This is Sparta?

Le ipotesi di uscita dall’euro o di ripudio del debito da parte della Grecia per effetto della vittoria di Syriza alle elezioni di gennaio sono quotidianamente dibattute in tutti gli ambienti politici e finanziari, europei e non solo, tenuto conto delle conseguenze che potrebbero determinare e di tutti i relativi interrogativi: può succedere? E’ conveniente per la Grecia? Che danno può comportare all’economia dei paesi europei in termini di contagio e di perdita di capitale in caso di ripudio del debito? Può costituire un precedente, valido o pericoloso?

In realtà, va subito precisato che lo stesso Alexis Tsipras, leader di Syriza, ha più volte ribadito che l’uscita dall’euro non è nelle intenzioni e nel programma del suo partito. La stessa Germania, nonostante qualche strategico tentennamento, ha lasciato intendere che un accordo si potrà raggiungere, sebbene questo accordo non potrà riprodurre integralmente le richieste di Syriza, qualora chiaramente sia veramente tale partito a vincere le elezioni e a formare il nuovo governo.

Quello che sembra davvero chiaro ad Alexis Tsipras è che alla Grecia, a parte gli elettoralistici proclami, non conviene assolutamente né uscire dall’euro né ripudiare il debito.

Occorre, al riguardo, avere riguardo all’economia greca, al costo del suo debito pubblico e, soprattutto, alla natura giuridica dei creditori.

Al 31 dicembre 2014, il debito greco ha raggiunto i 318 miliardi di euro, pari al 175% del PIL, nonostante sia stato oggetto, nel 2010 e nel 2012, di provvedimenti di haircut e riacquisto, per la cancellazione, di bond sul mercato. Numeri stratosferici, che evidenziano quanto, in condizioni normali, il paese avrebbe già dovuto dichiarare un altro, ancora più corposo, default.

Tuttavia, alla medesima data del 31 dicembre, il bilancio pubblico greco evidenzia che nell’anno di riferimento sono stati pagati interessi passivi per 7,6 miliardi di euro, pari al 4,2% del PIL e pari ad un costo del debito del 2,39% (dati del fondo monetario internazionale).

Una spesa per interessi, quindi, addirittura inferiore a quella dell’Italia, che spende, per interessi passivi circa 80 miliardi all’anno, quindi circa il 5% del PIL e con un costo medio del debito del 3,70%.

Peraltro, come ha ricordato Bini Smaghi sul Financial Times, nessun paese, di fatto, rimborsa il debito, ma si limita a rifinanziarlo attraverso emissione di nuovo debito di pari importo. Così accade per l’Italia e così accade per la Grecia (e per tutti gli altri paesi del mondo).

Quindi, in generale, la sostenibilità del debito pubblico è – riprendendo le parole di Bini Smaghi – inversamente proporzionale al suo costo in termini di interessi da corrispondere e direttamente proporzionale alla crescita del prodotto lordo del relativo paese. E’ del tutto chiaro che lo stock di debito può influenzare il suo costo in termini di rendimenti da riconoscere e, quindi, di interessi passivi da pagare, ma l’aspetto determinante ed essenziale è che il paese cresca ad un tasso più elevato dell’incremento percentuale di deficit rispetto al debito esistente, così che – a parità di tassi – la maggiore spesa per interessi sia compensata dal maggior gettito derivante da un più che proporzionale aumento del PIL.

Sotto tale profilo, la situazione della Grecia è assolutamente peculiare. Infatti, dopo l’intervento (nel 2010 e nel 2012) delle istituzioni europee e delle sue agenzie (Commissione UE, BCE, fondo EFSF/ESM) e del fondo monetario internazionale, circa il 90% del debito pubblico greco è nelle mani di istituzioni pubbliche. Di fatto, quindi, la sostenibilità del debito pubblico greco è completamente nelle mani di tali istituzioni.

Queste istituzioni, infatti, hanno accettato, in cambio della stabilità finanziaria dell’eurozona, di garantire una sorta di rinnovo senza limiti di tempo prefissati del debito greco, mediante acquisto dei bond da parte della BCE (nell’ambito di più ampi programmi) e soprattutto mediante credito concesso dal fondo EFSF/ESM con la liquidità rinveniente dall’emissione sui mercati internazionali di obbligazioni garantite dal fondo stesso.

