Un modello neoclassico puro

In questo articolo espongo un modello che chiamerò “neoclassico puro“, più raffinato di quello dell’equilibrio generale già esposto, e che si basa sulle stesse ipotesi dell’EEG walrasiano.
Riassumiamole velocemente: i mercati sono perfettamente concorrenziali, il set informativo disponibile è perfetto e completo e i prezzi sono flessibili sia nel breve periodo che nel lungo periodo (cioè si adeguano immediatamente alle variazioni nella domanda e nell’offerta, c.d.principio del market clearing); queste ipotesi comportano che le allocazioni realizzate dal sistema macroeconomico siano efficenti e conducano alla piena occupazione di tutti i fattori produttivi, compreso il lavoro.
In ultima, ogni individuo, essendo lui razionale e i prezzi flessibili, prenderà decisioni di consumo/produzione esclusivamente sul livello dei prezzi relativi (come abbiamo visto per la EEG), quindi in questo modello sono rilevanti SOLO le variabili reali (quelle cioè al “netto” del livello dei prezzi). I prezzi dipendono esclusivamente dal livello della moneta in circolazione, e anche questa è una conclusione in linea con il modello EEG e la teoria quantitativa della moneta lì vista.

Il modello è del tipo “domanda e offerta aggregate”, e consiste nel determinare un sistema di equazioni che mettano in rapporto fra di loro il reddito prodotto (y, il PIL se preferite) e il livello dei prezzi (p), per vedere come uno influenza l’altro a seconda di come variano gli altri parametri e variabili del modello (per esempio, la moneta, i consumi, gli investimenti eccetera).
Le equazioni che utilizzeremo sono le seguenti (vds nota 1):

Fig.1

La funzione [10.1 (f)] è una funzione di produzione che dice che, dato un certo livello della manodopera occupata (n), e dato un certo coefficente (alfauno, che deve essere compreso fra zero e uno data l’ipotesi di concorrenza perfetta), allora verrà prodotto un certo livello di reddito (y).
La [10.1 (d)] è la funzione di domanda di lavoro che è decrescente rispetto al salario reale (w-p), secondo un coefficente (betazero) che misura la sensibilità, la reattività delle imprese a variazioni del salario reale: in breve, tanto più alto è betazero, tanto più le imprese taglieranno domanda di lavoro.

Specularmente l’offerta di lavoro [10.1 (s)] è una funzione crescente rispetto al salario reale sempre secondo un altro coefficente di sensibilità (gamma): tanto maggiore il salario reale, tanto più i possibili lavoratori saranno incentivati a offrire lavoro.

La [10.1 (e)] è la condizione “chiave” del modello, perchè rappresenta l’equilibrio di pieno impiego sul mercato del lavoro: domanda=offerta, quindi non esiste disoccupazione involontaria, solo chi lo vuole rimane senza lavoro dato il livello del salario reale.
La funzione [10.1 (ad)] rappresenta la funzione di domanda aggregata (aggregate demand, AD), di cui non darò la derivazione matematica, in quanto ritengo sarà più utile farlo in futuro con il modello keynesiano.

In ogni caso il suo significato è chiaro: se spostiamo il livello dei prezzi (p) al primo membro, allora il livello del reddito nominale (p+y) è pari alla somma del livello della moneta (m) e della velocità di circolazione (v). Questo significa che, data v costante per ipotesi (i neoclassici la usano frequentemente perchè considerano la velocità di circolazione influenzata solo da fattori strutturali che possono avere oscillazioni solo nel breve periodo, e comunque attorno alla media di lungo periodo), allora il livello dei prezzi dipende esclusivamente dal livello della moneta, che è quanto visto nella teoria quantitativa del EEG.
Il livello del reddito non influenza p perchè, lo vedremo fra breve meglio, il reddito dipende solo dall’equilibrio sul mercato del lavoro e dalla funzione di produzione. Dentro alla variabile v possiamo considerare enucleate altre grandezze tipiche della domanda aggregata, cioè i livelli autonomi dei consumi, degli investimenti, della spesa pubblica e delle partite correnti con l’estero.

La relazione fra i prezzi e il PIL è negativa, cioè la retta è decrescente. Questo è coerente con l’idea che quanto più i prezzi sono alti, tanto minore sarà la domanda di “prodotto nazionale”, esattamente come un qualsiasi consumatore acquista minori quantità di un bene qualora il suo prezzo aumenti.
Ogni variazione positiva del livello m (politica monetaria espansiva) e/o di v (politica fiscale espansiva e/o crescita di consumi/investimenti) produrrà un traslazione verso l’alto e a destra della retta AD. Viceversa una diminuzione la farà traslare a sinistra in basso.
Il procedimento per arrivare alla soluzione del modello è il seguente: si parte dalla condizione di equilibrio [10.1 (e)] e quindi si eguagliano le [10.1 (d)] e [10.1 (s)], ottenendo con qualche passaggio algebrico questo risultato che è il salario reale di equilibrio del mercato del lavoro:

Fig. 2

Sostituendolo nella [10.1 d] si ottiene il livello di piena occupazione del lavoro (nL):

