Sharing Economy: c’è del lavoro da fare

Quando nel 1455 Johann Gutenberg realizzò il primo prodotto tipografico creò, con l’innovazione della stampa, i presupposti di una rivoluzione: l’accesso alla cultura non doveva più passare necessariamente per degli intermediari (gli amanuensi) e la possibilità di creare con facilità numerose copie di un testo ne facilitarono la diffusione alle masse. Il ruolo svolto da internet è stato simile: dando la possibilità di contatti veloci e diretti ha facilitato la diffusione di servizi e consentito il superamento di molte intermediazioni.

Uno dei frutti di questa facilità di contatto è la sharing economy: l’economia della condivisione. Che sia la “banca del tempo” di TimeRepublik, la condivisione di un’auto per un tragitto di BlaBlaCar, o la condivisione di un trapano attraverso LocLoc, le persone possono scegliere di preferire l’utilizzo al possesso e, accedendo ad una sterminata quantità di possibili controparti, diventa semplice trovare qualcuno interessato a ciò che si ha da condividere come risulta altrettanto semplice trovare qualcuno che possa prestare o noleggiare ciò che si sta cercando. Si scopre il piacere di collaborare e condividere si riscopre spesso, con queste formule, un comportamento più rispettoso e responsabile.

Uno dei casi più rilevanti di sharing economy è rappresentato da Airbnb: la sua storia inizia nel salotto dei fondatori (a San Francisco) nel 2007. Sapevano che in città ci sarebbe stata presto un’importante conferenza sul design e che gli alberghi erano ormai saturi. Hanno deciso così di offrire una parte del loro loft insieme ad una ricca colazione casereccia. L’esperienza ha funzionato ed è diventato un business di successo. Forse anche troppo.

La condivisione di una casa consente al turista di vedere il lato autentico e non turistico delle città e delle culture che visita, mentre genera un guadagno extra a chi ospita. Finché qualcuno non ha preso in senso più ampio la condivisione passando ad affittare una casa, arrivando fino a un proprietario che possiede ed affitta con Airbnb 272 immobili diversi (arrivando a guadagnare quasi 7 milioni di dollari l’anno): ecco che si esce dall’ambito casereccio e amicale della sharing economy e si entra nel torbido campo dell’elusione dalle regole. L’avvocatura di New York ha rilevato (a quanto abbiamo letto dalle pagine del New York Times) che il 6 per cento dei locatori incamera il 37 per cento degli affitti, ed evidenzia come ci siano una dozzina di stabili in cui oltre il 60 per cento degli appartamenti è affittato per più di metà anno, funzionando de facto come un hotel.

Non è solo una questione di imposizione fiscale: secondo l’accusa si farebbe passare persharing economy del semplice business che non vuole sottostare alle discipline e ai doveri che sarebbero previsti. Inoltre questa comoda alternativa borderline finisce per spingere in alto i prezzi degli affitti tradizionali, perché riduce la disponibilità di appartamenti in locazione ordinaria. Insomma, anche chi non usufruisce di Airbnb finirebbe per “condividere” qualcosa: un contesto di prezzi in aumento.

È quando emergono questo genere di distorsioni che deve intervenire il regolatore. Un’iniziativa che nasce per facilitare la vita ad alcuni ed integrare i redditi di altri non deve diventare una soluzione per una deregolamentazione fai-da-te, altrimenti la sharing economydiventa solo un cavallo di Troia per fare dumping.

Si parla spesso, in vari ambiti, di garantire la pluralità. L’utilizzo di internet come piattaforma per “aprire” le attività alla platea degli utenti ha indotto molti a credere che si potesse creare una frammentazione efficiente e competitiva della proposta. Quello che abbiamo imparato in questi anni è che, senza l’intervento di un regolatore, internet può diventare invece la piattaforma in cui si creano degli oligopoli (se non addirittura monopoli) globali: l’abbiamo visto succedere con Google e con Amazon, tanto per citare due casi di situazioni in cui – anziché veder fiorire molteplici fornitori di un servizio – si è finito con l’avere sul mercato un colosso mondiale che “chiude” gli spazi a potenziali concorrenti.

Un impianto di regole che salvaguardi la parte migliore della sharing economy (l’impiego di risorse inutilizzate, la creazione di alternative originali, le relazioni personali che possono nascere) dalla malizia che vede nelle facilitazioni strumenti per alterare il mercato, è importante per garantire a chi ha idee innovative di trovare spazio per le proprie proposte e agli utenti di non ritrovarsi scelte ristrette per effetto di una selezione naturale che lascia sul mercato degli ingombranti esclusivisti.

Articolo pubblicato sul quotidiano Europa
/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.