Una storia di famiglia

“Spero con tutta l’anima che quando morirò, qualcuno avrà tanto buonsenso da scaraventarmi nel fiume o qualcosa del genere. Qualunque cosa, piuttosto che ficcarmi in un dannato cimitero. La gente che la domenica viene a mettervi dei fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate. Chi li vuole i fiori,  quando sei morto?” (J. D. Salinger, “Il giovane Holden”)

Io, poi, soffro di claustrofobia, quindi la prospettiva di finire in una cassa, sotto terra o dentro a un muro, mi terrorizza. Un controsenso, considerato il mio agnosticismo e la conseguente ferma convinzione che dopo la morte non vi sia nulla, a parte l’eventuale sopravvivenza del ricordo, che qualcuno tra coloro che mi hanno conosciuta potrebbe coltivare. Sarà come spegnere un interruttore, solo che una volta spento non si potrà mai più riaccendere: una sorta di pulsante monouso, come molti aggeggi di quest’epoca.

Forse non sono ancora pronta ad accettare la consapevolezza che un giorno sarà tutto finito, e allora mi piace trastullarmi con l’immagine romantica di qualcuno che spargerà le mie ceneri in un bosco e rinascerò fungo o muschio o margherita e qualcosa del mio spirito continuerà ad aleggiare su questa terra: tutto molto poetico, ma il fungo che nascerà dalle mie ceneri sarà mangiato o pestato da qualcuno, e il mio spirito in ogni caso non ne patirà perché si sarà degradato insieme al corpo.

Scendendo dal tram n. 12, sul quale sono salita davanti al portone di casa, in via Mac Mahon, attraverso il piazzale e mi dirigo verso l’ingresso principale del Cimitero Monumentale. Non porto fiori, perché l’accorata enunciazione di Holden Cauldfield mi ha talmente influenzata che posso immaginarmi i nonni (soprattutto la nonna) reagire infastiditi al peso di un mazzo di gerbere sulla pancia[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

La nebbia vaporosa che avvolge Milano  in questa domenica di novembre accresce il fascino di questo imponente museo a cielo aperto, che fu edificato a partire dal 1866 sul progetto dell’architetto Carlo Maciachini, e che accoglie le salme ed i pregevoli monumenti funerari di tanti illustri personaggi originari di Milano oppure la cui permanenza in questa città l’abbia in qualche modo onorata. Il Monumentale è il cimitero dei sciuri, delle famiglie altolocate, degli imprenditori illuminati e degli artisti di chiara fama, gli altri milanesi per nascita o per acquisizione riposano a Musocco (il Cimitero Maggiore) o a Lambrate o in qualche altro cimitero della cintura milanese.

Mi piace venire qui ogni tanto per passeggiare su questi viali ombreggiati e silenziosi, ed ogni volta mi stupisco dalla bellezza di questo sito dove si trovano molte opere d’arte che riflettono la diversità del gusto, delle scelte artistiche e delle epoche e persino del credo religioso. Nella mia personale percezione, questo non è un luogo di culto, bensì un non luogo dove si celebra la memoria e la si rende tangibile per mezzo di una magnifica iconografia: qui si assurge all’eternità, che è l’aspirazione talvolta inconsapevole di ogni essere umano.

Del prestigio della nobile stirpe dalla quale discendeva il mio nonno Berto, nonno per parte materna, si conserva solamente l’edicola funeraria al Monumentale. E’ collocata in un viale secondario, benché il bisnonno Ettore, Visconte di non so più cosa  le cui manie di grandezza lo condussero a dilapidare il cospicuo patrimonio famigliare, avrebbe probabilmente ambito al Famedio.

Della sua sventatezza e del suo assoluto ed ostinato rifiuto al lavoro, qualsiasi lavoro, ho appreso dalla nonna Tina, perché il nonno Berto non parlava volentieri del padre, anzi non ne parlava affatto: l’uomo che negli anni ’30 girava per Milano su una Isotta Fraschini e viveva nel grande appartamento in Corso di Porta Venezia, vendendo pezzo a pezzo argenteria, suppellettili varie ed infine mobili per pagare la servitù e mantenere il suo costoso stile di vita, quando morì nel ‘41 non aveva nemmeno i soldi per il funerale.

