Summers resuscita la mummia (part 2)

Come si è visto nel precedente articolo, l’ipotesi di stagnazione secolare è come un test di Rorchach, ognuno ci vede quello che vuole (copyright Eichengreen).
Desidero ora mostrarvi questo grafico, frutto del lavoro di J.D’Amato per la BIS, che mostra il trend di lungo periodo del tasso naturale reale (linea continua) come da lui stimato:

Stag2-1

non si nota alcun declino visibile a differenza delle stime di Summers, eppure il tasso reale naturale di lungo periodo è la media (tra l’altro potenzialmente modificabile) attorno a cui si muove il tasso reale naturale di breve periodo. Questo perchè il tasso naturale è un tasso ipotetico, ex ante, la cui stima è soggetta a sua volta alla stima di quale potrebbe essere il PIL potenziale di un paese. Ma come sappiamo dalla ricerca ex post di Orphanides tali stime possono sbagliarsi, e di brutto (vds nota 1).
Anche Nick Rowe assume una posizione simile alla mia: la stima del reddito reale potenziale si modificano di continuo, perciò anche il tasso naturale si modificherebbe di continuo, divenendo così poco utile ai fini pratici, più di quanto lo sia ai fini didattici e concettuali.

In ultima, vale la pena notare che se rimanessimo aderenti allo schema concettuale dell’economia classica, basterebbero un paio di righe per stroncare Summers. Se il tasso naturale fosse negativo allora anche il tasso di preferenza intertemporale dovrebbe esserlo, violando un principio logico quanto ovvio del comportamento umano: se un uomo è affamato, va a casa e si cucina la pasta per mangiarla ora, non per metterla in frigo e mangiarla fredda dopodomani. Ma forse Summers vuole dirci che i soggetti economici sono tutti già belli satolli e in realtà desiderano più o meno consapevolmente, volare verso una decrescita felice.
Qualcuno gli fornisca il cellulare di Grillo, grazie, altro che mummia.

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Io personalmente sono scettico circa parecchi dei punti sollevati da Summers, ma è indubbio che la crescita sia stagnante e accompagnata da persistente disoccupazione e riduzione della forza lavoro causa abbandono. La mia opinione in merito è così sintetizzabile:
1) in molti paesi avanzati vi sono ancora larghi strati di processi produttivi caratterizzati da lavorazioni low-tech e a basso valore aggiunto, in cui la concorrenza dei paesi Far East è stata deleteria per i bilanci aziendali e le prospettive di ripresa. Il problema allora non è quello dell’aumentato risparmio globale, bensì dei minori costi alla produzione, dei salari, della normativa sindacale, del lavoro, della tutela di sicurezza, ambiente, diritti di proprietà intellettuale e prodotti e la guerra valutaria condotta negli ultimi anni, nonchè la difficoltà e complessità di adattare e convertire le economie avanzate a processi high tech e upstream, problema che conduce con sè quello di una adeguata ricerca, innovazione e istruzione.
Lo riconosce anche Gleaser in un passaggio isolato del suo contributo (VoxEu pag.88): ”

Over  time,  less skilled  American  workers  have  been hit by a series of adverse labour demand shocks, like workers in many other wealthy countries”

Anche Smets evidenzia, per quanto riguarda l’Europa, che il più recente lavoro a livello microeconomico del Eurosystem Competitiveness Network riporta come ci siano solo poche aziende ad alta produttività contro tante a bassa.
2) concordo in pieno con la posizione di Crafts per cui l’austerity, sposato alla scarsa lungimiranza politica, colpisce soprattutto la spesa pubblica per istruzione e investimenti, riducendo la produttività attuale e futura.
3) non è stato sviluppato per nulla il discorso sulla segmentazione dei mercati. Tyler Cowen è stato l’unico ad evidenziare l’irragionevolezza di parlare de IL tasso reale di interesse, quando invece si fanno i conti con una intera struttura di tassi, indipendentemente dalla breve o lunga scadenza, che variano per sottostante, rischiosità, liquidità e profondità dei mercati, rischio emittente, garanzie, caratteristiche normativo/legali eccetera (J.Tobin docet). I tassi reali negativi che si sono manifestati sulle borse finanziarie riguardano esclusivamente alcuni titoli governativi (quindi al limite ne beneficiano i rispettivi governi), ma non altri tassi quali quelli bancari e dei mercati dei capitali, per cui è tutto da dimostrare che il tasso reale naturale sia necessariamente sotto zero.
La stretta regolamentazione finanziaria (per esempio MIFID) che impone agli intermediari investimenti in linea con le conoscenze dei risparmiatori potrebbe aver accentuato tale segmentazione: se tali conoscenze finanziarie sono modeste (esperienza lavorativa mia, sono modestissime), allora la maggior parte del risparmio si riversa sui titoli governativi risk free esercitando una pressione al ribasso di QUESTI tassi, ignorando altre opzioni (corporate bonds, emergenti, eccetera) magari collegati a iniziative innovative e profittevoli, ma con elementi giudicati eccessivi rispetto al profilo di rischio del sottoscrittore. Questi mercati diventano meno liquidi e i rispettivi tassi si potrebbero alzare superando il “loro” tasso reale naturale (di equilibrio).
4) ritengo da tempo che l’invecchiamento della popolazione, le sbagliate politiche immigratorie e le crescenti ineguaglianze di reddito nonchè le imperfezioni nella microstruttura dei mercati giochino un ruolo in accelerazione sulle dinamiche delle crisi, ma come ho già avuto modo di dire per risolvere i due ultimi problemi in particolare bisognerebbe modificare la natura stessa del capitalismo.
La mia è una posizione che privilegia quasi esclusivamente il lato degli shocks dell’offerta, e farebbe felice i teorici della Real Business Cycle Theory. D’altronde, a parte la risposta non-keynesiana alla crisi (mancate politiche fiscali anticicliche, anzi austerity), non mi pare di vedere altri fattori scatenanti la crisi dal lato della domanda, ma appunto solo una concausa.

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(Nota 1) Abbiamo già visto che per i keynesiani (ortodossi) non ci fosse pericolo di creare spinte inflazionistiche finchè l’economia fosse rimasta “sotto il suo potenziale”, e grandi sforzi vennero fatti per stimare statisticamente tale livello potenziale. Un recente studio di A.Orphanides invece dimostra controfattualmente che tali valori erano generalmente sovrastimati per cui attendendosi di dover colmare un gap più grande del reale, gli stimoli pubblici alla domanda aggregata non si risolvevano in crescita reale bensì monetaria e quindi in maggiore inflazione.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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