Tempesta di ferragosto

Non guardare l’orologio né il telefono né qualsiasi  diavoleria variamente connessa. Osservare il colore del cielo ed il mutare della luce e del paesaggio, ascoltare i segnali del corpo, il borbottio imperioso dello stomaco per decidere quando mangiare e la stanchezza nei muscoli delle gambe per decidere quando fermarsi. E lo sguardo sempre aperto, anche quando non guarda e non vede ma è un varco spalancato attraverso cui fluiscono e si mescolano, in un’anarchia assoluta e liberatoria, ricordi e pensieri, sogni e desideri.

La remissione consapevole al succedere casuale degli eventi, ovvero la catarsi delle vacanze: era il risvolto che il Vice Commissario di fresca nomina Alberto Patané più apprezzava di quella settimana di ferragosto lontano da Milano, da Quarto Oggiaro e da quel commissariato di periferia in perenne, impotente e rassegnato stato di allerta.

Eppure, quando lo scorso inverno il Vice Commissario Gioia era tornato da una vacanza in Costarica ed aveva riconsegnato pistola e distintivo per dedicarsi alla ristorazione su una spiaggia di Tamarindo, insieme alla bella indigena della quale si era perdutamente innamorato, non aveva avuto esitazioni dinanzi al discorso del Commissario Saronni:

“Parliamoci chiaro, Patané: posso fare qualche pressione per la sua nomina a Vice Commissario e la farò volentieri, a patto che lei mi garantisca che non chiederà il trasferimento. So che è un uomo d’onore, mi fiderò di ciò che mi risponderà”,

Andava molto d’accordo con Saronni, un uomo onesto e intelligente con il quale nel tempo si era instaurato un rapporto reciproco di rispetto e di stima. Aveva scelto di entrare in polizia per un innato senso di giustizia che lo aveva sempre indotto a prendere le difese dei più deboli, e in quella periferia milanese ce n’erano parecchi da difendere. Molte volte anche da se stessi, perché i deboli non sono sempre innocenti.

Capitava talvolta che il suo senso della giustizia deviasse dai percorsi sanciti dalla legge e rispondesse solo e semplicemente alla sua coscienza, e il fardello della responsabilità di certe scelte fuori dagli schemi diveniva via via sempre più pesante. Quindi, come tutti ma certo più di molti, ogni tanto aveva bisogno di allontanarsi dalla vita che aveva scelto.

In quei giorni a Giarre, paese di origine al quale erano tornati i genitori dopo un esilio milanese durato più di trent’anni, si celebrava il matrimonio di una cugina e lui, pur di sfuggire una circostanza che si prospettava simile ad un girone dell’inferno dantesco si era inventato degli inesistenti impegni di lavoro e aveva optato per la Valgardena, dove si era trasferito molti anni prima un ex compagno di liceo  di origini trentine che ora era Maresciallo dei Carabinieri, con il quale era sempre rimasto in contatto.

Gli era venuta voglia di rivedere Duilio Visentin, che ai tempi del Volta quando studiava divorava rotoli interi di scotch masticandolo pezzetto per pezzetto con meticolosa ostinazione: diceva che lo aiutava a concentrarsi, ma tutti lo prendevano in giro per questa sua mania, e sua madre si disperava perché temeva che si rovinasse lo stomaco.

Rivedersi a quarantaquattro anni dopo vent’anni di rapporti telefonici, con la mente che seguita a ricollegare la voce alla fisionomia di cui conserva il ricordo, comporta delle incognite e la sera in cui i due amici si incontrarono nel ristorante di Santa Cristina nel quale si erano dati appuntamento si osservarono in silenzio per un lungo istante.

Alberto non era mutato in modo vistoso, perché il fisico imponente era sempre asciutto e leggermente disarticolato e i capelli ricci avevano solo qualche filo bianco qua e là, ma Duilio notò che la malinconia inquieta che aveva sempre impedito agli obliqui occhi verdi dell’amico di associarsi al sorriso del bel volto dai tratti armoniosi era divenuta predominante, e concluse tra sé che invecchiare da soli non è bello, come peraltro gli ripeteva spesso nel corso di certe lunghe telefonate. Lui invece era felicemente accasato e aveva smesso da anni di masticare lo scotch ma evidentemente si era messo a mangiare altro, perché i suoi contorni si erano notevolmente arrotondati, mentre la sua capigliatura bionda batteva in ritirata a partire dalle tempie. Si abbracciarono a lungo e trascorsero la serata godendo della reciproca vicinanza, senza dover colmare la distanza con le parole, come accadeva al telefono.

