Una questione irrisolta

Nella notte tra il 22 e il 23 di febbraio 2010 circa 3.000 tonnellate di petrolio ed altri idrocarburi furono riversati nel fiume Lambro dai silos della  Lombarda Petroli di Villasanta, nei pressi di Monza, ad opera di ignoti destinati a rimanere tali.

La massa oleosa e mortifera proseguì la sua corsa fino al punto di confluenza con il Po nel tratto piacentino, raggiunse il delta e si disperse nel Mare Adriatico. Fortunatamente, lungo il percorso gli sforzi congiunti dei vari Enti competenti riuscirono a ridurre sensibilmente la portata della marea nera. Il danno ambientale fu tuttavia rilevante e l’agricoltura delle zone interessate subì ripercussioni gravissime, proprio nel momento in cui pareva ci fossero i primi timidi segnali di ripresa dalla grande crisi finanziaria iniziata nel 2008.  

Era il primo giorno di marzo e dopo una domenica piena di sole e di promesse tirava un’aria fredda che scuoteva le tapparelle e scaraventava la pioggia contro i vetri con una serie ininterrotta di scrosci rabbiosi. Mentre faceva colazione seduta in cucina, Ottavia sfogliava il giornale umido che suo marito Giorgio, il quale con ammirevole senso del dovere aveva portato fuori Coleridge e si stava cambiando per recarsi in ufficio, aveva appena deposto sul tavolo.

Avevano deciso di accogliere il piccolo jack russel quando era stato chiaro che di figli non ne sarebbero arrivati, e avendo assistito alle tribolazioni e ai dispiaceri ai quali erano andate incontro un paio di coppie di loro conoscenti che avevano deciso di adottare un bambino, avevano ragionato che se era andata così forse c’era un insondabile motivo, e dunque non era il caso di accanirsi ulteriormente nel tentativo di forzare la mano al destino. Non che avessero attribuito al cane un ruolo che non gli competeva: solo che quando anche l’ultimo dei tentativi fallì se ne fecero una ragione, essendo due persone equilibrate, ma covarono per qualche tempo un sotterraneo magone e quando videro la cucciolata a casa di un collega di Giorgio furono colti entrambi da una tenerezza consolatoria.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Ottavia si era soffermata a leggere i resoconti ed i commenti sull’ennesimo disastro ecologico, e stavolta era così vicino a casa: il Lambro, vituperato fiume lombardo utilizzato fin dalla fine degli anni ’60 come una discarica per reflui chimici, dalle acque così inquinate che ormai la nostalgica  affermazione dei nonni “e pensare che una volta nel Lambro ci facevamo il bagno” era poco più che una leggenda metropolitana.   Acque morte e maleolenti, che ammorbavano anche le rive erbose del corso d’acqua ed i laghetti ormai prosciugati all’interno dell’omonimo Parco, per la verità non uno dei luoghi più raccomandabili di Milano.

Il declino del Parco Lambro era proseguito ininterrotto, tra l’indifferenza delle amministrazioni comunali e lo sdegno sempre più rassegnato e stanco dei milanesi, soprattutto di coloro che abitavano nelle vicinanze. E proprio nel momento in cui si incominciava a fare qualcosa per far rivivere fiume e parco con diversi progetti di bonifica del territorio e di recupero delle cascine che testimoniavano un passato agricolo, nell’ammirevole per quanto tardivo intento di trasformare l’area da regno dei tossici e della prostituzione omosessuale a spazio verde fruibile dalla comunità, quell’ulteriore insulto scellerato proprio non ci voleva.

Di tutto lo scempio ampiamente documentato, le immagini che avevano maggiormente colpito Ottavia erano quelle che ritraevano cormorani, folaghe e anatre con le piume annerite dal petrolio, intrappolati e soffocati da una lucente poltiglia collosa. Bloccati in una immobilità forzosa, esprimevano un’attonita disperazione un poco stolida per via di quegli occhietti tondi e fissi.

