The ghostwriter

“Quanto all’annunciato “Out of the Aeons”, puoi ben dire che ci ho messo mano. In realtà ho scritto la dannata storia da cima a fondo! E’ pazzesco fare lavori così impegnativi quando, con la stessa fatica, si può scrivere un racconto originale e pubblicarlo sotto il proprio nome” (dalla lettera di H. P. Lovecraft all’amico Clark Ashton Smith)

Ermanno Pozzi apparteneva alla generazione dei figli dei milanesi ai quali era toccato vedere i bombardamenti degli alleati nel ’43, la guerra civile, i rastrellamenti dei fascisti e dei tedeschi e gli strascichi di rancore che seguirono la Liberazione nell’aprile del ’45. Coloro che sopravvissero a tutto ciò parteciparono in prima persona alla ricostruzione ed al profondo mutamento culturale e di costume che con essa ebbe inizio. La guerra aveva sospeso e spesso del tutto annullato i loro progetti, ridimensionando le aspettative che qualche volta si erano talmente allontanate da tramutarsi in sogni.

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A partire dal ’46 Milano risorse rapidamente e si rinnovò; il concerto inaugurale del ristrutturato Teatro alla Scala la sera dell’11 maggio, diretto da Arturo Toscanini che era appena rientrato dal lungo esilio americano, acquisì un significato profondo e particolare. Durante il decennio successivo la città meneghina, insieme a Torino e a Genova, rappresentò una forza trainante per il boom economico italiano e dal meridione dell’Italia giunse un massiccio flusso migratorio, attratto dalle prospettive di lavoro nelle grandi industrie del nord. Negli anni ’60 la massima aspirazione della maggior parte dei genitori per i propri figli era il “pezzo di carta”: il titolo di studio, ovvero l’opportunità di una vita meno tribolata della loro, più agiata e serena grazie ad un posto sicuro e ben remunerato.

Ermanno era figlio di edicolanti che avevano gestito l’elegante chiosco in stile liberty dipinto di verde in viale Corsica per oltre vent’anni, fino al giorno della sua chiusura nel 1983. Una vita di levatacce per raccogliere ed esporre prima dell’apertura i quotidiani e le riviste, consegnati alle cinque del mattino in pacchi legati con lo spago, di giornate passate seduti su uno scomodo sgabello posto in un angusto spazio all’interno a soffrire il freddo d’inverno e il caldo d’estate, domenica mattina compresa. Eppure i coniugi Pozzi avevano amato quel mestiere e si erano sentiti dei privilegiati. Il giorno in cui l’edicola aveva chiuso i battenti, la madre di Ermanno si era messa a piangere ed il padre aveva affermato che avrebbe patito per il resto dei suoi giorni l’assenza dell’odore della carta stampata che saturava il piccolo ambiente nel quale, con il passare degli anni, era diventato curvo. Gli sarebbe mancato il saluto quotidiano dei clienti abituali, e pensò che non avrebbe più guardato la prima luce dell’alba che si levava sulla città, mentre dall’appartamento di via Piranesi raggiungeva a piedi l’edicola in viale Corsica, né il movimento frenetico della città che mutava sotto i suoi occhi. Finì col morirne, pochi anni dopo, e mai come in quel caso sembrò appropriata l’espressione “si è spento”.

Se non altro fece in tempo a vedere il famoso pezzo di carta dell’unico figlio Ermanno, adeguatamente incorniciato ed appeso nel salottino a far bella mostra di sé e a testimoniare la concretezza di una meta raggiunta. La laurea in Lettere conseguita all’Università Statale di via Festa del Perdono nel 1979, Magnifico Rettore Prof. Giuseppe Schiavinato, dopo un paio d’anni di impieghi saltuari condusse Ermanno in una grande casa editrice milanese nella quale fu assunto come correttore di bozze.

