Qual è lo stato di salute dei Paesi che avrebbero dovuto rappresentare il futuro economico mondiale e cosa ci insegnano gli ultimi quindici anni del loro percorso?
Innanzitutto che i famosi “Emerging markets” – dal fortunato termine coniato negli anni Ottanta da Antoine Van Agtmael che con tale nome indicava una trentina di mercati autonomi non pienamente sviluppati – si sono adagiati sulla straordinaria crescita cinese, commettendo l’errore di non fare le necessarie riforme strutturali (eliminando i sussidi, raggiungendo il pareggio di bilancio, rafforzando il sistema bancario, creando uno stato di diritto e combattendo la corruzione).
Così, oggi, con la marea cinese in ritirata, gran parte di essi, tranne l’esempio del Vietnam, che non è dipendente dalle materie prime e ha fatto molto per crearsi un futuro industriale, vanno malissimo.
Stesso discorso per i “Brics” – acronimo inventato da Jim O’Neill per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – che seguono due strade differenti: [sociallocker]una comunque positiva per Cina e India (sostenuta com’è da un settore dei servizi che produce il 50% del Pil e che non avendo materie prime sfrutta ogni altro rivolo di crescita, come il settore dei software) e un’altra in salita per Brasile (che da grande promessa è diventato il grande malato), Russia (in difficoltà oltre che per il petrolio anche per le situazioni geopolitiche che la riguardano) e Sud Africa (con tassi di disoccupazione intorno al 30%): tre economie colpite dal crollo dei prezzi delle commodities, da problemi politici e che mancano di un forte settore tecnologico che, invece, sta guidando la crescita economica di Taiwan e Sud Corea. Paesi, i Brics, che hanno vissuto un decennio perduto, pieno di grande euforia ma di cui non hanno saputo approfittare. Difatti i dati mostrano che i tech stock rappresentano solo il 4,1% del mercato russo, lo 0,3% del mercato brasiliano e lo 0,4% di quello sudafricano. Con la politica che ha colpe evidenti: la rivoluzione tecnologica arriva dal basso e ha un potenziale ridotto in quelle nazioni – si pensi soprattutto alla Russia – dove la libertà di espressione-azione è osteggiata.
Situazione analoga per gli altri emergenti del “Mint”: Messico (che è moderatamente dipendente dalle materie prime e che rimane ancorato alla crescita statunitense che continua a tenere), Indonesia, Nigeria e Turchia (dal grande potenziale che deriva da una terra ricca culturalmente e da una economia che può dirsi pronta ma dagli altrettanto noti problemi di matrice religiosa che impattano negativamente sul mercato e contribuiscono a disoccupazione e inflazione crescenti).
In generale, quindi, si può dire che appena la Cina starnutisce, tutti gli emergenti si prendono la polmonite. Per esempio, la situazione in Tailandia è preoccupante con crescita nemmeno al 3%, alto debito dei privati che strangola l’economia e riduce i consumi e il Bath al minimo dell’ultimo decennio. D’altro canto, Paesi come Vietnam e Indonesia stanno mandando segnali interessanti in termini di innovazione e sviluppo, ma è ancora troppo presto per tirare le somme perché, nonostante investimenti importanti in infrastrutture (circa il 10% del Pil), politica e religione, purtroppo, rappresentano sempre pericoli non da poco.
Ricordando che la deflazione che affligge il mondo deriva anche dall’eccesso di capacità produttiva della Cina, complessivamente negli ultimi quindici anni i mercati emergenti hanno raggiunto una quota del Pil mondiale superiore al 50% e hanno anche acquisito autorevolezza (pensiamo a Cina, India e Turchia: tre nazioni che crescendo hanno costruito banche proprie e hanno cominciato a essere ascoltate da Onu e Fondo monetario internazionale) ma con la crescita in forte rallentamento da almeno un paio d’anni i nodi vengono al pettine e in cambio dell’esportazione di materie prime quasi tutti i mercati emergenti hanno prima smantellato la propria industria (debole e protetta), poi hanno iniziato a importare manufatti cinesi e adesso si ritrovano senza industrie e con poca libertà di manovra.[/sociallocker]
Nel mondo, pensando al futuro, si parla della necessità di fare riforme strutturali ma, di fatto, ovunque cambia sempre troppo poco. Riflettendo sulla mia lunga esperienza nel sud-est asiatico e ritornandovi oggi, dopo oltre vent’anni dalla mia prima volta, devo ammettere che immaginavo di vedere maggiori progressi. E ho il sospetto che le riforme strutturali siano chimere impossibili da realizzare gradualmente a causa di posizioni di rendita che non mollano i privilegi acquisiti, rendendo vani gli sforzi di chi vuole cambiare l’assetto socio-economico in maniera importante. Allora varrebbe la pena di cominciare a credere che soltanto grandi traumi esogeni potranno modificare lo status quo in società ossificate. Perciò, anziché temere le varie deflazioni o crisi finanziarie, sarebbe più saggio cercare di cavalcarle per sfruttare positivamente la loro forza distruttrice, perché solo così potremo finalmente rompere schemi obsoleti ricreando situazioni in cui innovazione e produttività possano liberamente crescere.