Mappa alla mano, Duilio gli indicò diverse passeggiate che lo avrebbero condotto in luoghi particolarmente suggestivi, rammaricandosi di non essere in ferie e di non poterlo accompagnare. Si lasciarono con l’intesa di rivedersi la sera dopo per cena a casa sua, dove avrebbe finalmente incontrato la moglie e la figlia, delle quali aveva tanto sentito narrare.

La mattina dopo il sole splendeva  nel blu del cielo terso mentre un ultimo brandello di nube si allontanava sfilacciandosi senza rammarico dalla cima del Sassolungo, che domina il paese. Il Vice Commissario vinse la sua naturale diffidenza per gli impianti di risalita e si accomodò sulla cabinovia per il Col Raiser. Di fronte a lui si sedettero due giovani tedeschi che salutarono educatamente e mentre osservava la valle sottostante dalle ampie finestre della cabina Alberto cercò di non pensare a cosa sarebbe successo se si fosse tranciato uno dei cavi che trasportavano quel potenziale feretro volante.

Giunto al Col Raiser consultò la carta dove la sera prima Duilio aveva evidenziato un percorso che sarebbe culminato in un punto panoramico spettacolare: una camminata impegnativa ma sapeva di poter contare su una buona resistenza grazie alle corse mattutine da via Padova, dove abitava, fin lungo l’argine del Naviglio Martesana. Una brezza fresca, leggera ma costante, attutiva la ferocia del sole e rendeva il passo lieve e regolare. Passò davanti a un paio di rifugi, vide un laghetto alpino le cui acque riflettevano il verde cupo della foresta, fu abbagliato dal biancore baluginante della pietra dolomia di quelle vette aguzze come le guglie del Duomo.

Arrivò al punto panoramico leggermente ansante dopo avere camminato a testa bassa e con una certa fatica nell’ultimo tratto, e collocandosi al centro della mappa circolare in lamiera che indica le vette principali si guardò attorno. Ebbe un momento di smarrimento, come spesso gli succedeva di fronte alla bellezza: il Sassolungo, il Cinquedita, il Sassopiatto, l’imponente massiccio del Sella e le cime delle Odles vegliavano sulle case di bambole di Ortisei e sul verdeggiante altopiano dell’Alpe di Siusi.

Era la una passata e nelle immediate vicinanze non c’era nessuno: contemplando quelle montagne magnifiche e terribili, nelle quali anche in quella luce abbacinante e sullo sfondo vivido del cielo sereno coglieva una nota cupa ed inquietante, pensò che era come osservare una pantera che dorme, solo che qui non era come al Giardino Zoologico dei Giardini Pubblici della sua infanzia milanese, qui la belva era libera e indomita.

Si sedette sull’erba dura e pungente, prese dallo zaino il panino al formaggio e la borraccia dell’acqua e mangiando gli venne da pensare che forse davvero ognuno ha delle radici solide, anche ritenendo di essere un animo nomade. Lui non amava Milano, dove era nato e alla quale si sentiva legato ma non simile e allora forse era un uomo di mare, considerata l’origine siciliana della sua famiglia. E così si spiegavano l’inguaribile irrequietezza ed il sotterraneo, costante senso di inadeguatezza: era sradicato.

Si sdraiò poggiando la testa sullo zaino, chiuse gli occhi e ricordò le estati della sua infanzia e della sua adolescenza dai nonni in Sicilia: la sensazione della sabbia calda sotto i piedi, il frinire assordante delle cicale, il profumo dei fichi d’india e la linea dell’orizzonte che si stemperava nell’azzurro del mare e con esso si confondeva, e mentre l’onda lambiva dolcemente le sue gambe e ritirandosi scavava minuscoli canali sempre più fondi tra le dita dei piedi, si sentiva in pace.

Continuò a divagare anche mentre dormiva, con il vento che scompigliava con una carezza rude i capelli ricci, e probabilmente anche i pensieri.

Riaffiorando a poco a poco dal dormiveglia si accorse che l’aria si era raffreddata e percepì una luce differente ancora prima di aprire gli occhi. Molte nubi spesse e scure si rincorrevano sospinte dal vento e il sole era scomparso, e la cosa violacea e densa che nascondeva la cima del Sassolungo e che si allargava dinanzi ai suoi occhi pareva preannunciare una tempesta.

Balzò in piedi, si accorse che erano quasi le sei, allora si maledisse perché si era addormentato e perché non aveva consultato il bollettino meteo prima di avviarsi. Incominciò a scendere velocemente ma avrebbe impiegato un paio d’ore per tornare all’impianto, che avrebbe chiuso di lì a poco, quindi tanto valeva rassegnarsi e prepararsi ad affrontare una camminata molto più lunga.