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A metà degli anni ’80 si sposò con una siciliana di qualche anno più giovane di lui conosciuta durante una vacanza in Spagna, che viveva con i suoi da molti anni a Cinisello: fu l’unico colpo di testa di una vita quieta e ponderata poiché la decisone fu presa dopo sei mesi scarsi di frequentazione, e lei era tanto solare, estroversa ed intraprendente quanto lui era timido, cauto e riflessivo. Eppure, gli anni dimostrarono la solidità e l’armonia del loro legame e i due figli che ne nacquero crebbero in un ambiente sereno e solidale. Andarono ad abitare in via Plinio, vicino al celebre Bar Basso: il locale, gestito dal ’67 da un geniale veneziano transitato dall’Harry’s Bar, era molto amato dai milanesi ma anche dagli stranieri di passaggio ed era famoso per l’invenzione della variante del cocktail Negroni che fu chiamata “Negroni Sbagliato”.

Ermanno era soddisfatto del suo lavoro poiché amava la scrittura, la ricerca meticolosa del termine appropriato e la costruzione più scorrevole dei periodi, anche se a volte avrebbe volentieri stracciato i manoscritti di cui doveva limitarsi a correggere i refusi ortografici e tipografici. Gli scappò detto in più di un’occasione con il direttore, il quale un bel giorno decise di metterlo alla prova.

Lo convocò nel suo austero ufficio un lunedì mattina di marzo, una di quelle mattinate ventose ed incerte, con il cielo azzurro che lotta per liberarsi da certe nuvole scure ma poi pare soccombere, tutto sommato in perfetta sintonia con l’animo dei milanesi all’indomani dell’arresto dell’Ingegner Mario Chiesa e della deflagrazione della bomba Tangentopoli.

“Dunque, dottor Pozzi: qui abbiamo la bozza del secondo lavoro di questo nostro autore – lei ricorderà che il suo romanzo d’esordio ha superato le più rosee previsioni di vendita. La nuova storia è quasi completa ma è da riordinare e da ampliare in alcuni punti; oggi pomeriggio vi incontrerete, ne parlerete e lei potrà incominciare subito il lavoro. Mi aspetto che sia finito entro le prossime due settimane, abbiamo fretta di pubblicare”.

Ermanno aveva ben presente la prima opera di quello scrittore: un noir con un intreccio originale supportato da una splendida architettura, che si srotolava in una ineccepibile successione di eventi per condurre ad un finale inaspettato eppure perfettamente logico: tuttavia, quando lo aveva letto, aveva subito pensato con irritazione che pareva scritto da un liceale, nemmeno tanto bravo in italiano.

Si accordò con l’autore, che gli diede alcune indicazioni per completare il libro. Ermanno passò la notte a leggere il manoscritto e nelle successive due settimane entrò nella storia, si impadronì del filo narrativo, lo svolse e lo riavvolse fino a quando non fu soddisfatto del suono delle parole e delle pause.

Quando il romanzo uscì un paio di mesi dopo, la critica non mancò di sottolineare la maturazione stilistica di un autore che aveva già dato una prova della potenza della sua inventiva e della sua capacità di afferrare saldamente l’attenzione del lettore fin dalle prime righe, e ne decretò l’indiscusso successo. Fu così che Ermanno divenne ufficialmente uno scrittore fantasma.

https://youtu.be/Ut4Ww3q6ldA

Il suo rapporto di collaborazione con quel personaggio divenne costante e fu regolato da un contratto che gli riconosceva una percentuale sulle royalties delle vendite vincolandolo però alla rinuncia a qualsiasi credito ufficiale sulle pubblicazioni; la sottoscrizione di un accordo di non divulgazione del suo ruolo di scrittore occulto lo relegò definitivamente nell’ombra.

Non ne soffrì particolarmente perché, a dispetto di quanto pensavano sua moglie ed il direttore, che sovente lo incoraggiavano affinché provasse a scrivere qualcosa di suo, era consapevole della sua abilità nell’utilizzo delle parole ma anche della sua mancanza di immaginazione: poteva descrivere efficacemente un evento conosciuto ma non era in grado di inventarsene uno, per quanto si sforzasse, figurarsi una storia che reggesse.