Conseguentemente, il costo del debito pubblico greco non dipende dai mercati internazionali (se non in minima parte), né dalla loro valutazione sulla sostenibilità del debito avuto riguardo alla crescita del PIL, ma unicamente da specifici accordi con le istituzioni europee e, chiaramente, con i suoi paesi membri.

Naturalmente, questa costruzione politico-finanziaria regge solo se il paese non genera costantemente disavanzi primari, cioè non genera ulteriore indebitamento di bilancio (escluso il deficit per interessi), perché altrimenti diverrebbe impossibile per il fondo EFSF/ESM reperire, in leva, finanziamenti a basso costo dagli investitori internazionali.

La sostituzione dei creditori privati con creditori pubblici ha però determinato che ora non sia più possibile per la Grecia ripagare il debito in valuta locale, dal momento che i fondi concessi dal fondo EFSF/ESM sono stati e vengono erogati sotto legislazione inglese, con rimborso in euro e con contenzioso risolvibile da una corte a scelta del fondo stesso, in prima istanza quella del Lussemburgo.

E’ del tutto implausibile, quindi, che la Grecia possa avventurarsi nell’ipotesi di tornare alla dracma, visto che tale ipotesi non consentirebbe di svalutare il debito pregresso. Lo stesso rimborso dei bond detenuti dalla BCE dipende dalla liquidità concessa dal fondo EFSF/ESM, che viene corrisposta sotto condizione e con le limitazioni giuridiche sopra esposte.

Analoghe considerazioni valgono per il ripudio, parziale o totale del debito. Infatti, a parte le considerazioni su specifiche clausole contrattuali che rendono ben poco conveniente il ripudio, si ripropone l’evidenza che per la Grecia la spesa per interessi non dipende tanto dall’ammontare complessivo del debito, ma dalle migliori condizioni che si riescono a concordare con le istituzioni europee.

Fermo, infatti, che la parte capitale non verrà mai più restituita (in quanto sarà sempre rinnovata), il costo derivante dall’accordo Grecia/UE è rappresentato per la Grecia unicamente dalle cedole da corrispondere alla BCE per i bond da essa detenuti (che però la Troika europea ha accettato fossero retrocessi interamente alla Grecia – anziché distribuiti alle banche centrali nazionali – insieme al capital gain conseguito dalla BCE acquistando bond greci sotto la pari) e dagli interessi da corrispondere al fondo EFSF/ESM per i prestiti corrisposti, interessi da ultimo concordati nella ridotta misura di 50 punti base sopra l’euribor, per la complessiva somma, come si è detto, di 7,6 miliardi di euro, assolutamente in linea con paesi con ben miglior rating.

Quindi, che interesse avrebbe la Grecia a ripudiare un debito che tanto di fatto (relativamente alla parte capitale) non deve pagare e che, invece, uscendo dall’euro o dichiarando default dovrebbe invece pagare oltretutto in euro?

Potrebbe sostenersi che uscendo dall’euro e dall’unione europea la Grecia potrebbe ripudiare totalmente il debito e non pagare neppure quei 7,6 miliardi.

In effetti, uno Stato sovrano ha sempre la possibilità di non pagare, non potendo certo i creditori esteri mandare i carri armati o pignorare beni di uno Stato straniero all’interno dei suoi confini. Potrebbero pignorare i beni di quello Stato fuori dai suo confini, ma intanto devono essere beni non coperti da immunità e poi la procedura è decisamente troppo complessa ed incerta, come è accaduto quando un hedge fund statunitense ha cercato di pignorare una nave dello stato argentino ormeggiata in un porto africano.

