Silk road: Via della seta, ma anche del ferro e del cemento

Un comprensibile cocktail di euforia, retorica e speranza ha modellato la nascita dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB). La cerimonia del 24 ottobre a Pechino ha assunto la solennità che un accordo tra 21 paesi riserva per una scelta epocale. La sigla è stata apposta – tra tutti – dalla Cina, dai 10 paesi dell’Asean (tra i quali spiccano Indonesia e Singapore), dal blocco del

subcontinente (compresi dunque India, Pakistan e Bangladesh) e da Kazakistan e Uzbekistan, i 2 paesi centro asiatici più importanti. L’iniziativa è stata cinese, l’adesione orizzontale, tra paesi che hanno messo da parte storiche rivalità. Sembra aver prevalso la necessità dello sviluppo.

L’importanza delle infrastrutture a sostegno della crescita economica è vitale, in un mondo globalizzato che riduce il valore delle frontiere e apre le porte a produzione e consumo dovunque siano disponibili. Questa posizione è condivisa da tutti, risulta inattaccabile dai governi e dagli analisti. Si scontra tuttavia con le restrizioni della politica e dell’economia. Chi finanzia i lavori, chi ne trae vantaggio, chi controlla gli scambi? Finora la soluzione a questi interrogativi partiva e finiva da Washington, dopo una sosta più tecnica che politica a Tokyo.

Tuttavia la risposta appare insufficiente.

Se il costo di una ferrovia tra Kunming (nello Yunnan, nel sud della Cina) e Vientiane (la capitale del confinante Laos) è di 6 miliardi di dollari (quasi quanto il Pil nazionale) chi dovrebbe finanziare la costruzione dei binari, essenziali per modernizzare il paese? Fino a qualche anno fa le speranze del Laos sarebbero state rifiutate, oppure sottoposte al duopolio degli indirizzi: la World Bank a Washington e l’Asian Development Bank a Manila. L’ambizione di uscire dal sottosviluppo sarebbe stata soggetta al vaglio delle 2 istituzioni, dove il comando di Stati Uniti ed Europa (per la WB) e di Usa e Giappone (per l’ADB) rimane pressoché totale. Lo sviluppo è dunque subordinato a parametri politici, per i quali ancora prevale il riferimento della Pax Americana del secondo dopoguerra. Esistono però almeno tre contraddizioni nel meccanismo di finanziamento.

Il primo è l’urgenza dello sviluppo. Le nazioni arretrate dell’Asia non possono – e soprattutto non vogliono – più attendere; non cercano elemosine che sgocciolino nelle loro casse. Molti casi di successo hanno dimostrato che la crescita non è un miraggio o una concessione altrui. In secondo luogo la WB e l’ADB sono assediate da richieste crescenti, smisurate rispetto al budget disponibile. La selezione e il rinvio sono prassi quotidiane. Infine – argomento più conosciuto e doloroso – l’impreparazione delle due istituzioni è impressionante per i compiti che deve assolvere. Negli anni si sono trasformate in templi del conservatorismo, afflitti da un’elefantiasi imbarazzante, una notevole lentezza decisionale, un impressionante alto livello delle retribuzioni dei suoi funzionari. Ho lavorato a lungo in queste istituzioni: ne conosco bene i meccanismi e le categorie logiche che portano a determinate conclusioni. Ricordo sempre la saggia massima di Beniamino Andreatta

“Le istituzioni multilaterali dovrebbero avere una scadenza, la loro vita dovrebbe essere in relazione allo scopo per cui sono nate, altrimenti si trasformano in paradisi per la propria burocrazia”

In questa cornice la nascita di una banca alternativa è nell’ordine naturale delle cose. La dotazione della nuova AIIB sarà di 100 miliardi di dollari, in buona parte immessi dalla Cina. Si tratta dunque di fondi molto minori rispetto alle altre banche internazionali, ma sicuramente in grado di determinare speranze e timori. Le prime sono per i paesi asiatici, i secondi per lo status quo nippo-americano. Non a caso Washington ha espresso un parere negativo sulla nuova banca. Ha inoltre esercitato le consuete pressioni diplomatiche che hanno convinto i governi amici di Tokyo, Seul e Canberra di non aderire.

È innegabile che Giappone, Sud Corea e Australia non hanno bisogno di infrastrutture, così come sono di tutta evidenza le loro preoccupazioni per una ricompensa politica per la Cina nella tormentata risistemazione degli equilibri nell’Oceano Pacifico. Pechino ha dimostrato in Africa una capacità – finora controversa ma efficace – di aiutare i governi locali nella costruzione di infrastrutture, ottenendo in cambio gemellaggi politici e materie prime. La Cina è l’unico paese al mondo che riesce a trasferire contemporaneamente macchinari, capitali e forza lavoro. Ora intende farlo in Asia, contando su molti fattori: dalla tecnologia acquisita alla prossimità geografica, dalla dotazione di risorse alla creazione di mercati per le proprie merci. La Cina vanta una popolazione immensa, la più vasta rete al mondo, 4.000 miliardi di dollari nelle sue casseforti. Detiene dunque tutti gli ingredienti per una ricetta di collaborazione, per piantare alberi che poi scrollerà raccogliendone i frutti. La semina, secondo le ultime parole del Presidente Xi Jin Ping, avverrà anche verso l’Europa. Nuovi fondi finanzieranno la Nuova Via della Seta. Attraverso le sue biforcazioni – una terrestre, l’altra marittima – nuove rotte attraverseranno e congiungeranno 60 paesi dell’Eurasia, rinnegando vecchie confini territoriali e culturali.