Così i due figli, il nonno Berto e suo fratello Aldo, si disfecero della Isotta Fraschini, non per un’immediata necessità ma per antipatia nei confronti del simbolo più vistoso delle esagerazioni paterne, e subito dopo dovettero vendere anche la casa, per pagare i numerosi debiti contratti dal bisnonno dei quali vennero a conoscenza solo dopo la sua scomparsa. Per loro fortuna, erano già accasati ed entrambi con un buon mestiere: il nonno Berto era orafo e lavorava nel laboratorio di una prestigiosa gioielleria in via Manzoni, mentre suo fratello era capo cameriere al Clubino Dadi, l’esclusivo luogo di incontro e svago riservato alla classe dirigente più attiva e signorile della città.

La nonna ha sempre sostenuto che comunque “si vedeva” che il nonno Berto e suo fratello venivano da una famiglia di veri signori, non di villani o di arricchiti, e sebbene io fossi confusamente  infastidita da questa visione ossequiosa ed arbitrariamente positiva della nobiltà, ho sempre notato nel nonno una  distinzione, un’eleganza innata ed un tratto educato decisamente non comuni.

Forse un analista (uno di quelli bravi, mica un cialtrone qualsiasi) mi saprebbe dire quali episodi della mia infanzia abbiano realmente influenzato il mio modo di essere adulta e le decisioni che ho preso, e in quale misura. Forse riuscirebbe a mettere ordine negli scaffali della mia memoria recondita, scegliendo un criterio scientifico: per importanza oggettiva, per affezione, per ricaduta sulla mia psiche di bambina, o altro che, non essendo io analista, non saprei dire. In mancanza dell’intervento di un professionista, continuerò a tenere i miei ricordi nello stato di disordine in cui si trovano: vi si può ravvisare tutt’al più una corretta successione cronologica, ma nemmeno di questo posso dirmi del tutto sicura. Non vi è dubbio tuttavia che il nonno Berto  e la nonna Tina, con i quali ho trascorso molto tempo nella mia infanzia e nella mia adolescenza, abbiano avuto un’enorme importanza nella ma vita.

 La nonna Tina veniva da una famiglia di contadini ed era cresciuta nelle campagne intorno a Ronchetto delle Rane. Era sveglia e fin troppo intraprendente e volle scegliersi una strada differente da quella che il destino pareva averle riservato: si sposò giovanissima con un bel giovane milanese conosciuto in una balera, e da come me lo raccontò con l’amarezza di molti anni dopo mi feci l’idea che dovesse essere stato più che altro un gesto di ribellione. Il bel giovane, con il quale andò ad abitare in una casa di ringhiera in Corso di Porta Vigentina dove nacquero due figli, le sfuggì ben presto, preferendo rifugiarsi nell’alcool. La nonna, che appena trasferita a Milano aveva preso il diploma di infermiera, andò a lavorate all’Ospedale di Niguarda, mentre il marito si consumava velocemente in una cirrosi causata dal bere.

Durante quegli anni difficili alla nonna, che era una bella donna opulenta e bionda, dagli zigomi alti e beffardi occhi celesti, con un portamento altero che conferiva una certa inaccessibilità alla sua bellezza procace, non mancarono le occasioni di “sistemarsi” con qualche signore facoltoso, per il quale il marito moribondo in casa non avrebbe rappresentato un deterrente ma i figli erano invece un impiccio risolvibile con l’internamento in un collegio, meglio se lontano da Milano.

Poi conobbe il nonno Berto, in maniera del tutto casuale. Fu colpita dalla sobria eleganza di quest’uomo non particolarmente bello che vestiva sempre in camicia bianca e pantaloni classici grigi, tutt’al più chiaro o scuro a seconda della stagione, ma sempre rigorosamente grigio, e che la domenica veniva a prenderla, salutava educatamente suo marito che continuava a fissare la parete di fronte alla poltrona, smarrito in una demenza senza ritorno, e portava lei e i bambini a prendere un gelato ai Giardini Pubblici.