Dopo un poco si era risolta a muoversi per affrontare le incombenze della giornata e guidando con prudente circospezione da casa sua in via Vincenzo Monti verso Baranzate, dove aveva sede l’industria chimica presso la quale dirigeva l’ufficio del personale, durante le numerose soste per coda aveva avuto modo di pensare alla richiesta di assunzione con allegato curriculum che giaceva dallo scorso venerdì sulla sua scrivania, in mezzo a due pile ordinate e perfettamente simmetriche di carte. Più che alla missiva, e dopo un conflitto interiore che aveva occupato l’intero fine settimana, si era concessa di pensare al suo autore, Filippo Odescalchi.

Il primo giorno di ottobre del 1976 Ottavia varcò la soglia del liceo classico Giovanni Berchet in via della Commenda, di fronte all’austero edificio progettato dall’architetto razionalista Vittorio Gandolfi e terminato nel ’70  che cela la parrocchia di San Francesco di Sales e che tutto sembra fuorché una chiesa.

Per una ragazzina che abitava a Quarto Oggiaro, periferia ostica a nord ovest della città, salire tutte le mattine sul vagone saturo di fumo di sigaretta del treno delle Ferrovie Nord Milano, prendere la metropolitana fino alla fermata di San Babila, proseguire a piedi per poco più di un chilometro passando per Corso Europa, Largo Augusto e Corso di Porta Vittoria,  costeggiare  il bel Giardino della Guastalla e raggiungere finalmente via della Commenda era un viaggio che conduceva in un’altra Milano, quella della quale le raccontavano con affetto e con rimpianto i suoi genitori, nati e cresciuti a Porta Vigentina. Figli di povera gente, faticavano dall’età dell’adolescenza, della quale pure avevano un ricordo inspiegabilmente felice e spensierato, e cercavano per la figlia il riscatto sociale che a loro era stato negato: orgogliosi dei suoi risultati scolastici l’avevano voluta iscrivere ad uno dei licei più antichi e prestigiosi della città.

E lei ne era stata entusiasta fin dal primo giorno in cui era entrata dal portone con lo stemma dell’istituto ed aveva imboccato la scala dai gradini in pietra che, avvitandosi verso destra in tre rampe, conduceva al primo piano. Si era però sentita spaesata ed un poco a disagio rendendosi presto conto che la maggior parte dei suoi compagni proveniva da un contesto sociale ben diverso dal suo. Erano quasi tutti figli di imprenditori e liberi professionisti o ricchi commercianti, e fioccavano pure i doppi cognomi di alto lignaggio. Fu anche nell’inconsapevole tentativo di colmare questo divario che si impegnò con tutte le sue forze, e primeggiando in tutte le materie si conquistò il rispetto e la stima dei docenti ma anche dei compagni.

Furono il caso o il destino ad assegnarle Simona Odescalchi come compagna di banco all’inizio dell’ultimo anno: figlia di un avvocato e di una dermatologa, famiglia di rango che abitava in una villa dei primi del ‘900 in via Ghiberti, strada tranquilla con immobili d’epoca e palazzine unifamiliari che collega Viale Murillo a via Mosé Bianchi. Zona Fiera, insomma, quando i padiglioni della Fiera Campionaria si dispiegavano tra piazzale Giulio Cesare e Largo Domodossola.

Simona Odescalchi, che proveniva da una scuola privata in Svizzera dalla quale correva voce che fosse stata cacciata per qualche questione di disciplina ed aveva perso un anno, aveva un’intelligenza brillante ed intuitiva ma vi erano diverse cose che l’avevano distolta dallo studio: i ragazzi, prima di tutto, poi il tennis, le feste, lo sci d’inverno e le gite al lago nella buona stagione. Era bella, Simona, alta ed atletica, lisci capelli castano chiaro tagliati a caschetto dai Vergottini, tra i parrucchieri più ambiti della Milano bene, zigomi alti e occhi scuri e vivaci valorizzati dalle sopracciglia ad ala di gabbiano, il tono perentorio e l’atteggiamento sicuro di chi si è abituato ad impartire ordini sin da piccolo.