Fig.3

Sostituendo quest’ultimo nella funzione di produzione [10.1 f] si ottiene il reddito prodotto (PIL):

Fig.4

Questa ultima funzione è la nostra equazione di offerta aggregata (aggregate supply, AS). A questo punto è opportuno sottolineare che il livello di reddito yL di piena occupazione dipende esclusivamente dai parametri strutturali del modello, NON è cioè influenzato dal livello dei prezzi (p), nè da altri parametri variabili: solo le variazioni dei coefficienti del mercato del lavoro e della funzione aggregata di produzione modificheranno il valore di yL. In tal senso, dati i valori di questi coefficenti e supposti costanti nel tempo (o che si modifichino solo lentamente e non spontaneamente), la funzione di offerta aggregata è una retta verticale.
Sostituendo yL nella AD [10. 1 (ad)], conosciuti i livelli di “m” e “v” (i classici li danno per esogeni, cioè sempre determinati fuori dai modelli macro e per scelte di policy, oppure da fattori strutturali non soggetti a scelte istituzionali), allora è possibile ottenere il livello dei prezzi (p).
Come si vede si è dimostrata la neutralità della moneta rispetto al reddito e alle altre grandezze reali (salari reali, occupazione): la moneta determina esclusivamente il livello dei prezzi assoluti. STOP.
La rappresentazione grafica del modello aiuta a capirne meglio le conclusioni:

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Si vede facilmente allora che qualsiasi politica economica, monetaria e/o fiscale (in breve ogni politica di aggregate demand, o demand management, che faccia traslare la retta AD) NON ha effetto sul livello del reddito prodotto, che rimane costante al suo livello di piena occupazione yL, dipendente solo da fattori strutturali. L’unica cosa che si ottiene è un aumento o una diminuzione dei prezzi e basta. Questo dovrebbe far ricordare a molti certi paradigmi liberisti di una banca centrale in particolare…ogni riferimento è lasciato ai lettori.

Ne consegue che per i macroeconomisti neoclassici puri, ma li possiamo  ben chiamare “liberisti”, ogni politica economica della domanda aggregata è inutile o addirittura dannosa qualora crei inflazione. Sono tutte inutili per far giungere il sistema alla piena occupazione del lavoro , in quanto il sistema vi arriverà da solo, basta lasciarlo fare e liberargli le mani, cioè rendere il più flessibile possibile il mercato del lavoro. Ecco perchè si è soliti dire che le politiche liberiste sono generalmente rivolte alla c.d. supply management, la politica dell’offerta contrapposta alle politiche del lato della domanda (keynesiane). Fischiano le orecchie? Qua l’acufene peggiora, e allora vediamo un bel esempio pratico tratto dalla vita reale.

Che effetti hanno le riforme strutturali del mercato del lavoro? Prendiamo per esempio una legislazione che incentivi anche fiscalmente (decontribuzione o taglio del cuneo fiscale sul lavoro) le assunzioni e sposti nel tempo il momento della assunzione a tempo indeterminato dell’impiegato, di fatto incentivando (pur con qualche correttivo teso a evitare abusi) il lavoro precario o flessibile che dir si voglia.
In tal caso la sensibilità degli imprenditori a variazioni del salario reale (betazero) dovrebbe diminuire, cioè gli imprenditori saranno più disponibili a acquisire fattore lavoro pur pagandolo leggermente di più, in quanto sanno che per un periodo determinato si tratta di lavoro flessibile. Oppure perchè (non alternativamente) godono di una decontribuzione generosa i primi anni. La curva della domanda di lavoro diventa quindi più piatta e sposta a destra il punto di equilibrio (verso livelli maggiori dell’occupazione, vd fig b).
Ovviamente questa legislazione ha effetti anche sulla offerta di lavoro, in quanto potrebbe disincentivare molti a entrare nel mercato finchè non trovino una occupazione che giudicano stabile, e la recente crescita dei NEET (chi non studia nè è alla ricerca di lavoro) sottolinea che il problema esiste. In tal caso la curva di offerta di lavoro diventerà più ripida e sposterebbe il punto di equilibrio a sinistra. Il risultato finale è quindi da vedersi col senno del poi.
Ma anche politiche attive nella ricerca dell’occupazione possono influenzare il coefficente gamma: politiche che obblighino alla iscrizione a liste di collocamento, alla frequenza di corsi di formazione e a accettare i lavori proposti, pena la perdita progressiva dei sussidi di disoccupazione, ridurrebbero il valore di gamma e la retta di offerta di lavoro diventerebbe a sua volta più piatta, spostando anch’essa a destra il punto di equilibrio sul mercato del lavoro.
Diversi tipi di politiche possono influenzare invece la funzione di produzione: ne possono essere esempio quelle che incentivino anche fiscalmente la R&S(ricerca e sviluppo); quelle che favoriscano la diffusione di nuove tecnologie (IT, banda larga eccetera), oppure spostino la produzione verso fasi più upstream e con maggior valore aggiunto ( https://www.pianoinclinato.it/catene-produttive-vs-commercio-internazionale/ ).
In questi casi il coefficente alfauno crescerebbe e la retta (fig. d) diventerebbe più ripida: a parità di manodopera, il PIL prodotto sarebbe maggiore. Faccio notare che un recente studio contenuto nell’ultimo Outlook del FMI stima  come R&S e  diffusione delle tecnologie ITC abbiano un chiaro impatto sulla produttività totale dei fattori, mentre le riforme del lavoro sembrano, empiricamente parlando, non avere effetti sulla funzione di produzione. Per esempio politiche che creino le condizioni per un “incontro” fra scuola e imprese (stage lavorativi x esempio, o corsi pratici a scuola tenuti da lavoratori del settore) ai fini di incentivare la ricerca di personale giovane, qualificarlo e impiegarlo, non sembrano avere effetti sulla pendenza della curva di produzione.

