Una scuola che si adegui ai tempi

Sostiene Eugene Fama, premio Nobel per l’economia nel 2013, che in realtà la crisi finanziaria del 2008 sia stata determinata dalla crisi economica e non viceversa.

In effetti, nelle economie occidentali avanzate la finanza ha risposto (a volte anche in modo errato o fraudolento) ad una domanda di benessere insostenibile, non adeguatamente rapportata alla futura crescita, messa in crisi dalla globalizzazione e dal prepotente avanzare delle economie emergenti (la cui quota del PIL mondiale è passata, a parità di potere d’acquisto, dal 30% degli anni ’90 al 50% nel 2013.

Economie basate sul debito, pubblico e privato (Fama però non riconosce alcun valore all’espressione “eccesso di debito”, dal momento che presupporrebbe un “eccesso di credito”), nelle quali tassi artificialmente bassi e capitali (quel “global saving glut” di cui parlarono Greenspan e Bernanke) liberi di circolare a caccia di rendimenti, hanno determinato bolle di immense dimensioni, finanziarie e immobiliari (come in USA e in Spagna) e la errata convinzione che un certo livello di benessere fosse ormai definitivamente acquisito.

In quel contesto, si inseriva e si inserisce l’inesorabile declino del manifatturiero a basso valore aggiunto, colpito da delocalizzazioni e importazioni dai paesi emergenti. Lo scoppio delle bolle, la repentina fuga dei capitali/risparmi, il massiccio deleveraging di aziende e privati, obbligate violentemente a ridurre il livello di indebitamento, la riduzione del livello di credito dovuta alla necessità di non cumulare ulteriori sofferenze e ad una minore di domanda di credito sana (conseguente alla difficoltà di avviare business profittevoli), un alto livello di debito pubblico, di volta in volta dovuto a inefficienze, salvataggi bancari, welfare sempre più oneroso anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, hanno determinato un contesto di bassa crescita e alta disoccupazione.

Qui un grafico sull’inesorabile calo di stipendi e salari rispetto al reddito interno lordo degli Stati Uniti, conseguente alla sempre minore incidenza del manifatturiero e del “lavoro” (clicca per ingrandire):

wageasgdp

Nel grafico seguente, invece, la quota, in controtendenza rispetto a quella del “lavoro”, di profitti aziendali USA rispetto al reddito nazionale lordo, superiore del 50% alla media storica (6,3%):

corporateprofits

Inoltre, nonostante una prolungata politica monetaria espansiva e diversi QE, il livello di occupazione è ben lontano da quello precedente la crisi (il numero di coloro che escono definitivamente dal mercato del lavoro, che non risultano quindi né occupati né disoccupati, è in costante aumento) e il PIL potenziale è costantemente revisionato al ribasso.

Nel grafico seguente, le diverse revisioni al ribasso del PIL USA e la sua situazione attuale:

potentialGDP

Per quanto riguarda l’occupazione, il grafico successivo mostra che bisogna tornare al 1984 per trovare una percentuale così bassa di occupazione nell’intervallo di età 25-54, quello necessariamente più interessato al mercato del lavoro:

fredgraph

Ne è nato un accesso dibattito: stante tutto quanto sopra, siamo di fronte ad una crisi congiunturale come le altre o di fronte ad una crisi strutturale/permanente, per effetto della quale, senza interventi straordinari, la futura crescita sarà inesorabilmente ridotta rispetto al passato e quindi si dovranno accettare livelli di PIL potenziale e reale sempre più bassi? Ci dobbiamo aspettare che la disoccupazione naturale diventi strutturalmente più alta e che l’offerta di moneta sia traguardata ad una minore crescita?

Non si può dimenticare, a tale ultimo riguardo, che il gap, la differenza tra PIL attuale e PIL potenziale, condiziona, in Europa, anche la regola del pareggio di bilancio, la quale prevede che più è alto il gap di cui sopra maggiore potrà essere la flessibilità nel conseguire il pareggio strutturale (e viceversa, naturalmente). Inoltre, la politica monetaria della BCE è impostata su un tasso di accrescimento annuo dell’aggregato maggiore, M3, del 4,5%, il quale però è stato formulato su un’ipotesi di crescita del PIL reale pari al 2/2,5% all’anno. Qualora tale crescita dovesse essere rivista strutturalmente al ribasso, l’accrescimento annuo di M3 dovrebbe essere anch’esso ridotto e la BCE dovrebbe alzare i tassi più rapidamente in caso di ritorno della ripresa, così però rischiando di limitarla?