Tuttavia, da tale prova di forza (ripudiare debito sotto legislazione straniera e trattati) derivano oltre ad un’infinità di problemi finanziari (bank run, crollo del sistema bancario, ecc.) enormi successive difficoltà a tornare sui mercati per raccogliere capitali (a meno di non avere il pareggio di bilancio a vita), perché o il nuovo debito si emette sotto legislazione interna e moneta sovrana (ma allora il rendimento da offrire agli investitori deve essere così alto da compensarli dei relativi rischi) oppure si emette sotto legislazione straniera e/o in diversa valuta, ma allora – oltre ad altri evidenti svantaggi – torna la possibilità per i creditori beffati in precedenza di chiedere il pagamento di quanto dovuto. E così è stato nel caso dell’hedge fund (lo stesso che non era riuscito a pignorare la nave in Africa) che ha ottenuto dal giudice Griesa il pignoramento dei fondi che l’Argentina aveva depositato in una banca di New York per rimborsare nuove obbligazioni, emesse necessariamente sotto legislazione estera perché altrimenti nessuno si sarebbe fidato a sottoscriverle.

Va inoltre detto, che la Grecia versa annualmente all’unione europea 2 miliardi di euro e ne riceve 6,5 sotto forma di aiuti comunitari, soprattutto all’agricoltura, settore che sebbene generi il 3,3 del PIL occupa il 12% dei lavoratori. Pertanto, in caso di rottura/uscita dall’unione europea, il presunto vantaggio di risparmiare 7,6 miliardi di interessi sarebbe già ridotto di 4,5 miliardi, con l’ulteriore rischio di vedere non più competitivo un settore sussidiato, quello dell’agricoltura, che occupa una consistente fetta dei lavoratori greci.

Anche qualora venissero risolti (ma non si vede come) tutti i problemi relativi al ripudio del debito in euro e all’uscita dall’unione europea, rimarrebbe il problema di come finanziare un programma di governo che prevede una maggiore spesa di 12 miliardi con una minore spesa di 3,1 miliardi (pari alla differenza tra i 7,6 miliardi di interessi risparmiati e i 4,5 miliardi non più concessi dall’UE sotto forma di aiuti comunitari).

C’è chi potrebbe pensare che isolazionismo e svalutazione della nuova moneta potrebbero risollevare le sorti dell’economia e che quindi quei 10 miliardi di deficit potrebbero essere colmati con un mix di maggiore entrate fiscali per l’aumento dell’export, ricorso al mercato, monetizzazione del deficit.

Quanto la Grecia dovrebbe affrontare (come sopra evidenziato) in caso di rottura con l’UE rende quasi inutile, in questo contesto, affrontare tale tema. Al riguardo, pare utile e sufficiente, comunque, rinviare al lavoro di Francesco Daveri per lavoce.info, secondo il quale “nei 23 casi di svalutazione dal 2000 in poi l’inflazione ha ridotto entro due anni i guadagni di competitività indotti dal deprezzamento della valuta”. Senza contare, si ripete, che un eventuale ricorso all’emissione di titoli per finanziare il deficit sarebbe caratterizzato o da altissimi rendimenti da riconoscere oppure da alti rendimenti in una valuta e con una legislazione straniera.

In queste condizioni, non occorrerebbero certo molti anni prima di tornare ad avere la medesima spesa per interessi attualmente sostenuta, a meno di non ritardare tale data monetizzando il debito al prezzo di un’inflazione insostenibile e di una costante perdita di competitività in un mercato aperto e globalizzato.

E’ quindi davvero incomprensibile come la Grecia potrebbe utilmente scegliere la via di uscire dall’euro o di ripudiare il debito. Come si è detto, infatti, il roll over, il rifinanziamento, di tale debito è unicamente nella disponibilità delle istituzioni europee. Le istituzioni, in sostanza (e mi scuso per la semplificazione), danno alla Grecia, tramite il fondo EFSF/ESM, i soldi per rimborsare il debito che viene a scadere e contestualmente glielo riconcedono. Lo stock di debito, quindi, è come se per la Grecia non esistesse. Sotto il profilo della parte capitale, non vi è nulla da ripudiare perché nulla vi è da pagare. E’ ben chiaro, invece, che medesimo effetto del ripudio potrebbe avere la riduzione degli interessi da pagare, a prescindere dall’haircut della parte capitale.

Alla Grecia, infatti, rimangono ovviamente da pagare gli interessi passivi, che però, come si è visto, sono bassi proprio per e unicamente per l’accordo con l’UE, e rimangono da implementare quelle riforme richieste dalla Commissione europea sia per rendere competitivo il paese sia per evitare che lo stock di debito venga aumentato a causa di deficit annuali, rendendo insostenibile la struttura finanziaria del programma.

