiano.
Ugualmente una diseguale distribuzione della ricchezza può vanificare lo sforzo di politiche monetarie non convenzionali come QE e “helicopter money” aumentando le disuguaglianze piuttosto che ripristinando i consumi. Anzi, potrebbero invece favorire il ricorso al credito per sopperire al minor livello di consumi e investimenti, con il rischio di bolle creditizie spinte dalla irrazionalità delle banche ad accogliere la forte domanda di fondi (secondo Minsky, la sua ipotesi di instabilità e “schema Ponzi “), ma per fortuna non sembra essere il caso dei nostri tempi moderni di credit stagnation.
Infine la disuguaglianza distributiva potrebbe influenzare l’efficenza economica perchè, più essa è percepita come risultato della globalizzazione o dell’introduzione di innovazioni tecniche (per le quali mancano e non sono acquisibili competenze), più si possono creare spinte per politiche protezionistiche, che è quanto vediamo da troppe parti richiesto.

[/sociallocker]Vedete che il modello così sviluppato ha qualcosa da raccontarci anche sulla nostra attuale situazione: se la diminuzione mondiale della partecipazione alla forza lavoro è strutturale e riconducibile alla disillusione di trovare lavoro perchè ci si sente (o si viene percepiti come) inadeguati (per scolarità o competenze), questo getta allora un’ombra minacciosa sulla efficacia delle prolungate politiche monetarie attuali, che nella loro lotta alla disoccupazione sembrano moderni Don Chisciotte contro i mulini a vento che esse stesse hanno contribuito a creare.

Anticipo subito una possibile obiezione al mio pensiero: il trend di declino della partecipazione alla forza lavoro, benchè duri da anni, è ancora troppo recente per essere definito di “medio periodo” e quindi adeguato ad una analisi con modelli di crescita.
Io però penso che col tempo scopriremo che questo calo è strutturale e vi gioca un ruolo importante il sentirsi un dropout del lavoro, per mancanza o insufficienza di scolarità, competenze, specializzazioni e l’assenza o l’insufficienza di politiche attive del lavoro. I dati dell’Employment Report USA di marzo 2016 sembrano contraddirmi (mostrano una modesta ripresa della labor force ultimamente), ma rimango del mio parere. Il futuro ci dirà.

Sono maggiormente disposto a credere “spontanea” questa mia pessimistica visione della scolarizzazione, piuttosto che quella endogena di Grossman et al, spontanea perchè la credo evoluzione naturale di una società opulenta e consumistica.
Schumpeter vive un postumo riconoscimento in queste mie parole: non tanto il capitalismo che semina i germi della sua autodistruzione, bensì il capitale che crea le ragioni per più frequenti e durevoli cicli economici (avversi in particolare).

DOMANDA IMPERTINENTE: l’autore vuol farci passare l’impressione che il modello sia veramente utile per capire la situazione odierna, ma gira al largo da una domanda fondamentale: se i tassi sono attesi rimanere a zero o addirittura negativi per un lungo periodo ancora, il modello di crescita cosa ci può dire in merito?

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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