La disintermediazione è una delle aspettative maggiormente fraintese dei tempi digitali. Pochi anni fa, quando Internet era lo strumento con cui si poteva “veicolare un numero enorme di informazioni, in un microsecondo, a un aborigeno dalla parte opposta del pianeta”
pareva naturale che la Rete sarebbe diventata un gigantesco mercato perfetto. Anzi, molto di più, un mercato nel quale si sarebbe verificato con semplicità un livellamento al meglio e in cui l’abbondanza e la fluidità avrebbero azzerato qualsiasi sovraprofitto.
In quel periodo la parola disintermediazione andava fortissimo e nessuno pensava, o perlomeno diceva, che tante volte la banalizzazione di una tecnologia non va d’accordo con la disponibilità universale effettiva dei vantaggi che porta.
Sembrava che qualunque bottega potesse estendersi su internet ma ora vediamo che sempre più merceologie sono territorio esclusivo di Amazon. Allo stesso modo la scomparsa delle agenzie di viaggio non ci ha fatto sospettare che di lì a poco ne avremmo avuta una molto più grande, senza la quale gli alberghi, di fatto, non esistono più.
Oggi la disintermediazione è tornata di moda, oltre che nell’ambiente esoterico dei bitcoins, in quello ben più interessante della Sharing Economy.
L’idea di rendere fruibili risorse esistenti, altrimenti sprecate, è davvero meritevole della massima attenzione. Non che sia inedita. Anzi. È un’idea che viene a chiunque nelle economie un po’ arretrate, dove il pragmatismo fa premio sui timori e le resistenze, la sicurezza e la political correctness. A Cuba ogni auto è un taxi, a Mosca in passato pure. In ogni cortile italiano pre-boom economico, in città come in campagna, non era difficile mettere i bambini a balia.
Infatti, la spinta principale alla sharing economy è data dalla necessità di integrare il reddito, cosa che in tempi di stagnazione diventa rilevante anche nelle economie avanzate, fosse anche per acquistare l’iPhone6.
Favorire l’integrazione del reddito dovrebbe stare molto in alto in qualsiasi agenda politica oggi, in un Paese come il nostro.
L’ottimo ministro Padoa Schioppa disse: “le tasse sono bellissime“, suscitando reazioni sgangherate e pretestuose – in assoluto non aveva torto, ma ancor più lo è liberare questa piccola iniziativa privata, che nell’insieme tanto piccola non è. Favorisce la responsabilità individuale, induce a un comportamento rispettoso, spinge a professionalizzare l’offerta. È il meglio del capitalismo.
Per questo l’Amministrazione dovrebbe considerarla una grande opportunità, mettendo un po’ da parte le capziosità fiscali e regolamentari. Niente disattenzioni, chiusure di occhi o altro ma, finché si resta nel piccolo, esenzioni e semplificazioni. Soprattutto per neutralizzare i grilli parlanti che sparano raffiche di eccezioni su sicurezza, igiene, regole e fisco, quasi sempre interessati o timorosi di chissà quali usurpazioni.
La sharing economy incrementa l’uso delle risorse attraverso scambi tra pari, quindi la disponibilità di piattaforme tecnologiche la porta dalla dimensione della “vista d’occhio” o del cortile a quella potenzialmente globale. Da un lato questo la rende infinitamente più funzionale e dunque utile, dall’altra apre la porta all’intermediazione che ora, dopo Amazon e Booking, sappiamo come funziona: da asso pigliatutto.
Anche questo è capitalismo, ma non è il meglio del capitalismo.
La sharing economy è condivisione, certamente, ma non quella del mantello di San Martino. La retorica delle buone cose: la socialità, la collaborazione e anche la solidarietà, riflette uno degli aspetti della sharing economy, importante per alcune delle sue applicazioni, ma accessorio. È l’aspettativa di reddito a renderla una cosa del mondo in cui viviamo. Tuttavia la caratteristica della tecnologia, che è l’essenza stessa dalla sharing economy sviluppata, come abbiamo visto, può dare luogo a soggetti estremamente concentrati che drenano una grossa fetta di questo valore generato dagli asset e dal lavoro delle tante persone che li mettono a disposizione.
Le istituzioni non dovrebbero favorire lo sviluppo di questi intermediari che sono già abbastanza forti da sé e che, pur investendo e apportando un indubbio perfezionamento del sistema, non necessariamente forniscono, visti dalla parte dei consumatori, un vantaggio tale da giustificare grosse quote di margine.
Vedere soggetti entrare nel mercato in modo prepotente e poi fare la parte della vittima non è particolarmente edificante e sorprende che alcune istituzioni mostrino loro benevolenza. Così come non è appropriato che le medesime istituzioni accreditino il soggetto intermediario più affermato in un settore (che magari è semplicemente il primo) del ruolo di munifico innovatore o di inventore di un modello di funzionamento che esiste in versione brick and mortar dalla notte dei tempi.
Le istituzioni, anche locali, dovrebbero piuttosto favorire la concorrenza tra queste piattaforme, incoraggiandone di nuove o addirittura agendo in prima persona con loro aziende. La dimensione conseguita non sarebbe poi così importante, purché raggiunga un livello minimo. Basterebbe una presenza secondaria per impedire a un operatore in posizione dominante di avere troppo potere per manovrare le leva del prezzo e delle condizioni contrattuali e così non si scoraggerebbe nemmeno l’investimento nella qualità del servizio.
L’Expo di Milano favorisce la realizzazione di iniziative sperimentali per la sua natura temporanea e coinvolgente e porterà nella città una quantità di persone bisognose di servizi e curiose di vedere cosa c’è di nuovo. Andrebbe decisamente utilizzato, col massimo sostegno da parte delle Amministrazioni, per dimostrare cosa può fare la Sharing Economy, per realizzare i soggetti che la animeranno, definirne e confini e per dimostrare che vale la pena fargli posto nella complessità delle norme e del fisco. Un’iniziativa da osservare a riguardo è Sharexpo