Tralasciando, ora, tali ultimi aspetti, rimane la domanda principale di cui sopra, soprattutto con riguardo alle ricadute economico-sociali e agli interventi da porre in essere.

Al riguardo, Larry Summers, in passato Segretario al Tesoro USA e direttore del National Economic Council, sostiene che siamo di fronte ad una “secular stagnation”, di una crisi permanente, quindi da affrontare con strumenti straordinari..

Soprattutto, Larry Summers sottolinea che tale crisi si inserisce in un quadro di zero lower bound, cioè di tasso nominale a zero che, in quanto tale, non può essere ulteriormente ridotto dalla banca centrale. Secondo Larry Summer, quindi, in un contesto di invecchiamento della popolazione, bassa fertilità, carenza di investimenti, ridotto apporto dell’innovazione tecnologica, si determina una caduta strutturale del PIL potenziale e del tasso di interesse naturale – che va in territorio negativo – che non può essere fronteggiata unicamente con la politica monetaria.

Sul PIL potenziale e tasso di interesse naturale e, soprattutto, della loro “stima” si vedano, da ultimo, il contributo di Benoît Cœuré della BCE e
il paper di Laubach e Williams, entrambi con incarichi nel board della FED, i quali stanno anche provvedendo all’aggiornamento continuo della stima.

Per Summers, in conclusione, residuano solo tre possibilità:

  1. Non far nulla ed attendere, con tutti i risvolti sociali del caso, il realizzarsi della “legge di Say”, secondo la quale prima o poi l’offerta crea la relativa domanda. Una prolungata bassa domanda, però, potrebbe, secondo Summers, determinare una “isteresi”, una sorta di memoria economica negativa che danneggia permanentemente l’offerta e la futura crescita;
  2. Confidare unicamente nella politica monetaria; questo però potrebbe determinare una forte instabilità finanziaria, perché una volta che i tassi arrivano a zero alla banca centrale non rimane che impegnarsi a mantenerli tali per un lungo periodo, così incentivando – unicamente – bolle e il roll over di debiti di aziende “zombie”;
  3. Dare vita ad una serie di azioni: incentivare gli investimenti privati, riformare il sistema fiscale, promuovere le esportazioni, sottoscrivere trattati di libero scambio e, soprattutto, coordinare una politica monetaria accomodante (ma dinamica) con una politica fiscale espansiva, rimandando – di cinque anni – la riduzione del deficit (che il governo USA ha previsto di tenere sotto il 3% nel 2014 e negli anni successivi) e dando vita ad un programma di investimenti pubblici, approfittando ovviamente dell’attuale basso costo del debito.

La seconda possibilità, esclusa da Summers, dà atto, come più volte sottolineato da Draghi, che la politica monetaria da sola non può risolvere crisi strutturali. Può smussare crisi congiunturali, può, attraverso i QE, inflazionare il debito, può svalutare la moneta, può orientare le preferenze degli investitori (convogliandole verso investimenti più rischiosi ma con il pericolo di creare bolle e arricchire solo i già ricchi, aumentando le disuguaglianze), ma non può consentire, da sola, di risolvere crisi profonde e che vengono da lontano come quelle che stanno colpendo gli Stati Uniti e l’Europa.

Tra le opinioni divergenti a quella di Summers, si segnala l’intervento di David Beckworth, non tanto per le critiche alla inusuale (per Summers) visione semi-Keynesiana, quanto per l’accenno al bel libro – e ai relativi interrogativi – di Erik Brynjfolsson e Andrea McAfee, “The second machine age: work, progress, and prosperity in a time of brilliant technologies”.

Al di là, infatti, del necessario ribilanciamento, nei bilanci statali, di spese correnti e investimenti, favorendo gli ultimi, e di misure tese ad inflazionare il debito, fermo che nelle attuali condizioni l’uso prolungato del deficit non può essere certo una soluzione né per gli USA (si veda, per esempio,The United States’ debt crisis: far from solved né, a maggior ragione, per l’Italia, già gravata da un enorme debito pubblico derivante da una struttura di spesa totalmente inefficiente, viene in rilievo l’esigenza di capire se e come sapremo affrontare la distruttività, nei confronti dei lavoratori low skilled, che deriverà dal prossimo salto tecnologico.

