Telecom: l’illusoria liberazione

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Aveva promesso di riportare il titolo a 6 euro
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L’avventurosa affermazione era arrivata da Franco Bernabè il 3 dicembre del 2007, il giorno in cui si era insediato, per la seconda volta, alla guida di Telecom Italia (la prima era stata alla vigilia dell’Opa dei capitani coraggiosi, la premiata ditta Gnutti, Colaninno & co., che con una dote da circa 60 miliardi€ messa a disposizione da Jp Morgan erano partiti all’assalto del gruppo telefonico, rendendo l’esperienza di Bernabè come amministratore delegato al contempo breve e concitata).

6 euro era il valore del titolo Telecom nel 1999, quando Bernabè si era dimesso proprio dopo la sconfitta incassata sulla partita dell’Opa. Al suo ritorno, dopo il passaggio del pacchetto di controllo dalla Olimpia di Marco Tronchetti Provera a Telco, le quotazioni viaggiavano intorno a 2 euro. Ieri, alle seconde dimissioni del top manager di Vipiteno, le azioni del gruppo hanno chiuso in Borsa a 0,64 euro (dopo un piccolo rally, tra l’altro).

Tra la prima e la seconda vita di Bernabè in Telecom, il gruppo aveva nel frattempo polverizzato la propria dimensione internazionale, complice una massiccia campagna di dismissioni avviata da Colaninno e proseguita da Tronchetti per ridurre il peso monstre del debito affastellato con le acquisizioni fatte a leva.

La nomina di Bernabè – la seconda, per sgomberare il campo da dubbi – era stata preceduta da negoziazioni rese non facilissime da alcune resistenze, fuori e dentro Telco, in uno gioco di veti incrociati che contrapponeva in particolare Intesa Sanpaolo, che sosteneva la canidatura, e Mediobanca. Alla fine però si era trovata la quadratura del cerchio, e il manager di Vipiteno era approdato nuovamente ai vertici del gruppo telefonico assieme a Gabriele Galateri di Genola, sul quale era stato decisamente più facile far convergere i consensi, alla presidenza.
Per l’ex banchiere di Rothschild il ritorno aveva un significato molto importante: con l’Opa dei capitani coraggiosi, ricorda, aveva avuto modo di fare davvero l’amministratore delegato solo per poche settimane, perché il resto del tempo lo aveva passato a battersi per opporsi alla scalata. E lo ha ribadito anche ieri, nella lettera di commiato inviata ai dipendenti Telecom, parlando di un legame con l’azienda “che è nato con l’Opa Olivetti e mi ha spinto a rientrare nel 2007”.

In effetti non si fa fatica a capire quanto il rientro fosse un’occasione di rivincita, abbastanza entusiasmante da consentire di sorvolare sulla spinosità della situazione: sul fatto che Telecom fosse un carrozzone indebitatissimo (anche con la cura dimagrante delle dismissioni il debito viaggiava allegramente sui 40 miliardi di euro), con una scarsa esposizione internazionale e un business domestico penalizzato da margini in declino; sugli sgradevoli strascichi giudiziari della precedente gestione (dossier illegali in primis); sulla fantasiosa composizione del nocciolo di controllo. Per uno che aveva ricoperto la poltrona di vertice in Eni (ed era passato indenne attraverso Mani Pulite), evidentemente il compito doveva essere apparso un gioco da ragazzi. Lo aveva detto chiaramente: “Non posso permettermi di non portare a termine un progetto in cui credo moltissimo».

