Simenon, un altro viaggio nell’abisso di un uomo

Simenon orsacchiotto

Su La Lettura n. 587 dello scorso febbraio, un articolo di Giorgio Montefoschi, descrive l’ultimo romanzo di un grandissimo scrittore del Novecento e lo fa con un’abilità da romanziere che forse l’autore di quel libro avrebbe apprezzato: questo autore è George Simenon, nato a Liegi centovent’anni fa, nel 1903, e morto a Losanna nel 1989.

Come sempre ci capita nel caso di colossi della letteratura (e Simenon lo è senza alcun dubbio), la prima cosa da fare è confessare che di certo qui alle #LettureInclinate non abbiamo la presunzione di voler aggiungere gran che alle migliaia di pagine scritte su di lui, ma solo invitare ad approfondirne la conoscenza e favorire l’incontro con questo autore, conoscerne per larghi tratti l’opera, a capire qualcosa di più di cosa scrive, e di come lo fa.

George Simenon

Per farlo, iniziamo con le parole di un altro scrittore, Andrea Camilleri (1925-2019), di cui si trova in rete una splendida presentazione del romanziere belga: con la sua voce stentorea: con parole precise e grande partecipazione, il creatore di Montalbano, ricostruisce minuziosamente vita ed opere del creatore di Maigret. Camilleri parla della “sublime semplicità” della scrttura di Simenon e lo definisce

“una macchina da scrivere con sembianze umane”

(cosa che peraltro si potrebbe dire anche di lui medesimo)
Perché, come noto, Simenon aveva una pazzesca velocità di scrittura che lo portava a finire un romanzo in pochi giorni; figlio di un contabile e di una casalinga, appena sedicenne, il nostro inizia a scrivere per la Gazzetta di Liegi e, come ci racconta Camilleri, sforna racconti senza requie; a diciott’anni pubblica il suo primo romanzo (Al Ponte degli Archi), nel 1922 si trasferisce a Parigi dopo la morte del padre, mentre nel 1931, con Pietro il Lettone, iniziano le storie del Commissario Maigret, e dopo seguiranno altri 75 romanzi.

Certamente, la notevolissima produzione letteraria del belga sfugge alla catalogazione, anche se in molti ci hanno provato: di certo possiamo distinguere i Maigret dal resto, i cosiddetti “romanzi romanzi” li chiama Camilleri, o i “romans durs”, come si trova in altri contributi. E oggi parliamo di uno di questi ultimi, i libri di vario genere che non riguardano il Commissario Maigret: l’editrice Adelphi infatti ce li sta regalando, quasi centellinandoli, e da poco è uscito L’Orsacchiotto (Adelphi 2023, pag. 147, Euro 18). E’ un libro che ha le classiche caratteristiche di molti romanzi di Simenon: è breve, sintetico, senza fronzoli, è ambientato a Parigi e descrive la borghesia parigina, la sua avidità, l’arrivismo e quanto tutto ciò possa corrompere, distruggere la vita delle persone.

L’Orsacchiotto è un romanzo cupo, incentrato sul professor Chabot, ginecologo di fama, con ambulatorio, clinica privata e cattedra all’Università: una vita frenetica fra lezioni, visite, parti complicati, una dedizione assoluta alla professione che pare aver quasi scavato un solco incolmabile fra lui e la sua vita di uomo, di padre e di marito.

Il narratore ci racconta del personaggio centrale del romanzo e, fin dall’inizio, annotiamo una tensione crescente, come se qualcosa di irreparabile debba succedere (o magari è già successo); c’è un’inquietudine, un riferimento continuo a eventuali, possibili “deposizioni” al doversi presentare un giorno “alla sbarra” come se questa fosse l’ineluttabile sorte di questa storia.

La narrazione ci descrive minuziosamente la vita del luminare, e ricostruisce la sua vita da quando lui e la moglie Christine erano giovani nullatenenti fino alla residenza signorile da dodici stanze nel Quartiere Latino dove vivono oggi, con i tre figli quasi sconosciuti ed una incomunicabilità fra i coniugi orami conclamata, e Chabot che ha una storia ormai pressochè ufficiale con Vivien, l’onnipresente assistente:

“Sarebbe stato un errore sostenere che la sua segretaria aveva preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…”.

E l’orsacchiotto? Beh, l’orsacchiotto, questo tenero oggetto d’affezione, è una giovane infermiera di origini alsaziane che Chabot sorprende mentre riposa, scarsamente vestita, durante il turno di notte: una scena di elevata sensualità, con Simenon che dice e non dice, lascia intendere, non sappiamo bene cosa possa essere successo in poche ore fra i due: ma scopriamo che la giovane viene allontanata dalla clinica e, guarda caso, viene ritrovata morta nella Senna, fra l’altro in stato interessante.

Questi eventi, lo capiamo fin dalle prime pagine, scuotono la vita interiore di Chabot, gli fanno realizzare quanto vuota sia questa sua esistenza in apparenza invece piena ed appagante, quanto siano di facciata i sentimenti per la sua famiglia, e quanto, in realtà, egli si senta insicuro, fragile, quasi perso in questa vita che si è costruito.

Emblematica la visita alla madre che nel tempo, al crescere della dimensione delle case del figlio, aveva sempre più ridotto le sue visite, lei donna semplice e di umili origini, che così a un certo punto apostrofa la nuora:

“Non ho nessuna voglia di farvi vergognare, figlia mia. Se i vostri amici mi vedessero, mi prenderebbero per una domestica. So qual è il mio posto e lo preferisco al vostro”.

Dopo il ritrovamento dell’Orsacchiotto, ossia la sensuale infermiera alsaziana, Chabot perde la sua sicurezza: scopre di essere pedinato, si sente vieppiù insicuro, capisce che qualcosa non va e durante un parto ha un vuoto, un’insicurezza che non gli era mai capitata, sente che deve fare qualcosa:

“Basta, non era più possibile. Non sapeva precisamente che cosa, ma sentiva che non era più possibile”.

E sarà un viaggio durissimo dentro se stesso, a comprendere quanto poco gli resti davvero di tutto quello che ha, di quanto solo possa sentirsi quest’uomo nemmeno cinquantenne ad assistere al compimento terribile di questa vicenda, che pare ineluttabile.

In un bel pezzo apparso nel 2015, il New York Times, dopo averci maliziosamente ricordato della elevata predilezione del nostro per le donne (“i pasti non erano l’unica cosa di cui Simenon godeva tre volte al giorno”), fa un’affermazione molto interessante su questi “romanzi romanzi” dicendo che

“l’intera serie dei Maigret è la sorellastra meno riuscita (anche se più famosa) della più vasta produzione di romanzi “seri”, dove il personaggio centrale, usualmente maschio è invischiato nello stucchevole bozzolo di se stesso…dentro un più vasto, vertiginoso mondo … dove la violenza, se accade o anche solo se minaccia di accadere, arriva come una liberazione molto più veloce di quella che egli potrebbe gestire”.

Ecco: violenza e liberazione, ve ne ricorderete, se arriverete in fondo al viaggio di Chabot nel suo personale abisso.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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