Camminava da circa un’ora in mezzo ad una spettacolare pirotecnia di lampi che serpeggiavano nel cielo livido e di tuoni profondi che gli rimbombavano nelle orecchie insieme al battito accelerato del cuore, quando una pioggia torrenziale gli si riversò addosso inzuppandolo in pochi secondi. Il vento impetuoso e indeciso cambiava continuamente direzione costringendolo ad avanzare a testa bassa scostando in continuazione i capelli fradici dagli occhi.  il sentiero tra gli alberi divenne particolarmente impervio ed alzando allora lo sguardo si rese conto di essersi smarrito. Diluviava, aveva freddo e non sapeva dove stava andando. Prese il cellulare dalla tasca dei calzoncini e cercò di accenderlo, ma era bagnato e forse anche scarico, e comunque non dava segni di vita.

Fu allora che intravide una figura umana provenire dalla direzione opposta e le corse incontro gridando per attirarne l’attenzione, tentando di sovrastare il fracasso del temporale: era una ragazza intabarrata in una lunga cerata verde ma non riuscì a scorgerne il viso sotto la visiera del cappuccio.

“…mi sono perso, devo scendere a Santa Cristina…”

“…stai scherzando? Questa tempesta durerà per ore. Seguimi, non è prudente stare nel bosco, potrebbe cadere un fulmine!”

Accorgendosi  che faticava a starle dietro, la ragazza lo prese per mano e lui si lasciò trascinare: notò che la sconosciuta aveva il passo sicuro e veloce di chi ha familiarità coi luoghi e sembrava che sapesse esattamente dove stava andando. Poco dopo giunsero in una radura dove c’era una minuscola chiesa in pietra con il tetto appuntito e la vide estrarre dal voluminoso zaino che portava sotto la cerata una piccola accetta, con la quale in pochi gesti precisi ed efficaci ruppe la catena che bloccava il portoncino in legno.

L’ambiente era piccolo e polveroso, severo e spoglio: due panche e l’altare dominato da una croce lignea, ma l’unica finestrella aveva i vetri, quindi era asciutto e il vento rimaneva ad ululare fuori, nel buio che ormai incombeva. La ragazza estrasse dallo zaino una potente torcia e si tolse la mantella bagnata, buttandola con noncuranza sulla balaustra in legno grezzo che delimitava l’altare. Si accorse allora che era molto giovane e bella, alta e morbida, con un viso ovale e delicato da madonna preraffaellita, lunghi capelli biondi e gli occhi dell’azzurro glaciale tipico delle razze nordiche.

Si presentarono senza stringersi la mano, seduti ognuno su una panca, e sotto quella del Vice Commissario si formò presto una pozza d’acqua intanto che Frida Demetz gli spiegava che era appena tornata a casa dopo un anno trascorso a Milano, dove aveva lavorato alla ricezione del Grand Hotel ed de Milan in via Manzoni. Aveva fatto la scuola alberghiera e parlava correntemente quattro lingue, ma allo scadere del contratto non era stata riconfermata; aveva cercato invano delle alternative per qualche mese ed infine si era risolta a tornare a Santa Cristina, dai suoi. Era appena arrivata, e aveva avuto voglia di rivedere i sentieri che le erano cari.

Aveva l’inflessione un poco gutturale degli altoatesini, per i quali l’italiano sembra ancora una seconda lingua e c’era qualcosa di sfuggente e di ansioso nello sguardo chiarissimo e grave, o forse era solo l’imbarazzo ed il fastidio di dover condividere uno spazio ristretto con uno sconosciuto. Il Vice Commissario invece si sentiva confortato dalla sua presenza in quella notte buia, le disse che abitava a Milano e che era lì in vacanza ma per qualche ragione inspiegabile tacque sulla sua professione.

La luce della torcia proiettava sulle pareti della chiesa ombre lunghissime e deformi mentre si dividevano una tavoletta di cioccolata e dell’acqua, con il vento che pareva percuotere con malvagio accanimento il portoncino di legno  e la pioggia non accennava a diminuire. Il Vice Commissario Alberto Patané pensò all’amico Maresciallo che lo attendeva per cena e che si sarebbe di certo preoccupato, ma con quel tempaccio nessuno sarebbe venuto a cercarlo. In quanto a Frida, i suoi non sapevano ancora che era tornata e il suo telefono era scarico. Fu chiaro che avrebbero dovuto trascorrere la notte in quella dimensione straniante ed ostile. Erano due naufraghi che avrebbero atteso il giorno abbarbicati al medesimo scoglio e quando Frida estrasse dallo zaino il sacco a pelo e lo stese per terra, spense la torcia e disse con voce ferma:

“Ti prenderai una polmonite, se non ti togli di dosso quegli abiti fradici. Nel sacco c’è spazio per due”.