Nel corso degli anni, poiché l’autore aveva una mente brillante ma era un artista poliedrico che non avanzava molto tempo per scrivere, gli capitò sempre più frequentemente di sviluppare in piena autonomia qualche scarno appunto che tratteggiava appena la struttura di un romanzo. Ermanno si avventava su quelle esili tracce con avidità: lui era una sorta di parassita felice che si nutriva della creatività complessa ed originale di un altro, immergendosi completamente in una dimensione parallela nella quale pensava e sentiva come i personaggi di cui gli veniva fornito un accenno e che andava via via delineando, muovendosi in atmosfere torbide e stranianti eppure non prive di una certa poesia. Usciva da queste esperienze trasognato e trafelato ed era solo grazie ad un grande sforzo di volontà che riusciva ad occuparsi di altri lavori (per lo più noiosissime autobiografie), attendendo con impazienza un nuovo schema sul quale impegnarsi.

Ermanno e l’autore, pur collaborando in perfetta sintonia per oltre un decennio e al ritmo medio di un libro all’anno, non divennero mai amici. Eppure, quando questi apprese di essere malato e di avere ancora pochi mesi di vita, ne parlò solo con Ermanno, al quale volle affidare il suo addio ai lettori: nell’ultimo romanzo intendeva utilizzare la tecnica dell’io narrante il quale si sarebbe trovato suo malgrado coinvolto in un’intricata vicenda che ruotava attorno ad un delitto brutale e la scoperta della verità, in un emozionante crescendo di colpi di scena, lo avrebbe condotto ad una fine violenta.

Nella realtà, la sua morte giunse prima del previsto ed il nuovo lavoro, del quale nessuno sapeva nulla, come si confermò nelle settimane successive alla sua scomparsa, era ancora poco più che un abbozzo. Quando Ermanno ebbe la certezza che non esisteva alcuno scritto, nulla di nulla oltre ai colloqui avvenuti tra di loro nel più stretto riserbo, decise  di appropriarsi della storia e di pubblicarla con il suo nome. Forse non sarebbe stato in grado di scriverne altre, ma volle farlo comunque. Decise di cambiarne un dettaglio ed il finale: il protagonista che narrava in prima persona sarebbe stato un ghostwriter anziché uno scrittore accreditato e la storia non si sarebbe conclusa con la sua morte, che tra l’altro non era funzionale alla  coerenza della successione di eventi.

Era la sua grande occasione, con ogni probabilità l’unica, e si convinse che coglierla sarebbe stato il giusto riconoscimento del suo silenzioso e fondamentale contributo a dieci anni di successi di un romanziere famoso, che era presto divenuto solo un suggeritore di trame e niente di più: il vero scrittore era lui, e presto tutti lo avrebbero saputo. Si immerse dunque nella storia con tutto il suo essere e divenne l’io narrante.

“Ho bisogno di respirare l’aria dei night club di seconda o terza categoria, per scrivere questa storia, e così inizio a frequentare un locale polveroso dove aleggia un afrore stantio di corpi sudati. Riesco ad avvicinare una ballerina di lap dance, bella ragazza dell’est europeo dallo sguardo duro di chi ha dovuto imparare troppo presto ad arrangiarsi e difendersi, e non sempre vi è riuscito. Ci metto un po’ a farle capire che vorrei solo parlare con lei, e alla fine in cambio di una somma modesta mi concede un appuntamento. La mattina dopo raggiungo il suo appartamento, in un brutto condominio sull’Alzaia Naviglio Grande, tra la Darsena e il ponte di via Valenza: risalente agli anni ’60 è assolutamente fuori contesto, rivestito di piastrelline vetrificate marroni, con tapparelle di plastica verde e balconi in vetro e metallo. Un cigolante ascensore nel quale ristagna puzza di cipolla e di cane bagnato mi porta al sesto piano. Suono il campanello di Helena Cartarescu ma non ottengo nessuna risposta, poi mi accorgo che l’uscio è solo accostato ed entro con circospezione, allertato da un presentimento disturbante. Silenzio, olezzo di chiuso e tapparelle alzate per metà nell’angusto soggiorno arredato alla bell’e meglio, un corto corridoio conduce all’unica camera da letto. La ballerina di lap dance è lì, sul letto a due piazze, vestita di un vaporoso abito bianco che le lascia scoperte le gambe e i piedi nudi con le unghie smaltate di rosso cupo. E’ seduta come una di quelle orrende bambole che si tenevano sul letto tanti anni fa, la schiena ed il capo sono appoggiati al muro alla testa del letto e le mani graziosamente appoggiate ai lati del corpo. Il suo sguardo non ha più la durezza che ricordavo, è fisso e leggermente attonito, proprio come quello di quelle bambole. Certo, perché è di vetro, e i suoi bulbi oculari sono ordinatamente posati su un piattino sopra al comodino. Le mie sinapsi smettono per qualche istante di funzionare abbandonando i neuroni a se stessi, un improvviso reflusso acido mi brucia l’esofago e sale velocemente verso la bocca, e su tutto prevale l’istinto primordiale di fuggire il più lontano possibile da quell’orrore”.