Come si è visto, però, tali riforme hanno bisogno di tempo e soprattutto hanno bisogno di una classe politica adeguata. Sul punto Syriza – oltre alla ridiscussione del debito – ha più volte manifestato la ferma intenzione di sconfiggere la potente oligarchia che domina il paese.

Un punto di incontro con le istituzioni europee potrebbe, quindi, essere quello di ridiscutere i termini dei prestiti già concessi e da concedere (spostando scadenze, riducendo anche retroattivamente gli spread), diminuendo il costo del debito (o quanto meno lasciandolo inalterato, visto che nei prossimi tre anni dovrebbe aumentare a 10,6 miliardi per effetto dei precedenti accordi) in cambio di un più realistico programma di governo che, al di là degli slanci ideologici ed utopici, da un lato possa ridurre il disagio di molti ma dall’altro consenta anche, riorganizzando la spesa pubblica e sbloccando settori ingessati da rendite politiche e di posizione, di modernizzare il paese rendendone più trasparante la governance.

Che tale sia l’intenzione delle istituzione europee e, soprattutto, della Germania si ricava anche indirettamente dalle dichiarazioni di membri della BCE che mai hanno condizionato il quantitative easing che a breve sarà lanciato all’esito delle elezioni greche. E davvero sarebbe bizzarro che la BCE si mettesse ad incrementare la quantità di bond greci in portafoglio nonostante il rischio di vedersene annullare il valore. Ben più sensata appare l’interpretazione che includere i bond greci negli acquisti palesa la volontà di ridurre ulteriormente il costo del debito greco nella certezza dell’accordo che sarà concluso.

Quanto sopra non è in realtà solo una scommessa ma la necessità di dare alle istituzioni europee il tempo di approntare i necessari strumenti per rendere l’eurozona resistente a shock di varia natura, tra i quali anche la possibilità che un paese membro esca dall’euro o dichiari il default, essendo difficile che l’”esperimento” greco possa durare a vita o essere ripetuto per un paese di grosse dimensioni, come ad esempio l’Italia.

L’interposizione del fondo EFSF/ESM funziona, infatti, solo se il fondo è enormemente capitalizzato (ma allora i paesi membri devono prima immettere i relativi capitali, spesso ad ulteriore debito) oppure se il debito da proteggere non è elevato.

In sostanza, infatti i prestiti concessi alla Grecia sono stati erogati con la liquidità degli investitori che hanno sottoscritto le obbligazioni emesse. Il costo dei crediti concessi dal fondo è, dunque, inversamente proporzionale alla leva finanziaria utilizzata dal fondo stesso. Più – in assenza di adeguata capitalizzazione – la leva si amplia, più aumenta il costo del credito richiesto, senza contare l’aumento del rischio per i paesi membri e la progressiva diminuzione dell’interesse da parte dei paesi virtuosi, soggetti ad un aumento del rischio non compensato da un adeguato ritorno.

Il fondo in argomento, infatti, ha un capitale versato di soli 80 miliardi, a fronte di un capitale sociale di 700 miliardi. E’ ben chiaro che qualora, per esempio, la Grecia ripudiasse integralmente il debito, il capitale versato non sarebbe sufficiente a rimborsare gli obbligazionisti e i paesi membri verrebbero subito chiamati a versare quando dovuto.

Come tutti gli strumenti in leva, quindi, dà ottimi ritorni quando le cose vanno bene e grosse perdite quando le cose vanno male.

Sinora, nel complesso, il costo degli interventi a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo e, più in generale, quello per la stabilizzazione dell’eurozona, è stato abbastanza contenuto.

Infatti, come già accennato, la parte di debito comprata della BCE è stata acquistata mediante emissione di moneta e i crediti concessi dal fondo EFSF/ESM sono stati erogati emettendo obbligazioni garantite dal capitale del fondo stesso.

Per i contribuenti europei, quindi, ciò ha comportato unicamente un aumento della massa monetaria (che, vista l’attuale fase, non ha in alcun modo avuto effetti inflattivi, che anzi sarebbero stati auspicati) e il mancato guadagno corrispondente alla differenza tra l’utile che si sarebbe ottenuto investendo i soldi EFSF/ESM sul libero mercato e quello ottenuto prestando i soldi alla Grecia.