PRO E CON
Il modello ha due principali difetti: il primo è che non spiega le fluttuazioni cicliche tipiche del PIL. Si è provato a spiegarle aggiungendo un “disturbo casuale” (stocastico) alla funzione di produzione, cioè una variabile incognita non prevedibile che in media sul lungo periodo sia pari a zero, ma che possa assumere valori negativi o positivi nel breve termine, così diminuendo o aumentando il PIL pur a parità di manodopera impiegata.
Esempi di disturbi casuali possono essere: un inverno particolarmente rigido che chiuda i porti della costa est USA, oppure un bankrun e la chiusura del sistema bancario e il collasso di quello dei pagamenti, oppure la scoperta di una risorsa nuova di materia prima. Gli esempi possono essere migliaia.
Ma anche in questo caso non viene risolto il secondo problema. Riprendiamo la rappresentazione grafica del modello: variazioni positive di yL spostano a destra la retta verticale, perciò i prezzi diminuiscono all’aumentare del PIL, e viceversa aumentano al suo diminuire. Questo andamento è apertamente in disaccordo con l’esperienza che vuole i prezzi prociclici, cioè variare nella stessa direzione del PIL. La soluzione del problema la vedremo con il monetarismo di M.Friedman e R.Lucas.
Infine, in quasi tutti i testi universitari di macroeconomia che possiate leggere, troverete una didascalia che dice che i risultati di questo modello neoclassico puro sono equivalenti a quello del suo analogo keynesiano (che vedremo in futuro), ma di lungo periodo. Il motivo è semplice: per i keynesiani i prezzi sono rigidi nel breve periodo, e sono invece flessibili solo nel lungo: perciò solo nel lungo periodo prezzi e salari possono variare e portare all’equilibrio di pieno impiego il mercato del lavoro e quello dei beni.
In realtà tale conclusione è, secondo me, da prendere con le pinze perchè la funzione di produzione che tanto questo modello quanto quello keynesiano usano è una funzione tipica del breve periodo: manca infatti del tutto ogni accenno all’altro fattore di produzione oltre il lavoro, che è il capitale (macchinari, attrezzature, know how eccetera). Il capitale si ritiene infatti possa modificarsi sensibilmente solo nel medio-lungo periodo, perciò viene considerato costante nel breve. La perfetta flessibilità dei prezzi garantisce al modello neoclassico puro l’equilibrio di pieno impiego sempre, sia nel breve che nel lungo, ma per il modello keynesiano ora che i prezzi e i salari si flessibilizzino, si fa in tempo a modificare il livello del capitale e quindi la funzione di produzione cambia e i due modelli non sono più paragonabili, almeno in linea di principio.

In chiusura aggiungo una precisazione: nell’esempio che ho fatto è chiaramente distinguibile una recente riforma varata dall’attuale governo italico, pur esposta per sommi capi. Lungi dalle mie intenzioni fare propaganda pro o contro la riforma e chi l’ha fatta (d’altronde in giro per l’Europa tendono ad assomigliarsi tutte, anche per un ragionevole motivo di convergenza normativa). Lo scopo per cui l’ho utilizzata è esclusivamente quello di mostrare in pratica perchè certe riforme sono chieste e come operano a livello di modelli macro, esattamente come era intenzione di queste “lezioni” fin dall’inizio. Sono gradite ovviamente tutte le critiche costruttive e le osservazioni che si vorranno fare in merito, specie se sono volte a mostrare ulteriori e/o diversi comportamenti del modello rispetto ai dettagli delle possibili riforme del lavoro. Anzi, sarò il primo ad apprezzarle.

——— (nota 1) tutte le grandezze riportate nell’articolo sono i logaritmi naturali dei rispettivi livelli di ogni variabile. Ho scelto così perchè mi sarà più facile in futuro completare il discorso e fare paragoni con i modelli monetaristi, che da questo derivano. In ogni caso chi conosce un pò di matematica sa che le trasformazioni logaritmiche sono trasformazioni lineari che NON modificano l’ordine di grandezza delle variabili. Nel seguito userò indistintamente i termini variabile, livello della variabile e logaritmo del livello. Il significato e i risultati economici non cambieranno minimamente.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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