Era ben consapevole della sua avvenenza ma priva di qualsiasi forma di civetteria, ed anzi il suo approccio asciutto e sfacciato sovente spiazzava sia i coetanei che gli adulti. Veniva a scuola con una Mini Cooper verde scuro che guidava con una certa mascolina spericolatezza; Ottavia ne era affascinata ma come tutti anche un poco intimidita e quando Simona subito dopo le vacanze di Natale la invitò a casa sua per studiare insieme se ne stupì, lei che veniva chiaramente da un altro pianeta,

“…così mi aiuti, tu che sei così organizzata e concentrata, io mi distraggo se vola una mosca, figurati”,

ma ne fu lusingata, non pensando neppure per un istante che fosse un gesto meramente opportunistico che non avrebbe mai ridotto la distanza siderale che le separava.

Prese così a frequentare casa Odescalchi: arrivava sempre con un leggero affanno perché la guida della compagna la intimoriva,  e la governante friulana Angelica preparava loro qualcosa nella grande cucina dominata da un frigorifero di dimensioni spropositate. Succedeva raramente che i genitori fossero a casa per pranzo: allora si apparecchiava in sala, e l’affascinante mamma di Simona di tanto in tanto le si rivolgeva con garbato disinteresse:

“…ah, bene, oggi studiate insieme. E tu dove abiti?”

“…in fondo a Viale Certosa”,

e non era proprio una bugia, perché Quarto Oggiaro è in fondo a Viale Certosa, sebbene “in fondo” sia un’indicazione corretta ma piuttosto vaga. In verità per la prima volta Ottavia si vergognava di appartenere ad una brutta periferia, e con questa mezza bugia le pareva però di tradire i suoi genitori e l’onestà della loro fatica.

Non avrebbe mai immaginato che a Milano ci fosse gente che viveva in una villa con tanto di giardino  con alti ippocastani e ciliegi, aiuole fiorite e persino una piccola fontana nascosto dietro un’alta cancellata in ferro battuto ed un solido muro di recinzione. La villa era un’imponente costruzione intonacata di rosa pallido e grigio, con una larga scalinata di accesso, persiane grigie, alte finestre centinate ai piani superiori e balconcini con il parapetto costituito da slanciate colonnine in cemento. All’interno, pavimenti e  scala interna in marmo, quadri e tappeti preziosi e un arredamento moderno armoniosamente mescolato con diversi ed importanti pezzi d’antiquariato. Tuttavia, la cosa che lasciò letteralmente a bocca aperta Ottavia fu la scoperta che Simona viveva al terzo ed ultimo piano della villa, nella grande mansarda che condivideva con il fratello Filippo. Che fu l’altra scoperta che oltre a lasciarla a bocca aperta le tagliò le gambe, le spezzò il fiato e le agitò il sangue scombussolando i pensieri, fin dalla prima volta che lo vide.

Era capitato che ne intuisse la presenza udendo il rombo del motore della Porsche 911 con la quale scompigliava la ghiaia del vialetto di accesso entrando o uscendo, oppure quando dalla camera adiacente a quella nella quale studiavano giungeva ad un tratto della musica a volume altissimo. Il giorno che irruppe nella camera di Simona stavano preparandosi per un compito in classe di greco.

“…Simo, mi presti il tuo baby shampoo?”

Più alto di due spanne abbondanti della sorella, la schiena ampia ed i fianchi stretti da nuotatore, aveva i medesimi capelli lisci, ma più chiari e gli occhi azzurri come quelli della madre, il volto fine dai tratti aristocratici con un accenno di barba e l’espressione scanzonata di uno che pareva non prendere mai niente sul serio. L’aveva guardata con svagata curiosità che era subito  passata oltre e Ottavia, che era molto carina, piccola e dai lineamenti delicati, grandi occhi castani e scuri capelli ondulati che non ne volevano sapere di stare dritti, nel complesso ancora molto acerba, si era sentita goffa e malvestita.