Trattasi, quindi, più di un mancato guadagno che di una perdita in conto capitale. La stessa Italia, come ho già detto in altro intervento, per la partecipazione al capitale del fondo ESM ha materialmente versato, previa emissione di debito, una somma di circa 14 miliardi per la quale sostiene un costo di circa 1 miliardo all’anno ma per effetto della quale ha un cospicuo risparmio (al momento, circa 7/8 miliardi all’anno) in termini di minori interessi passivi da pagare per effetto della riduzione dello spread.

Risulta chiaro che tutta questa costruzione politico-finanziaria abbia comunque bisogno di essere ulteriormente sviluppata (e in questo senso sembrano poter essere lette le invocazioni di Draghi sulla necessità, in assenza di un’unione politico-fiscale, di una maggiore accettazione da parte dei paesi membri di suddivisione del rischio). Altrettanto chiaro pare, però, che relativamente alla Grecia tale costruzione, seppur limitata, sia ancora sufficiente a bilanciare e compensare gli interessi sia dell’unione europea sia della Grecia e, quindi, non vi sia alcun interesse da parte delle due parti ad arrivare ad una rottura.

Nell’eventualità che così non fosse, che prevalesse la voglia di provare il brivido dell’incertezza economico-finanziaria, potremmo verificare se tante teorie no-euro risponderanno adeguatamente alla realtà dei fatti.

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Pubblicato da roundmidnight

Occupa da anni, in modo semiserio, un posto in un consiglio di amministrazione all'interno di un "gruppo" internazionale.

4 Risposte a “This is Sparta?”

  1. Al riguardo, pare utile e sufficiente, comunque, rinviare al lavoro di Francesco Daveri per lavoce.info, secondo il quale “nei 23 casi di svalutazione dal 2000 in poi l’inflazione ha ridotto entro due anni i guadagni di competitività indotti dal deprezzamento della valuta”.

    Visto che a me risulterebbero cose diverse (anzi, lo stesso Bagnai, su Goofynomics di oggi, fa a pezzi questa teoria, oltre che prenderne a parolacce i sostenitori), e che il link da voi proposto a sostegno di questa tesi non funziona, non è che lo riproponete, così posso leggere Daveri, come sempre con piacere?

    Francamente, non credo che abbia sostenuto questa tesi … a meno che – come si dice? – il diavolo sta nei particolari. Me li fa leggere?

    Questo articolo propone una bella tesi. Visto che sto friggendo in una padella, non devo uscirne, perché fuori potrebbe essere peggio. Peggio che friggere in una padella? Dio mio, e cosa c’è?

    Tsipras, poi, è sempre stato la foglia di fico di qualcun altro. Guardi che nessuno si meraviglia che non voglia uscire dall’euro. E’ stato messo lì apposta. Tranquillo, finirà a tarallucci e vino. L’euro cesserà di esistere, credo anche presto, ma non sarà per iniziativa dei greci.

    Visto che dal suo nickname deduco che ama scrivere verso mezzanotte, coraggio! Vada a farsi un bell’ammazzacaffé, e rifletta un po’ sul fatto che nessuna Unione Monetaria (o vincolo monetario con una moneta più forte), nel mondo ed in tutti i tempi, ha mai avuto successo, tant’è vero che nessuna è durata a lungo (a meno che non sia diventata uno Stato, con i conseguenti trasferimenti fiscali etc. etc.).

    Ed aggiungo che i paesi coinvolti in negativo, dopo la cessazione dell’Unione (o vincolo) Monetaria, hanno tutti avuto un forte rilancio economico. E’ storia – sa? – e non un’opinione.

    Mi stia bene, beva una bella grappa anche alla mia salute. Ocnarf (mi state diventando simpatici)

  2. Lo studio proposto da Deveri, per la verità, mette in relazione paesi estremamente diversi fra loro, con storie ed economie che non possono essere comparate (i dettagli del diavolo).