Ermanno lavorava alacremente dedicando tutto il suo tempo libero alla stesura del romanzo. Aveva annunciato alla moglie e al direttore che presto avrebbe proposto una sua opera e nessuno aveva sospettato che avesse rubato un’idea congegnata e strutturata dall’autore defunto (perché era questa, in fin dei conti, la verità).

A mano a mano che scriveva, aveva tuttavia la sensazione che i suoi pensieri fossero guidati da una volontà estranea che gli sottraeva dalle mani il filo della narrazione avviandolo sempre verso la morte dell’io narrante, come previsto dal progetto originale. Provò a ricominciare daccapo scardinando l’intera struttura ma, data la sua scarsa fantasia, non ne veniva a capo: passava le nottate a scrivere pagine che il giorno dopo rileggeva ed eliminava perché non ne era soddisfatto. Infine, dopo molti mesi in cui era diventato irriconoscibile persino ai suoi stessi cari, divorato da un’agitazione febbrile che si rifletteva nel suo aspetto stranamente trasandato e sofferente, terminò il romanzo. Aveva operato qualche piccola forzatura,  il  finale era giustamente amaro ma il protagonista si salvava. Erano le quattro del mattino di un gelido giorno di gennaio del 2005, l’ultimo dei tre giorni della merla.

La sera dopo, rientrato dal lavoro accese il computer portatile e rilesse la parte finale:

“il corpo del ghostwriter giaceva riverso sulla scrivania, dalla finestra spalancata il vento  freddo sollevava e scompigliava i fogli di carta che danzavano intorno alla sua testa immobile. Appena sotto il piccolo foro di proiettile sulla sua tempia destra luccicava un minuscolo rivolo di sangue, ormai secco”.

Gli mancò il respiro: non era quello il finale che aveva scritto, non era quello!

Fece il diavolo a quattro in casa, diede in escandescenze ma in fondo sapeva benissimo che né sua moglie né i suoi figli potevano avere messo mano al suo lavoro. Sostituì quelle righe con quelle che ricordava perfettamente di avere scritto la sera prima, prese un sonnifero e si coricò.

Ma la sera dopo il mistero si ripropose, e come in un diabolico algoritmo che si riproduce all’infinito fu così per molte sere ancora. Infine, Ermanno capì quale era il prezzo che avrebbe dovuto pagare per uscire dall’ombra.

Nessuno sentì il rumore dello sparo, la notte in cui morì Ermanno Pozzi, di professione ghostwriter: la moglie si trovava all’ospedale di Niguarda, al capezzale della madre operata ed i due figli erano a sciare in Valtellina. La porta era chiusa dall’interno, non fu mai rinvenuta alcuna arma e si dovette escludere l’ipotesi del suicidio poiché sulle mani del defunto non c’erano tracce di polvere da sparo, né mai si comprese quale potesse essere stato il movente dell’assassinio di un innocuo, irreprensibile scrittore fantasma. Il romanzo fu pubblicato ed ebbe un enorme successo, alimentato anche dalla singolare analogia tra le modalità della morte del protagonista del romanzo e del suo autore, l’unico a conoscere  l’intera storia.

https://youtu.be/JFEftsKAUvY

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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