Lui aveva preso lo shampoo e si era dileguato ma prima di uscire aveva voltato appena il capo, l’aveva sogguardata ed aveva detto, sorridendo:

“…spero di vederti ancora”.

Una frase detta con noncuranza, o forse un deliberato, crudele allenamento dell’intrigante seduzione che sapeva esercitare. Per lei, da quel momento in poi tutti gli altri ragazzi erano di colpo sbiaditi, ed aveva avuto occhi, cuore ed immaginazione solo per Filippo.

Il ragazzo frequentava (o quantomeno vi era iscritto) il terzo anno di Architettura al Politecnico. Vi erano pomeriggi in cui rientrava dal tennis, si faceva la doccia e poi entrava nella stanza dove le ragazze studiavano ancora gocciolante, con un corto asciugamano legato sui fianchi e Ottavia si sentiva avvampare e non sapeva dove guardare mentre cercava di non pensare alle goccioline d’acqua che rotolavano indolenti sulla sua schiena muscolosa. Faticava ad abituarsi all’impudicizia dei due fratelli che giravano spesso per casa mezzo svestiti con l’arrogante spontaneità di due perfetti narcisisti, quali in effetti erano.

Era il 1981, era appena iniziato l’evo del culto della felicità individuale, dell’affermazione personale  e dell’edonismo reaganiano, ma di queste dotte analisi nessuno di loro era cosciente né tantomeno interessato, ed era così per la maggior parte dei giovani di allora.

Arrivò l’estate e a Villa Odescalchi, in un tripudio di verde, di fioriture e di canti di uccellini era sicuramente ben più percepibile che a Quarto Oggiaro. Al tepore del sole l’infatuazione di Ottavia per il bel Filippo lievitava, alimentandosi di qualche fugace e sorridente apparizione.

Poi l’anno scolastico terminò e Simona le propose di accompagnarla nella villa di Dervio per preparare la maturità, e Filippo disse subito che visto che non sarebbe partito per le vacanze fino ad agosto si sarebbe aggregato. La sera prima della partenza, preparando la borsa da viaggio, Ottavia ebbe un attimo di assoluta ed impietosa lucidità e comprese che Filippo Odescalchi viveva in una dimensione nella quale lei non poteva che essere un’ospite transitoria: nessuna storia poteva essere possibile tra loro, ma allora decise che voleva averlo almeno una volta, perché altrimenti non c’era modo di liberarsi da quella che era divenuta un’ossessione.

La villa di Dervio, una costruzione moderna, non suggestiva come la dimora di Milano ma certamente lussuosa, aveva una splendida vista sul lago di Como al quale si accedeva da una ripida scala che dal giardino conduceva al piccolo molo. Durante i primi giorni le due ragazze si impegnarono negli studi mentre Filippo dormiva o prendeva il sole in giardino, tuffandosi di tanto in tanto nelle placide acque del lago saltando dal muretto di recinzione del giardino. Scompariva quasi tutte le sere, ma quando pranzavano nel patio antistante il giardino a volte coglieva una rosa e la deponeva vicino al piatto di Ottavia con un piccolo inchino.

Dopo qualche giorno comparvero gli amici, ragazzi di Milano e di Como che gli Odescalchi frequentavano anche a casa e che trattavano Ottavia con cortese distacco, quasi annusassero un odore diverso dal loro. Poi una sera Simona le annunciò che l’indomani sarebbero andati a fare un giro con certi amici, e Ottavia subito pensò che avrebbero dovuto studiare ma insomma sì, forse sarebbe stata l’occasione giusta per appartarsi con Filippo, le cui piccole galanterie le suggerivano che non avrebbe disdegnato una fugace avventura.