Fu commossa dalla sua gentilezza compita e dalla pazienza con la quale attese che fosse libera per dichiararsi. E gli disse di sì, anche se non si sposarono mai perché lei non volle rinunciare alla pensione di reversibilità del marito.

Ritengo che il nonno Berto (per me, il nonno vero, dell’altro ho appena un ricordo sbiadito) si innamorò della nonna Tina fin dalla prima volta che la vide, così come credo che lei si lasciò convincere dalla sua amorevole e tenace dedizione e dall’incondizionato affetto che dimostrava nei confronti dei due bambini, ma non ne fu mai innamorata.

Abitavo già con la mia famiglia a Quarto Oggiaro quando i nonni affittarono una casa per le vacanze sul Lago Maggiore, dove passavo tutta l’estate con loro, mentre i miei genitori ci raggiungevano nel fine settimana: fu in quelle calde giornate estive, quando l’acqua del lago era immobile e la calura offuscava il cielo all’orizzonte velando la vista della Rocca di Angera, che appresi le prime nozioni di educazione sessuale.

La nonna, che a Milano indossava con civetteria scarpe dal tacco alto e in inverno una stola di pelliccia (che conservo ancora oggi) e che usava recarsi nel grande negozio di Baratti in Galleria Vittorio Emanuele per comprare la profumatissima cipria Coty, di cui potevo percepire la fragranza quando la abbracciavo, ed è quello per me ancora oggi l’odore della nonna Tina, aveva conservato una certa sbrigativa brutalità riscontrabile di frequente in chi è cresciuto a contatto con la natura, e per spiegarmi come nascono i bambini mi aveva portata da certi suoi amici che avevano delle mucche e mi aveva fatto assistere alla nascita di un vitellino. Ne ero stata affascinata e sconvolta, e comunque avevo capito perfettamente da dove uscivano i bambini, perché

“guarda che siamo tutti mammiferi, non siamo poi così diversi da queste mucche”,

aveva affermato la nonna.

Nelle lunghe chiacchierate in quelle estati spensierate mi raccontava molti fatti e aneddoti della sua giovinezza, e dalla sua narrazione affiorava sempre il rimpianto per le occasioni perdute e la rabbia per un errore di gioventù che aveva deviato irreparabilmente il corso della sua esistenza. Il nonno Berto invece mi raccontava storie fantastiche e avventurose nelle quali alla fine succedeva sempre qualcosa che sistemava tutto: ecco, se ci penso mi pare di avere poi sempre vissuto sorretta da questa convinzione, e non è sempre stato un male.

Dai nonni ho imparato a giocare a carte, a risolvere anagrammi e cruciverba, a fare merenda con pane, burro e gorgonzola e con pane, burro e acciughe (panino appena sfornato, perché allora i fornai a Milano panificavano due volte al giorno) e ad apprezzare i polli allo spiedo e le patatine a fiammifero della rinomata gastronomia Peck di via Spadari.

La casa dei nonni, sia quella di Porta Vigentina dove abitarono fino a metà degli anni ’60 che quella di viale Certosa dove si trasferirono in seguito, come anche quella al lago dove trascorrevamo le vacanze, era spesso piena di gente: ricordo molte allegre tavolate  con amici e vicini di casa, alcuni dei quali mi sono rimasti impressi. Vi era per esempio un amico napoletano della nonna che suonava il piano sulle navi da crociera, era divorziato e viveva con la biondissima Helga, una tedesca molto più giovane di lui. Le si rivolgeva masticando un nomignolo affettuoso che io interpretavo come “jazz”, fraintendendo il termine tedesco “schatz” che significa “tesoro”, ma io allora non lo sapevo e pensavo quindi che la chiamasse con il nome di una musica, e mi pareva bellissimo. Poi vi era quel tassista che conosceva ogni angolo di Milano e scriveva poesie in dialetto milanese, e veniva sempre a trovare i nonni con “la sua bella”, come la chiamava il nonno, che non era nemmeno tanto bella ma in compenso molto simpatica e sempre con la risata pronta, e seppi poi che era anche molto sposata.

In quelle giornate allegre dopo il pranzo il nonno apriva la valigetta del giradischi Geloso e sceglieva un disco. Poi con un piccolo inchino invitava la nonna a ballare e lei sorrideva contenta e io li guardavo beandomi della loro felicità, della quale mi sentivo in qualche modo partecipe.

