“Non c’è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull’orlo di un precipizio, medita di gettarvisi (Edgar Allan Poe, “Il genio della perversione”)
A Milano si faceva un gran parlare dell’avviso di garanzia ricevuto da Craxi per ricettazione e violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti. Qualcuno incominciava a capire che quel 15 dicembre 1992 Ghino di Tacco (al poco lusinghiero accostamento di Scalfari su “Repubblica”, Craxi aveva reagito adottando beffardamente quel nome quale pseudonimo per la firma dei suoi corsivi su L’avanti) aveva imboccato una discesa dalla quale non sarebbe mai più risalito.
Ne sentivo discorrere nei numerosi bar che frequentavo in quelle fredde e vuote giornate, ma ero troppo concentrato sulla mia personale deriva per preoccuparmi di quella di qualcun altro, fosse pure così noto.
Figlio unico di una famiglia di onesti impiegati – mamma lavorava alle Poste e papà alla SIP – frequentavo il terzo anno di medicina quando, nel settembre del ’91, mio padre si ammalò di quello che con una caritatevole quanto ipocrita perifrasi viene definito “un male incurabile”. Cancro ai polmoni all’ultimo stadio e non aveva mai fumato: aveva 44 anni ed era un uomo prestante e robusto che non prendeva nemmeno il raffreddore. Nel giro di pochi mesi deperì al punto da non potersi alzare dal letto; incominciò il calvario dei cicli di chemioterapia e delle cure sperimentali ma il suo male reagiva gagliardamente mentre lui si spegneva, prostrato dalla sofferenza. Un anno dopo non c’era più traccia dell’uomo rassicurante ed ottimista, gentile ed arguto che conoscevo: al suo posto, un simulacro incattivito dal dolore e dall’assenza di qualsiasi speranza di sopravvivenza, che tuttavia non poteva morire perché quel maledetto cuore non cessava il suo inutile battito.
Abitavamo a San Siro, nelle case popolari di via Dolci e con mio padre che ormai entrava ed usciva dall’Ospedale di Niguarda il nostro appartamento aveva perduto quell’aria accogliente e linda che mi aveva sempre consentito di chiudere fuori dalla porta qualsiasi ansia o preoccupazione: ora pareva piuttosto un luogo provvisorio e poco ospitale dal quale si transitava di fretta e senza affezione alcuna e dove ristagnava perennemente un forte odore di disinfettante, che tentava con scarso successo di neutralizzare un sentore ben più sgradevole di aria stantia e di malattia. Quelle brave persone – amici e parenti – che all’inizio, quando i medici avevano previsto una fine imminente ci si erano strette attorno manifestando concretamente la loro solidarietà, col passare del tempo, stabilizzandosi una condizione disperata ma durevole al di là di ogni previsione si erano stufate e si erano allontanate a poco a poco. Mia madre dovette dare le dimissioni per dedicarsi interamente alla vana missione di alleviare la pena di mio padre, che pareva mantenuto in vita da una rabbia feroce che riversava anche su di noi, alla quale la mamma pareva essere del tutto indifferente ma che io finii col non sopportare più.
Non riuscivo più a studiare ed ero fermo da mesi con gli esami, la mia ragazza mi aveva mollato e io cercavo di stare il più possibile fuori di casa. Avevo anche preso a peregrinare per le notti milanesi trascinandomi di locale in locale e aggregandomi a compagnie piuttosto discutibili. Al termine di una di quelle nottate, tornando di primo mattino ancora mezzo impasticcato, non riuscii a non reagire ai rimproveri biascicati di mio padre. Osservai con ribrezzo la pelle grigiastra tesa sulle ossa del suo volto consunto dalla malattia e dallo sconforto, gli occhi infossati e cupi e le livide mani scheletriche e fui travolto dal rifiuto di tutto ciò. In quella grigia mattina di ottobre ci rovesciammo addosso parole terribili che ci portarono a varcare una sorta di linea di confine, dalla quale non fu possibile fare ritorno. Sotto lo sguardo attonito di mia madre infilai qualcosa alla rinfusa in una borsa da viaggio e me ne andai.
