Lo chiamano Fast fashion, il trucchetto degli inglesi per arricchirsi in pochissimo tempo | È micidiale: interi paesi finiscono in rovina

Fast fahion (Foto di Pexels da Pixabay) - pianoinclinato.it
C’è un gioco silenzioso che si consuma dietro le quinte delle vetrine luccicanti. Non fa rumore, ma lascia tracce ovunque.
Mentre noi ci affezioniamo a colori, sconti e novità settimanali, qualcun altro paga un prezzo che non compare sul cartellino.
In questa storia, la parola “moda” ha poco a che vedere con lo stile. È più simile a una coperta troppo corta, che copre solo chi può permetterselo.
E c’è chi resta scoperto, non per caso, ma perché qualcuno ha già preso tutto il resto.
Fast fashion: chi si arricchisce davvero
Ogni anno, tonnellate di indumenti fanno un viaggio che nessuno sponsorizza. Non sfilano in passerella, non finiscono nei negozi vintage. Si imbarcano in silenzio, stipati in container diretti verso destinazioni dove l’unica etichetta leggibile è quella del danno ambientale.
Nel 2024 il Regno Unito ha esportato in Ghana oltre 57.000 tonnellate di rifiuti tessili, stabilendo un record inquietante. E non si tratta di capi eleganti fuori moda: circa il 40% è inutilizzabile, troppo rovinato per essere riutilizzato o rivenduto. Questa la denuncia di ecoinventos.com, che dovrebbe scuotere le coscienze.
E chi invece finisce in rovina
Questi scarti, invece di sparire riappaiono nei posti più impensabili: zone umide protette, habitat di tartarughe marine e uccelli migratori, oggi trasformate in vere e proprie discariche illegali. Tra fango e mangrovie, si riconoscono marchi familiari: Zara, H&M, Primark, e anche icone britanniche come Marks & Spencer. Il problema non è solo estetico. È tossico. Il 90% dei rifiuti è composto da fibre sintetiche che rilasciano microplastiche e PFAS, sostanze chimiche che si accumulano negli ecosistemi e nei corpi umani, alterando ormoni, danneggiando gli organi e distruggendo la biodiversità. L’acqua cambia colore, l’aria si fa irrespirabile, le reti dei pescatori si impigliano più nei vestiti che nei pesci.
Questo disastro è stato documentato da Greenpeace Africa e Unearthed, che hanno messo nero su bianco quello che si sospettava da tempo: non è un incidente isolato, è un sistema. Un sistema che produce troppo, consuma in fretta e scarica le conseguenze altrove. E mentre si discute di “collezioni sostenibili” e “cotone organico”, interi ecosistemi collassano sotto il peso di un modello che arricchisce pochi e avvelena molti. La fast fashion è questo: capi a poco prezzo ma fruibili per poco tempo, da buttare via poche volte dopo averli indossati. E prodotti spesso con manodopera sottopagata. Ma una buona notizia c’è: cambiare si può. Basta voler vedere dove finiscono, davvero, i nostri vecchi vestiti. E acquistare altro.