Nell’ebook “Secular stagnation: facts, causes and cures” (reperibile qui) numerosi esperti si interrogano sui problemi e sul futuro delle economie avanzate. Le soluzioni proposte sono molte, così come sono molte le problematiche che dovremo affrontare (si pensi solo alla sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale allorquando la popolazione sopra i 65 anni supererà abbondantemente quella in età da lavoro), ma tutte contemplano un sistema scolastico/universitario nuovo e adeguato.

Globalizzazione, finanzializzazione e “the second machine age” determineranno, infatti, ancora di più la necessità di saper provvedere e ad avviare lavorazioni e business ad alto valore aggiunto, in beni e servizi, ed in un contesto internazionale e ad alto contenuto tecnologico.

Già ora, anche in Italia, il mismatch tra competenze richieste dal mercato e possedute dai giovani ha determinato – come concausa – dapprima una forte e persistente disoccupazione e successivamente la definitiva fuoriuscita dal mercato dal lavoro (o la fuga all’estero), la quale non può certo essere fronteggiata dall’intervento statale (a mezzo di assunzioni nel pubblico impiego) se non a prezzo dell’insostenibilità del debito pubblico e di continuare ad avere una pressione fiscale così elevata da scoraggiare ogni iniziativa privata e limitare la possibilità di assunzione anche in quei pochi settori in cui il mismatch è minimo o inesistente (per una panoramica sul punto, “Labour Market Developments in Europe“, 2013).

In assenza di una radicale trasformazione del sistema scolastico/universitario italiano, tale mismatch, quindi, sarà evidentemente ancora più marcato in futuro.

Il nostro sistema, infatti, non riesce più neppure a garantire i livelli adeguati di conoscenza di materie fondamentali (per quanto riguarda inglese, matematica, scienze, e lettura siamo sotto la media OCSE) e certo non è strutturato per stimolare la ricerca, premiare il merito di insegnanti e studenti e attrarre talenti da tutto il mondo.

Peraltro, da un lato, il sistema non ha capito neppure che risultati debbano essere raggiunti (quanti nostri laureati in giurisprudenza/economia, per esempio, avranno le competenze per occuparsi della prossima area di libero scambio TTIP?) e dall’altro non avrebbe comunque gli strumenti per raggiungerli, visto che è totalmente autoreferenziale ed orientato unicamente ad offrire posti di lavoro a vita (per insegnanti e professori, però) e titoli di studio con “valore legale”, senza alcuna valutazione delle richieste del mercato e delle famiglie.

La riforma della scuola, annunciata da Renzi, nulla muta di tale quadro, limitandosi, in sostanza, a prevedere l’assunzione di 148.000 insegnanti, con una spesa a regime stimata, nell’elaborato divulgato, in 4,1 miliardi di euro.

La riforma, di fatto, non prevede alcun tipo di valutazione esterna sull’efficacia del sistema scolastico, con incentivi e sanzioni, né prevede forme di concorrenza tra istituti scolastici pubblici e privati attraverso un sistema di voucher alle famiglie, che anzi sembra definitivamente allontanarsi, visto che le scarse risorse disponibili – ancora da individuare – saranno necessariamente utilizzate per la copertura dei pesanti oneri nascenti dal piano assunzioni.

Non è chiaro se con la riforma in questione debbano intendersi terminati i provvedimenti sul ciclo educativo, lasciando – incoscientemente – immutato il sistema universitario attuale, del tutto inadeguato a fornire quei nuovi saperi e quelle nuove competenze di cui si è detto.

Visto il contenuto della riforma scolastica, sembra però di potersi dubitare che la riforma universitaria, qualora fosse adottata, determinerebbe un’effettiva “rivoluzione” (utilizzando il termine sbandierato per la riforma della scuola) nel ciclo di studi universitari.