Percepì un lieve odore di selvatico, quando le si stese accanto, e smise di almanaccare sulla singolarità di quell’incontro con una ragazza che girava per le montagne con un sacco a pelo ed un’accetta nello zaino. Il vento urlava e gemeva e la pioggia continuava a cadere violenta, ed era un unico, spaventoso fragore. Si aggrapparono l’uno all’altra, la mente vuota, gli occhi spalancati nel buio, cercandosi con la stessa furia della tempesta che avevano chiuso fuori.

Poi, mentre giacevano abbracciati e silenziosi, Alberto considerò che dopo Magda, che non era riuscito a sottrarre alla strisciante disperazione che l’aveva fatta deragliare fino al suicidio, aveva lasciato andare tutte le donne che aveva incontrato. Le aveva lasciate ai loro segreti, ai loro rovelli e ai loro drammi arrivando sempre troppo tardi anche quando li aveva intuiti, oppure si era allontanato per noia e qualche volta non si era nemmeno avvicinato.

Frida si sentiva al sicuro, vicino a quell’uomo dagli occhi obliqui e malinconici, e pensò che le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio. Vederlo in un giorno di sole. Forse, chissà. Tra qualche tempo.

Prima o poi l’avrebbero interrogata, per la morte di Gaetano, avrebbero scoperto che si erano frequentati durante la sua permanenza a Milano. Ma considerato che era un magnaccia e uno spacciatore, i sospetti non sarebbero certo caduti su di lei, altoatesina dalla vita regolare e tranquilla. Poi, era stata bene attenta a cancellare qualsiasi traccia, anche dalla piccola accetta del nonno con il quale gli aveva tagliato la gola nel sonno. Quella notte, la notte dopo che lui l’aveva costretta ad “essere carina” con quel ricco maiale, rivelandosi infine per quel bastardo che era, l’aveva portata con sé. Stupida, che si era illusa che con lei sarebbe stato diverso.

In fondo, poteva considerarsi legittima difesa. Il tempo e le montagne l’avrebbero guarita, ne era certa.

Si svegliarono con la luce del sole che entrava dalla finestrella, e minuscole particelle di pulviscolo vorticavano leggere sopra le loro teste. Fuori, silenzio. Solo un lieve gorgoglio di acqua che scorre. Che lava, che porta via. Le montagne risplendevano della loro algida bellezza, che nessuna tempesta poteva turbare.

Si osservarono di sottecchi con un certo disagio: in fondo, erano due sconosciuti. All’imbocco del sentiero che conduceva all’impianto per Santa Cristina si salutarono impacciati.  Frida prese un’altra direzione e se andò senza girarsi, e Alberto continuò a pensare per un po’ al suo sguardo limpido e vuoto.

Si recò subito in caserma, dove spiegò a Duilio che lo accolse con sollievo che era rimasto bloccato dalla tempesta, ma tacque sull’incontro con la ragazza. Il Maresciallo rinnovò l’invito a cena per quella sera e lo congedò:

“…scusa, ma devo scappare. Mi hanno chiamato i colleghi di Milano: in un appartamento delle case popolari di via Martinelli, alla Barona, hanno ammazzato un tizio, un poco di buono che viveva sulla pelle delle donne che buttava sul marciapiede e di spaccio di coca che forniva ai loro clienti. Pare che una ragazza del paese che ha vissuto a Milano per un anno lo conoscesse. Lei è una brava ragazza che di sicuro non c’entra nulla, ma ha lasciato Milano qualche giorno fa e nessuno sa dove sia. Si spera che sia tornata qui dai suoi, magari avrà qualche informazione utile per le indagini. Pensa, il tizio è stato trovato con la gola tagliata e il medico legale dice che l’arma del delitto potrebbe essere un’accetta di dimensioni ridotte, ma con una lama affilatissima”.

Una piccola accetta dalla lama affilatissima.

Il Vice Commissario Alberto Patané pensò che gli sarebbe piaciuto ascoltare tutta la storia dalla voce di Frida.

Forse più in là l’avrebbe cercata. Forse un giorno, chissà. Ma per ora l’avrebbe lasciata andare, con il peso del suo segreto.

https://youtu.be/NFP_GrzWylg

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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