L’opposizione di Washington, rispetto alla portata titanica di questi progetti, appare timida e incoerente. Non si impediranno i lavori invocando trasparenza nelle decisioni; non si fermeranno i carichi di ferro e cemento chiedendo rispetto per l’ambiente; non si bloccheranno i cantieri ricordando il rispetto dei diritti del lavoro. Sarebbe stato necessario mettere ordine in casa propria e riconoscere che questa volta la Cina – almeno in via di principio – sta avviando un’operazione più volte richiestale. L’Occidente ha sempre auspicato che diventasse un responsible stakeholder della globalizzazione. Se ne lamentava l’egoista nazionalismo, l’esclusiva cura dei propri interessi. Si blandiva l’uso delle sue sconfinate riserve, anche se contemporaneamente si ammoniva sugli enormi attivi commerciali.

La crisi ha tolto la maschera a posizioni retoriche: la Cina – è la richiesta unanime – deve smettere di trarre vantaggio dalla sua posizione dominante nella manifattura e deve occuparsi degli affari mondiali. La sua storia, le sue dimensioni, la sua potenza non possono fermarsi ai confini nazionali. Se il mondo è piatto, deve uscire dal suo isolamento e occuparsi degli affari globali, perché la crisi non trova soluzione se non con una partecipazione comune. Ora Pechino offre le sue risorse per aiutare la crescita, mette a disposizione talenti e denari per altri paesi. Ovviamente lo fa perseguendo i suoi interessi, come d’altronde hanno fatto gli Stati Uniti. Rende disponibili i mezzi per il riscatto dell’intera Asia, cercando di capitalizzare sul versante strategico. Era la stessa filosofia che ispirava la nascita della WB, dell’ADB e di altre banche di sviluppo regionali. Ora però viene smentita, ricorrendo a obiezioni di principio che non celano la preoccupazione politica. Gli Stati Uniti e i suoi alleati dovrebbero invece concedere un’apertura di credito su questa mossa, per una volta multilaterale, della Cina. Sarebbe più opportuno vigilare invece che condannare, collaborare piuttosto che competere. Invece si dà forza a preoccupazioni destinate probabilmente a sbiadire, retaggio di un mondo in via di cambiamento. Ad esso si oppongono l’infinito dopoguerra nel Pacifico e le ben remunerate burocrazie di WB e ADB. La dinamica delle relazioni tra stati è in movimento, più veloce di quanto si pensi. Valgono come sintesi le parole finali dell’editoriale de The Guardian: “This is a case for accommodation, not confrontation”.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

2 Risposte a “Silk road: Via della seta, ma anche del ferro e del cemento”

  1. In the research project[_§_] which I summarize below, the Author attempts to examine the behavior of business cycles in Asia in order to deepen understanding of and expand research on this topic.

    Given the importance of the People’s Republic of China (P.R.C.), Japan, and the United States (U.S.) in the Region economy, he uses these three economies as the “reference Countries” to study the synchronization of the business cycles with other Asian economies of interest.

    In particular, he investigates the potential determinants underlying the synchronization of their business cycles, including trade linkages, financial linkages, and policy similarities.

    From panel the data analysis, he finds empirical evidence of the impacts of trade channels, financial channels, and policy channels in determining the degree of their business cycle synchronization.

    So for Asian economies, how correlated are their business cycles with the two big economies in the region: the R.P.C. and Japan?

    What is the influence of the U.S. on Asian cycles?

    The Figure 1 [see to the page 2 (or 10 /40) in the link _§_ al the end], presents some stylized facts on the macro interdependence between Asian business cycles and those of the P.R.C, Japan and the U.S..

    As we can see, the correlation of business cycles between Asia[*] and the P.R.C. has increased during recent years, but there is a declining trend in cycle correlation between Asia and Japan, and between Asia and the U.S..

    For the P.R.C. and ASEAN-4 economies, there is strong evidence regarding their common dependence on the U.S..

    From the panel regression results, it is estimated that a 1% increase in the correlation of the U.S. and ASEAN-4 business cycles would cause a more than 20% increase in the correlation of the P.R.C. and ASEAN-4 business cycles.

    This is evidence against the hypothesis of Asian “de-coupling” from the U.S. economy [see to the Table 1 at page 13 (or 21/40) in the link _§_ at the end].

    l- – – – –

    l-[*] Asia refers to the New Industrial Economies (NIE-4), four of the ten Members of the Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), and India.

    NIE-4 includes Hong Kong, China; the Republic of Korea; Singapore; and Taipei, China.

    ASEAN-4 includes Indonesia, Malaysia, the Philippines, and Thailand. [*]-l

    _l-§-l_ Y. Dai (Macroeconomist, Asia-Pacific Economic Cooperation, for the Asian Development Bank, in) “Business cycle synchronization in Asia: the role of financial and trade linkages” – ADB Working Paper Series on Regional Economic Integration: No. 139 – October 1, 2014 / WPS146870

    http://www.adb.org/sites/default/files/publication/82795/reiwp-139-business-cycle-synchronization-asia.pdf

    – – – – -l

    Surfer [having (also) as a starting point the second part of the http://www.pianoinclinato.it/la-forza-del-dollaro-moneta-sovrana-e-re-del-copia-e-incolla/#comment-4666 – or you can reverse the link on here, if you prefer; it’s possible to read two topics, so!]

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