Invece, il mattino dopo si svegliò di soprassalto sentendo il fragore gagliardo dell’auto di Filippo che usciva dal cancello, e quando vide dalla finestra che Simona era con lui comprese di essere stata esclusa dal programma, qualunque esso fosse. Rimase da sola nella grande casa sul lago per quattro giorni, con l’imperscrutabile e silenziosa Angelica che evidentemente era abituata alle assenze prolungate dei due ragazzi e non se ne dava  pensiero, e comunque non era disposta ad accordarle né comprensione né solidarietà.

Tornarono una sera sul tardi, sorridenti e spensierati, e guardandoli a Ottavia vennero alla mente  due gatti randagi che tornano sazi al loro rifugio dopo una notte di caccia. Il giorno dopo chiese a Simona di accompagnarla alla Stazione dove avrebbe preso il treno per Milano ed il breve tragitto fu silenzioso, ma era chiaro che l’imbarazzo era tutto ed esclusivamente di Ottavia. Non aveva nemmeno salutato Filippo. Rivide la compagna nelle aule del Berchet durante le prove per la maturità e fu un incontro molto freddo.

Dopo il diploma, Ottavia si iscrisse a Sociologia all’Università di Trento, dove si stabilì. Lì incontrò Giorgio, originario della Val Gardena, spigoloso come le vette delle sue montagne ed altrettanto resistente e stabile. Era un ricercatore con una decina d’anni più di lei e si sposarono subito dopo la laurea della ragazza, la quale pensò che non era l’amore che sconvolgeva i sensi e tagliava il fiato e che certamente lui l’amava più di quanto lei non lo amasse, ma proprio per questo  si sentiva al riparo da qualsiasi delusione. Lui l’amava al punto di abbandonare la sua valle per trasferirsi con lei a Milano, senza mai farle pesare la nostalgia per la pace delle sue montagne.

Con gli anni riuscirono ad ottenere entrambi un buon lavoro che consentì una vita relativamente agiata. Alcuni amici fedeli ed i molti comuni interessi  rendevano gradevole e proficuo il tempo trascorso insieme.

Ottavia non aveva saputo più nulla degli Odescalchi, ma in qualche punto ombroso del suo animo era sedimentato il rovello per una questione rimasta in sospeso. Poi, quella lettera. E l’irrompere, con la medesima violenza dell’acquazzone di quella mattina, del ricordo di un’illusione, di un desiderio incompiuto che ritornava a galla, irragionevole ed inopportuno, mescolandosi alla coscienza della vita che scorre, e ne resta sempre meno.

Fece convocare Filippo Odescalchi per un colloquio per quel pomeriggio, ed infine se lo vide davanti, atletico ed elegante, un lieve cenno di cedimento nel volto ancora piacente. Notò che era vestito assai modestamente e non aveva più l’espressione orgogliosamente beffarda che rammentava, ma lo sguardo indurito di chi ha perso e non ha capito perché, e soprattutto non ha saputo risollevarsi.

Non la riconobbe, nemmeno quando si presentarono e lei scandì nome e cognome, a definitiva ed innegabile conferma di quanto gli fosse sempre stata indifferente.

Non era qualificato per la posizione che cercavano e lo aveva capito già dalla lettura del suo scarno curriculum: non se la sentì di illuderlo con il consueto “le faremo sapere” e gli disse subito che non faceva al caso loro, per onestà e per la maligna soddisfazione di sottolineare ed accrescere il suo fallimento, ed infine si salutarono educatamente, da estranei quali erano sempre stati.

E la sera, seduta a tavola di fronte a suo marito, si ritrovò ad osservarne con un moto di affetto i capelli bruni che si erano fatti argentei alle tempie, e la fitta rete di rughe intorno agli occhi sinceri. Pensò all’incondizionata solidarietà con la quale le era vissuto accanto in quegli anni e considerò  che quello era l’amore della sua vita, lo era sempre stato e in fondo lo aveva sempre saputo.

https://youtu.be/2nm4xv3firw

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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