Eppure, nonostante le promesse e le affermazioni ottimistiche, la grande rivincita è rimasta un desiderio sbiadito sullo sfondo. Certo, nel frattempo c’è stato il crac di Lehman Brothers che con le sue scosse telluriche ha squassato i fragili equilibri del sistema finanziario. E la fiammata dei rendimenti dei titoli di stato italiani, pessima condizione per gruppi indebitati ed esposti a livello domestico. Ma a guardare bene è sulla gestione che la partita è stata giocata con troppa cautela.
Bernabè si era portato dietro alcuni fedelissimi (alcuni nel frattempo non sono più tali), ne ha tenuti altri cresciuti sotto Tronchetti (Luca Luciani e Marco Patuano, oggi CEO, in primis). Per il resto non ha portato grandi rivoluzioni all’interno del gruppo, in parte perché frenato dagli azionisti. Non è mai stato varato un aumento di capitale e si è preferito non calcare la mano su acune scelte difficili (per esempio le azioni di responsabilità nei confronti del precedente management) che avrebbero dato anche all’esterno il segnale di una svolta. Per carità, qualche risultato è stato raggiunto: l’impegno sulla riduzione del debito è stato costante e le attività brasiliane, l’unico driver di crescita di Telecom Italia, hanno aumentato il proprio peso. Ma cambi di direzione non se ne sono visti. Il carrozzone si è rivelato decisamente difficile da riformare.

Tutto questo non si è riverberato soltanto sulle quotazioni del titolo Telecom Italia, ma ha avuto anche riflessi all’interno. A un certo punto si era coagulato un certo scontento degli azionisti di controllo su Bernabè: nel 2011, alla vigilia del rinnovo del board, si vociferava che i malumori in azionariato avrebbero potuto portare un cambio di amministratore delegato. Ma in zona Cesarini il top manager aveva saputo riconquistare il suo potere negoziale e, in beffa alle previsioni di chi lo davano per spacciato, si era fatto nominare presidente (ma con deleghe ampie, in pratica una figura analoga al pdg di stampo francese), con Marco Patuano nominato ad (ma fino a ieri non chief executive officer, ceo, bensì chief operating officer, coo, sotto la guida proprio di Bernabè).

Alla terza caduta in disgrazia però non è stato più tempo di giochi di prestigio: i problemi non sono più rinviabili, se mai lo fossero stati. Bernabè, con un certo ritardo, ha cercato di fare la voce grossa reclamando un aumento di capitale, e su questa partita ha nuovamente perso. E la sua parabola nel gruppo telefonico – con una prima sconfitta di fronte a un’Opa sostenuta dalla politica, una seconda sventata in zona Cesarini nel 2011 ma forse soltanto rinviata, fino a ieri, giorno della sua capitolazione – altro non è che il riflesso della parabola di Telecom Italia.

Un gruppo irrecuperabile, nonostante le buone intenzioni (anche perché queste buone intenzioni non sono sorrette da azioni coerenti). Il destino, già scritto da anni, di una Telecom che finisce nelle mani di Telefonica (a prezzi di sconto e senza passare dal mercato) non è nemmeno l’aspetto più importante del problema. Ciò che preoccupa è lo spettro di un ulteriore downgrade del merito di credito, il fatto che il gruppo ha una debole esposizione internazionale (sono rimasti solo Tim Brasil e Telecom Argentina), nonché una bassa qualità della linea fissa in virtù dei miserrimi investimenti fatti finora. Anche se il passaggio del controllo da un soggetto finanziario a un player industriale in teoria è un fattore positivo, Telefonica è pesantemente indebitata, quindi non può fare in Telecom gli investimenti necessari per il rilancio.  Si rischia di perpetuare il circolo vizioso, fino all’esaurimento del valore dell’azienda.

Ma non è mica colpa di Telefonica. La distruzione è stata avviata anni fa, quando la leva veniva utilizzata in maniera disinvolta e l’essere indebitati, ripetevano gli analisti, era un fattore “di flessibilità finanziaria”. Quel debito ha portato a pesanti dismissioni e zero investimenti: mentre gli altri gruppi crescevano all’estero, Telecom diventava più domestica. E nel frattempo restava ostaggio di passaggi di proprietà fuori e danno del mercato, con le catene di controllo che consentivano agli azionisti di controllo di dettare legge sul management con investimenti ridotti. Senza preoccuparsi troppo dell’azienda che va così così, del titolo che sprofonda, perché i capitali spesi non sono poi così tanti da indurre a unatteggiamento responsabile.

E perché tanto poi alla fine comprano gli spagnoli.

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Pubblicato da Gaia Giorgio Fedi

Ero indecisa se fare la rockstar o la giornalista. Faccio la giornalista, e non credo di divertirmi meno

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