La mancanza di coraggio e di visione ora dimostrata non consentirebbe certo di ridurre drasticamente, come necessario, le sedi universitarie, trasformandole in centri di eccellenza (aperti anche a nuove forme di apprendimento on line MOOC – spesso internazionali e di alto livello), nei quali il “tenure” ai professori viene riconosciuto solo dopo anni di comprovati meriti e nei quali la retta universitaria è modulata sulla base del merito e del reddito sino ad essere integralmente coperta da borse di studio in caso di studenti particolarmente bravi, così consentendo di attrarre e premiare i talenti migliori, professori e studenti.

Appare, quindi, del tutto fondata l’idea che la scuola rimarrà ancora ministeriale e l’università ancora baronale, figlie anziane e inacidite del secolo scorso, ad unico detrimento dei giovani studenti meno abbienti, che non possono accedere ad alternative più costose, cioè proprio quelli che, nelle intenzioni, si vorrebbe tutelare e che invece poi, per inadeguatezza della classe politica, risultano e risulteranno maggiormente colpiti da quel mismatch di cui si è sopra ampiamente parlato.

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Pubblicato da roundmidnight

Occupa da anni, in modo semiserio, un posto in un consiglio di amministrazione all'interno di un "gruppo" internazionale.

11 Risposte a “Una scuola che si adegui ai tempi”

  1. La scelta fatta anni e anni fa, è stata di impiegare molti e pagarli poco, chiedendo a costoro, fra cui chi scrive, poco. Un grigiore pattuito fra le parti sociali e difeso a spada tratta da un egualitarismo malinteso che affligge tutto lo stivale.

    Il brutto male, riassunto nelle righe precedenti, ammorba non solo la scuola, ma gli enti culturali e più in generale buona parte della palude PA. E’ una sorta di cancrena che ha prodotto per anni doppiolavorismo ed ora una selezione al ribasso, invece che al rialzo, nella preparazione e motivazione didattica.

    Cambiare? Giusto scriverne, come qui con competenza e nickname anglosassoni, ma è altrettanto lecito dubitar del cambiamento.

    Abita davvero il cambiamento nella nostra cultura di cittadini prima che nello sventolar di parole dei governanti? Qual è la disponibilità ad assister allo sgretolarsi di antichi e nuovi privilegi (spesso inezie microscopiche) e di rendite di posizione ingiustificabili? Non penso agli assurdi compensi e pensioni di una classe politica irresponsabile, che non accetta per comodo la valenza necessaria di atti simbolici, come tagliarsi bruscamente le prebende, ma parlo di noi cittadini, forgiati al posto sicuro e allergici alla formazione permanente . Presa la “laurea” gabbato lu Santo e amen, tutti all’ufficio di collocamento ad aspettare i quaranta se va bene.

    Penso a noi accesi tifosi di questo o quello, pronti a voltar gabbana al girar del vento e a dar colpa all’euro, alle mosche, alle scie chimiche, agli immigrati, alla malasorte, alla Merkel, al turbocapitalismo liberista, alla globalizzazione, ai Cinesi, alla finanza in mano alla lobby Ebraica, a GoldmanSachs, al Bilderberg, ai Massoni, agli yankee, ma mai alle nostre evidenti mancanze, come ad esempio una popolazione per metà ferma al palo della Licenza Media.
    http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/scuola_e_universita/servizi/istat-scuola/istat-scuola/istat-scuola.html Roba da brividi.

    Quel che accade anche nella scuola, gentile Roundmidnight, è quel che non a caso fa parte della storia Patria dal Risorgimento in poi: il circoscritto eroismo individuale di pochi per una paga da fame (paralizzata da anni…) o il vivacchiare diffuso che educa e insegna il santo nulla che a niente educa e serve, con la motivazione a correre di una tartaruga.

    Improvvisamente, come per magia, si parla d’economia che per i nostri ragazzi è assimilabile al mistero delle piramidi di Giza.

    Cambiare parte da una consapevolezza di sé con sé, assai prima che dagli improbabili impulsi di Renzi, Grillo o Berlusconi. Lei o qualche lettore di Piano Inclinato ne vedono tracce di questa consapevolezza?

  2. E’ un commento molto bello e pertinente. La frase: “La scelta fatta anni e anni fa, è stata di impiegare molti e pagarli poco” sintetizza tutti gli errori di questo paese. Domani risponderò più diffusamente.