    Basta vedere come cambiano i risultati se si comprende o meno l’Argentina e la Turchia. Ci sono paesi che hanno importazioni assolutamente anelastiche, che quindi rischiano assolutamente delle spirali svalutazione/inflazione (insomma, ci sono prodotti tecnologici che l’Argentina DEVE importare, a prescindere dal prezzo).

    Basta andare, però, su un paese dalla struttura produttiva simile all’Italia (almeno all’Italia pre-euro), ovvero sulla Corea del Sud, per vedere dei dati alquanto diversi: svalutazione 2008 + 37,3 %, differenziale inflazionistico (entrambi i dati sul dollaro) dopo due anni (t + 1) + 5,3.

    Questo significa che dopo due anni resisteva una migliore competitività pari al 32,3 %. Credo che questa migliorata competitività abbia resistito ancora negli anni a seguire (anche se, dopo 4 – 5 anni, la storia è già un’altra, in economia è un periodo lunghissimo), stante i risultati impressionantemente positivi dell’economia Sud-Coreana.

    Nei primissimi anni ‘80, in un cantiere edile in Medio Oriente, avevo i sudcoreani come manodopera a bassa costo. Ora, a parità di potere d’acquisto, credo che il loro reddito stia doppiando quello degli italiani. Non mi pare che questo paese abbia vincoli monetari, o faccia parte di Unità Monetarie di sorta.

    Analoga la situazione australiana (anche se la sua economia è imparagonabile alla nostra). In ogni caso, dopo due anni persiste, a seconda della media considerata, il 18,1 % ed il 12,0 % di migliore competitività (differenza svalutazione/inflazione) e quindi, presumibilmente, anche a 4 – 5 anni persisteva tale miglioramento. Non ho i dati. Potrei però cercarli, ma non ne vale la pena.

    Non ne vale la pena perché l’articolista di mezzanotte pretende di utilizzare questa statistica a fini interni. Ovvero per dimostrare che in Italia una svalutazione (non competitiva, ma che ristabilisca il rapporto cambio/competitività nei singoli paesi) sarebbe presto riassorbita dall’inflazione.

    Non è così, basta vedere il caso Sud-Coreano (il più simile al nostro ed anzi, l’unico significativo ai nostri fini), ma anche la storia della competitività in Italia dopo la svalutazione del 1992. Il vantaggio competitivo ha cominciato a scendere nel 1997, quando nei fatti fu fissata la parità lira/euro, rimasta pressoché intatta fino all’introduzione ufficiale dell’euro.

    Lo stesso Daveri, verso la fine, scrive: “La connessione tra svalutazione e inflazione è tuttavia variabile tra paesi. Ci sono fattori che amplificano e fattori che attenuano l’efficacia di una svalutazione nel favorire la competitività”.

    L’articolo di Daveri, quindi, è assolutamente strumentale e per qualche verso di incredibile superficialità, considerando l’importanza ed il “peso” di alcuni suoi precedenti lavori … quelli che, ad esempio, hanno dimostrato che la pressione deflazionistica sui salari (stipendi e flessibilità) ha portato ad una diminuzione degli investimenti e quindi della produttività (perché acquistare nuovi macchinari, quando posso basare la mia produttività su minore costo del lavoro?).

    Ho già abusato troppo del sito, per proporre un’intemerata sulla storia proposta da Daveri in coda, sulla storia italiana post 1992. Diciamo che non sono assolutissimamente d’accordo.

    Ringrazio il Dott. Boda (anzi, Adob, così la faccio scendere al mio livello. Invertire Andrea è criminogeno) per lo spazio che mi concede. Se “rompo”, comunque, smetto immediatamente. Ma un po’ di polemica credo che aiuti tutti ad essere più precisi. Ocnarf

  3. Un piacere leggervi, risposte comprese.
    Da tutto questo popo di roba io vedo il punto focale in questa frase …

    Come si è visto, però, tali riforme hanno bisogno di tempo e soprattutto hanno bisogno di una classe politica adeguata. Sul punto Syriza – oltre alla ridiscussione del debito – ha più volte manifestato la ferma intenzione di sconfiggere la potente oligarchia che domina il paese.

    Ecco, da noi “La potente oligarchia” si chiama Mafia. Strangolata quella saremmo la Svizzera. Occorre prosciugare il fiume , ben sapendo che moriranno anche molti pesci piccoli

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