A causa del nonno Berto ho però vissuto anni di spaventosi sensi di colpa quando andavo a scuola dalle suore: da piccola lui mi aveva fatto fare la pipì dietro una colonna in Duomo, perché ussignur, le esigenze dei bambini sono sacre, e quando le religiose riversarono nella mia anima infantile la minaccia tenebrosa del peccato mortale io stetti malissimo, anche pensando a quei cubetti gelatinosi di marmellata tutta ugualmente dolciastra che avevo seppellito nel tratto di spiaggia della colonia di Borgioverezzi e che dopo quindici giorni era riaffiorata appiccicandosi sotto i piedi, e le suore avevano istruito una specie di processo per individuare il colpevole ma io, già dannata per via della pipì dietro la colonna, ero stata zitta. Per la cronaca, non sono mai più andata a Borgioverezzi.

Forse il rancore sotteso della nonna per le cose che le erano sfuggite di mano e la vita che non era proprio andata come aveva sognato, quel suo frequente discutere con Dio con il pugno chiuso rivolto verso il cielo, avevano qualche ragione di essere, perché l’ultima beffa del destino fu la cirrosi epatica che la colpì a tradimento, lei che beveva mezzo bicchiere di vino a pasto e ogni tanto il Fernet. Morì dunque arrabbiata come aveva vissuto, anche per la sofferenza che quel Dio con il quale aveva tanta confidenza le aveva scaraventato addosso immeritatamente. Quando non ne poté più di lottare, volle avere vicino solo il nonno, e si aggrappò alla sua mano.

Io avevo diciassette anni, e fu forse quella la prima volta in cui compresi con certezza che “niente sarebbe mai stato più come prima”: fu davvero così, e naturalmente negli anni si susseguirono altri eventi dolorosi ognuno dei quali segnò una sorta di linea di demarcazione, ponendo fine ad un periodo della mia esistenza.

Il nonno Berto non versò una lacrima e volle occuparsi di tutto: lo fece con efficienza e con apparente serenità, e non ne volle sapere di venire ad abitare con noi. Con il trascorrere dei mesi, ci accorgemmo che continuava a vivere il suo quotidiano come se lei ci fosse ancora: apparecchiava la tavola per due, lavava i suoi abiti, le parlava. Si chiuse in un rifiuto ostinato della realtà, finché un giorno non si sentì male e scoprimmo che aveva un tumore al cervello.

Morì con il sorriso sulle labbra, come aveva vissuto, sussurrando il nome della sua Tina.

“Sai, nonna, ti ho dato retta, e non ho mai scelto nulla per contrarietà o per ribellione, il che non mi ha messa al riparo dagli errori, ma non ho rimpianti né rancori. Ho finito per sposare un uomo che ti sarebbe piaciuto: solido e con un animo gentile. Non l’ho cercato ma quando l’ho incontrato ho capito che lo aspettavo. Ne saresti fiera, nonna”.

La foschia si è appesantita ed ora piove, cade un’acqua leggera e brumosa che bagna con delicatezza, mentre la luce si sta facendo opaca e morente e le ombre si insinuano tra angeli dolenti, ali spiegate nell’ultimo volo e porte socchiuse sul nulla.

Mi avvio lungo il viale, calpestando un soffice tappeto di foglie gialle e marroni, e all’improvviso noto due persone un poco più avanti, sul viale ormai deserto: un uomo con un soprabito grigio ed un cappello di feltro nero tiene a braccetto una signora con un lungo cappotto scuro, la chioma candida raccolta in una complicata acconciatura, la coda di una stola di pelliccia chiara che ondeggia da una spalla.

Voglio – devo – vederli da vicino e allora accelero, ma benché il loro passo sia molto più lento del mio la distanza che ci separa rimane la medesima, ora sto quasi correndo ma le due figure rimangono irraggiungibili. Le vedo dissolversi nell’umidità densa di questa pioggia leggera e silenziosa, mentre svanisce lentamente anche la scia di quella fragranza rotonda e dolce, come di cipria Coty.

https://youtu.be/hj0uHy4CIxQ

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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