    Per ora, grazie del commento sincero e personale.

  3. Nell’articolo si parla di pericolo di disoccupazione per i low skill e magari qualcuno puó intendere che la second machine age possa riguardare i blue collar mentre il libro, e sopratutto quello precedente “Race against the machine”, sono stati scritti sull’onda dei progressi nell’AI che elimineranno sopratutto milioni di white collar con un ulteriore impoverimento della classe media che è stata gia falcidiata (in posti e salari) dalla interconessione dei sistemi favorita dalla diffusione della rete, il che da forse ragione a Fama quando dice che è la crisi economica (dovuta a una classe media impoverita) che ha creato quella finanziaria per impossibilità di poter pagare mutui e prestiti.
    Siamo quindi davanti a un nuovo scenario che richiede nuovi esperimenti economici, anche perchè ricette per la nuova situazione non ne ha nessuno.

  4. @cannedca: commento puntuale ed arricchente di un attento lettore anche di libri che possono aiutare a rendere più chiaro il futuro. Anche se temo che quel futuro continui ad essere del tutto opaco agli occhi della classe politica.

  5. @sakura: è così inutile e triste il dibattito quando lo si vuol indirizzare/risolvere per classi di persone: studenti/insegnanti, imprenditori, operai, lavoratori, dipendenti PA. ecc.

    Il compito, la responsabilità, della politica è invece tracciare un quadro di incentivi, sanzioni, concorrenza, merito, tale che chi bene opera possa essere premiato ed, al contrario, chi male opera sia costretto a pagare le conseguenze delle sue scelte.

    Il senso, però, non è quello di generici richiami paternalistici (lavorate, studiate, insegnate, innovate) né di elaborare cervellotiche norme che costuiscono solo un appesantimento burocatrico, ma di delineare cornici semplici di autonomia, responsabilizzazione e “fallimento” in un contesto di piena concorrenza.

    In quel contesto, un bravo insegnante/professore univ./dipendente PA. non perderà mai il posto (o farà poca fatica ad ottenerlo) e sarà sempre compensato per quanto vale. Per converso, un cattivo insegnante lo potrà ottenere ma potrà anche perderlo.

    1. Se un insegnante di italiano decide di inserire nel programma il Racconto del mugnaio di Chaucer (quello del peto in faccia, per intenderci) tratto dai Racconti di Canterbury (un classico) è un bravo insegnante o è un cattivo insegnante? Deve essere premiato o deve pagare le conseguenze delle sue scelte? Se un insegnante d’arte decide di inserire nel programma l’analisi del dipinto Two Figures di Francis Bacon è un bravo o è un cattivo insegnante? Verrà premiato o dovrà pagare le conseguenze delle sue scelte? (non sono un’insegnante, ma sui criteri di merito, in generale, ho diverse perplessità).

  6. @The Virgin Suicides Personalmente, sono a favore di una scuola meno nozionistica e più capace di stimolare logica, comprensione, coinvolgimento, problem solving, ecc. Quindi, assolutamente nulla in contrario a percorsi formativi diversi dal solito e usurato programma ministeriale che, anzi, sarebbero auspicabili.

    Ciò però ripropone le due considerazioni di fondo dell’articolo:

    – che famiglie e studenti dovrebbero poter scegliere tra scuole diverse, e con un approccio educativo/formativo diverso, così che sia a loro lasciata la possibilità se sia più utile affidarsi ad un insegnante che fa leggere Chaucer oppure ad uno che fa leggere Alfieri;

    – che famiglie e studendi dovrebbero poter avere tutti gli elementi, anche statistici, per poter scegliere. Che successivi risultati, universitari/lavorativi, hanno ottenuto gli studenti delle scuole di cui sopra (Chaucer o Alfieri)?

    Alla fine, ci si dimentica totalmente che il sistema scolastico/universitario non è di/per Stato/insegnanti, ma è degli/per studenti, e delle relative famiglie, a cui invece viene chiesto di aderire totalmente a scelte fatte da altri a prescindere dalla loro efficacia.

    E’ chiaro che così il sistema non poteva che diventare – e lo è ampiamente diventato – autoreferenziale e irresponsabile, totalmente slegato dalle necessità e della realtà.

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