She’s leaving home (Le Canzoni Inclinate)

Wednesday morning at five o’clock As the day begins 

Silently closing her bedroom door 

Leaving the note that she hoped would say more.

Sono appena le cinque del mattino ma qualcuno in strada già si muove per iniziare una giornata di lavoro uguale a quella appena passata e alle altre che succederanno, una sequela di giorni indistinguibili nell’incessante moto che non conduce da nessuna parte.

Nelle stanze ancora immerse nel buio ristagna l’odore denso del minestrone consumato la sera prima a cena: in silenzio, gli sguardi bassi, ognuno immerso nei propri pensieri o nel proprio vuoto, mentre lei si aggrappava a un pensiero luminoso: è l’ultima volta, è l’ultima volta, è l’ultima volta, un ritornello gioioso, note musicali sulle quali danzare con impudente levità.

Ha rifatto il suo letto lisciando per bene il copriletto rosa e gettando un’ultima occhiata distratta a quella camera da bambina ove tutto rivela l’amore asfissiante dei genitori, da sempre impegnati nell’inutile sforzo di non farla crescere per tenerla al riparo:  dall’ottusa violenza di una periferia rancorosa, dai brutti incontri, dalle delusioni, dai dispiaceri. Lo sa, lo comprende, non lo sopporta più.

Otto anni di scuola dalle suore, Ave Maria e Pater Noster tra l’ora di storia e quella di latino, ordine e disciplina, il grembiule nero, lungo  a metà polpaccio e con il colletto candido, calzettoni bianchi e mocassini  fino alla quinta liceo. Ma alla fermata dell’autobus adocchia le sue coetanee, adolescenti sfrontate con le gambe in mostra, i sederi sodi appena celati dalle minigonne colorate, stivali sopra al ginocchio e sguardi sottolineati dall’eye liner nero nei quali brilla una malizia che non conosce, ma già invidia. Non vuole essere diversa da loro, vuole anzi appartenere a quel branco ricollocando i genitori in un ruolo non più preponderante: mi avete accompagnata sin qui, grazie, ora vorrei proseguire da sola.

Ha appena diciotto anni e vive da sempre in una periferia milanese qualsiasi, una come tante. Ma forse no, è leggermente peggio: un borgo rurale ingannato, sopraffatto, divorato da una città che ha fretta di allargarsi prima di crescere. Senza più 0storia, senza nessuna speranza; un luogo anonimo a cui è stata sottratta l’identità, popolato di individui scoraggiati dalla mancanza di prospettive  (esattamente come il paesaggio fuori dalla finestra), reietti dalle istituzioni, sopraffatti da una quotidiana forma primitiva di lotta per la conquista del territorio.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

E’ certa che fuori da quelle quattro mura, oltre il grigiume di un suburbio immoto e al tempo stesso turbolento, percorso da guizzi di brutalità ribollenti appena sotto la crosta, vi sia molto di più della città, dei cinema, delle sale da ballo, delle vie rallegrate da variopinte vetrine: vi è la vita stessa e persino il suo destino, quale che sia. Le sue compagne di scuola almeno possono uscire il sabato sera, vanno a ballare e il lunedì nell’ora di ricreazione bisbigliano di turbamenti e di esplorazioni più o meno audaci che lei può solo immaginare nell’oscurità compiacente della sua stanza, con l’imbarazzo di una consapevole profanazione di tutte quelle reliquie dell’infanzia.

Dalla vicina stazione giunge il fischio sfiatato del treno: lo prenderà per l’ultima volta, tre fermate fino in piazzale Cadorna, dove si incontrerà con lui: da lì inizierà, finalmente, il viaggio.

Si era imbattuta nel ragazzo in una domenica pomeriggio d’inverno, dinanzi all’ingresso del cinema Odeon, in via Santa Radegonda, dove c’era in programmazione “Amore mio aiutami” con Monica Vitti e Alberto Sordi. Mancava ancora un poco all’inizio della proiezione pomeridiana e indugiava dinanzi all’ingresso godendo del tepore di un sole singolarmente gagliardo.

Lui stava appoggiato al muro, una sigaretta penzolante all’angolo della bocca, gli occhi cerulei stretti a fessura tra le ciglia scure per ripararli dal fumo, scarmigliato e infagottato in uno sgraziato giaccone verde militare che ne evidenziava la magrezza. La osservava con un’espressione sfrontata sulla faccia acerba dai tratti spigolosi, il naso sottile e gli occhi eccessivamente distanziati, larghi e chiari; lei si era subito vergognata per il volto piacevole ma slavato, senza un’ombra di trucco a ravvivare il colorito pallido, i lisci capelli castani raccolti in un’infantile coda di cavallo, il cappottone marrone a doppio petto, le spesse calze di filanca color crema e le scarpe dal tacco basso: ma d’improvviso il mondo attorno era apparso sfuocato da una luminescenza dorata, mentre un’urgenza sconosciuta saliva a ondate vigorose, come una marea potenzialmente distruttiva eppure vitale. Era rimasta lì, impalata e inerme nel suo impudico offrirsi come preda consenziente e lui aveva capito.

Studiava alla Statale e proveniva da qualche provincia del centro sud; alloggiava alla Casa dello Studente in viale Romagna, dove anche la domenica pomeriggio vi era un via vai continuo di ragazzi e ragazze. Più tardi, pagliuzze luccicanti di polvere volteggiavano furiose nella lama di luce che entrava da una stretta finestra, imprigionate in un raggio di sole calante negli istanti in cui lei rifulgeva, si smarriva, moriva e rinasceva,  cosciente per la prima volta della sua carne e del suo respiro e della carne e del respiro di un’altra persona.

Solleva piano la valigia e si dirige verso il corridoio in punta di piedi, senza voltarsi indietro. Ha indossato i nuovi blue jeans acquistati di nascosto con una camicia di taglio maschile, chiedendosi che direbbero i suoi se la vedessero vestita così e con il rimmel sulle ciglia, le guance rosate dal fard e le labbra rosso fragola: ma non la vedranno.

Si sofferma dietro la porta chiusa, afferra la lettera accuratamente ripiegata giacente sulla mensola dell’appendiabiti a muro e la ripone in tasca: parole inutili, che non sarebbero servite a spiegare le sue ragioni, né avrebbero risposto alle inevitabili domande con le quali mamma e papà si sarebbero vicendevolmente angustiati.

“Daddy, our baby’s gone.Why would she treat us so thoughtlessly?How could she do this to me?”

She (we never thought of ourselves)

Is leaving (never a thought for ourselves) Home (we struggled hard all our lives to get by)

She’s leaving home, after living alone, for so many years.

 Era stato il pensiero di quel rovello a insinuarsi nella smania feroce dalla quale era sospinta altrove, corrodendo la fulgida bellezza del quadro che andava dipingendo nella sua mente: si era resa conto che il fardello di quel tormento l’avrebbe accompagnata per molto tempo, forse addirittura per sempre.

Gira piano la chiave nella toppa, si richiude la porta alle spalle e scende per le scale senza incontrare nessuno. Si incammina verso la stazione, tra poco lui sarà in piazzale Cadorna ad attendere il suo arrivo, poi raggiungeranno il Forlanini: con i soldi prelevati dalla cassettina dei risparmi di mamma prenderanno un volo per l’Olanda, o forse per la Germania, decideranno lì per lì.

Non poteva davvero reggere il pensiero del loro dolore. Chissà quanti giorni passeranno prima che qualcuno si accorga dei corpi senza vita, adagiati sul letto come per un lungo sonno: in quella casa non va mai nessuno.

She’s leaving home, bye, bye

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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