Il panorama degli intermediari finanziari sta drasticamente cambiando forma. Le istanze portate dalla crescente riduzione del digital divide hanno alzato l’asticella delle richieste di innovazione da parte dei clienti e l’ingresso di nuovi e più dinamici soggetti dalla parte dell’offerta stimola sempre più la competizione tra gli intermediari.
Se in Italia l’agenda digitale comincia a conquistare l’attenzione di un pubblico sempre più vasto, grazie anche al buon lavoro svolto dall’Intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica, nel Regno Unito – con Londra capitale indiscussa anche nel settore dell’innovazione nei servizi finanziari – l’onda Fintech si è fatta strada anche nella programmazione politica. A dicembre 2014, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne nell’ambito dell’Autumn Statement (la previsione sulle spese governative dell’anno successivo) ha annunciato un piano per stimolare la concorrenza tra intermediari incoraggiandoli ad aprire le porte sui loro big data attraverso lo sviluppo di uno standard di API utilizzabile anche (soprattutto) da sviluppatori non appartenenti al novero degli intermediari. (Qui il report presentato dal governo inglese in alllegato allo Statement e qui gli esiti della conseguente consultazione, terminata a marzo 2015).
Questa nuova (per le banche) cultura della condivisione dovrebbe essere benvenuta: oltre ai vantaggi per il consumatore, le banche hanno molto da guadagnare da questo approccio. I loro sistemi legacy scricchiolano da tempo sotto la continua pressione dell’innovazione e abbracciare il progetto di una piattaforma più aperta, può voler dire semplificare il processo di aggiunta di nuovi servizi, forniti dal mondo Fintech, o anche altre intermediari autorizzati che si vorranno specializzare in un settore specifico.
Tuttavia, questo non significa che i problemi legati ad un’architettura IT arcaica e complicata possano semplicemente essere ignorati. Perché l’apertura per mezzo delle API possa avere davvero senso, sarà necessario che la questione sia affrontata e risolta al fine di garantire la loro API collegamenti a queste funzioni di core business.
In altre parole, l’iniziativa del governo inglese è un passo nella giusta direzione ma è un approccio esclusivamente top-down. Costringere le banche ad aprire qualche piccola porta sui loro dati è necessario ma non sufficiente: per un reale cambiamento, con tangibili benefici a lungo termine, è fondamentale affrontare il problema da basso verso l’alto.
Nella pratica, l’esempio più evidente – e più citato – è quello di OpenBankProject, un’iniziativa nata nel Regno Unito che ha come scopo quello di sfruttare la tecnologia open-source affinché si creino i presupposti per la realizzazione, da parte di soggetti indipendenti, di servizi, applicazioni e API utilizzabili dagli intermediari in modo che questi ultimi non siano “costretti” a realizzare ex-novo una tecnologia proprietaria ogni qual volta che sia necessario implementare un nuovo prodotto, un nuovo servizio, un nuovo canale, ecc.
A prima vista, promuovere l’utilizzo di software open-source in un contesto così regolamentato come quello finanziario potrebbe sembrare un controsenso, quasi un suicidio. In realtà il progetto insiste direttamente sull’attuale struttura di compliance degli intermediari, coinvolgendoli nella sfida. Alcuni grandissimi player (qui i link agli hackathon di Royal Bank of Scotland e BNP Paribas) stanno già testando le Open Bank Project API.
A questo proposito, nell’ambito dei progetti di coinvolgimento delle startup da parte di soggetti istituzionali, tra le iniziative europee mi piace citare il Future of Finance Challenge di UBS e la seconda edizione di Appathon, l’hackday di UniCredit. Merita invece una menzione particolare la banca spagnola BBVA. Tra le primissime grandi realtà ad investire importanti risorse nella ricerca di nuovi modelli di sviluppo e innovazione (l’acquisizione di Simple ha segnato l’inizio dell’interessamento dei grandi player verso le startup finanziarie), BBVA ha appena premiato i vincitori del suo settimo Open Talent, una competizione tra startup fintech di tutto il mondo chiamate a sviluppare progetti innovativi con il mentoring, e eventualmente anche il funding, di BBVA.
Già nel 2014, in occasione del lancio di una serie di hackathons, BBVA aveva reso accessibili i propri dati relativi ai consumi del pubblico in un dato lasso di tempo per aree come Barcellona, permettendo a sviluppatori terzi di tracciare le abitudini di spesa quotidiana di, ad esempio, i turisti russi in confronto a quelli danesi. Lo scopo era, nell’esempio, di permettere agli esercenti sul territorio di targettizare i propri prodotti e servizi in base alle interazioni tra tipologia del pubblico, orari, percorsi, ecc. Analogamente, BBVA ha reso disponibili agli sviluppatori ulteriori set di dati di diverse città messicane. Di sicuro, alla banca spagnola non manca il commitment dei vertici…
Sempre sul fronte dell’apertura e condivisione dei dati da parte degli intermediari, dall’altra parte dell’Atlantico, è notizia recente quella della nascita del primo consorzio internazionale per la creazione di un ecosistema di API pronte a connettere sviluppatori, fornitori e utenti finali. L’iniziativa è coordinata dalla californiana Xignite (azienda che già dal 2003 si è specializzata nella raccolta e fornitura di dati finanziari tramite API) e i ventidue membri del “consorzio”, tra cui spiccano nomi come Nasdaq, Yodlee e Level39 lavoreranno assieme per promuovere e sviluppare la creazione e introduzione nel sistema di una serie standardizzata di API. Queste saranno poi raccolte in un “catalogo”, manutenuto da Xignite stessa, al quale gli sviluppatori avranno accesso semplificato.
Queste iniziative inevitabilmente porteranno lo spazio Fintech ad essere regolato in misura analoga a quella degli intermediari finanziari tradizionali. Questo è uno dei motivi per cui molte startup scelgono di aderire a un progetto di standardizzazione “istituzionalizzato”: perché c’è un supporto implicito dei regulators fin dalle prime fasi di sviluppo. Credo che sia proprio attraverso questo approccio riflessivo alla compliance che le startup saranno in grado di portare un pratico, tangibile ed efficace contributo di innovazione per l’intera industria.