Incominciai a passare le giornate rintanato in qualche bar di periferia, facevo lunghi giri per la città in autobus o con la metro e giravo al largo dai luoghi che ero solito frequentare prima: perché ero entrato in un’altra vita e in una differente dimensione, dove il tempo non aveva più molta importanza ed anche lo spazio era casuale. Avevo qualche risparmio accumulato con lavoretti saltuari e molte ore di ripetizione ma non potevo certo permettermi a lungo un albergo (per quanto di infimo ordine) né tantomeno una casa e nemmeno pasti regolari. Mi recavo spesso la mattina presto in via Lombroso ai Mercati Generali alla ricerca di un incarico di facchinaggio e campavo alla giornata, avendo del tutto smarrito qualsiasi prospettiva per un futuro che non riuscivo più ad immaginare.
Mi sforzavo tuttavia di mantenere un minimo di decoro personale usufruendo dei bagni del Diurno Venezia, storica struttura di servizi pensati per i viaggiatori di passaggio a Milano che in passato comprendeva addirittura le Terme, poi chiuse a metà degli anni ‘80. Un anziano barbone incontrato ai bagni pubblici e con il quale avevo incominciato a parlare – perché nessuno è fatto per vivere in solitudine e alla fine, inconsapevolmente, si cerca un contatto umano di qualsiasi tipo – mi aveva aiutato a trovare una sistemazione per la notte.
Da quando l’anno precedente lo Zoo dei Giardini Pubblici di Porta Venezia era stato chiuso (gli spazi per gli animali erano effettivamente inadeguati e le proteste degli animalisti erano infine state accolte) l’area giaceva nell’incuria e nell’abbandono, mentre si discuteva su alcuni ambiziosi progetti di recupero che in realtà non si sarebbero realizzati per molti anni. Benché i cancelli fossero chiusi, pochi mesi dopo il trasferimento degli animali la recinzione era stata forzata in più punti, aprendo dei varchi di accesso: perché i disperati, sia per ragioni casuali o sciagurate, sono numerosi e le notti milanesi passate in strada possono essere molto difficili.
Il vecchio Luigino mi introdusse così in quello stesso Zoo popolato dei miei ricordi di bambino felice; i recinti un tempo abitati da animali esotici sui quali avevo immaginato storie mirabolanti e fantasiose erano ora occupati da derelitti di diverse etnie. Tra le bestie di un tempo e gli uomini che vedevo ora non c’era una sostanziale differenza, poiché entrambi erano irrimediabilmente in gabbia.
La prima volta fu come oltrepassare un ulteriore confine ed entrare – scendere – in un mondo primitivo e brutale collocato a pochi passi dal centro operoso ed elegante della città, il che non faceva che sottolinearne lo sradicamento.
“Fai attenzione, perché qui ci sono delle regole da rispettare. Non tentare di avvicinarti alle casette dei guardiani perché sono già occupate da slavi e romeni. C’è ancora qualche gabbia libera, entra il freddo ma almeno non ci piove dentro; cercati della paglia per farti un giaciglio, ce n’è ancora in giro. Cerchiamo di non lasciare in giro la spazzatura e di non dar fastidio, ma tanto ci cacceranno presto anche da qui. E ricordati di non lasciare mai in giro la tua roba: tra di noi in genere non si ruba, ma non si sa mai cosa può fare uno che non ha niente”.
In giro c’erano piccoli cumuli di immondizia e vetri rotti, dai recinti, dove potevo vedere ogni genere di miserabile suppellettile c’era gente che andava e veniva e tutto ciò confinava quel luogo in una dimensione surreale e deviata. Mi sistemai in una gabbia libera scardinando la porticina sul retro; il cartello affisso all’esterno recitava “Panthera pardus – NON AVVICINARSI – PERICOLOSO”. Pensai che fosse molto appropriato.
Nel ristretto perimetro si percepiva un afrore selvatico, come se la presenza della belva che aveva occupato quello spazio vi aleggiasse ancora. Guardando i vialetti dello Zoo oltre le sbarre, ebbi la consapevolezza di come dovesse essersi sentita per molti anni, e ne provai un immediato sgomento.
Seguendo il consiglio di Luigino, avevo prelevato un po’ di paglia dal recinto delle giraffe e la notte mi avvolgevo nella coperta che avevo portato con me e mi sistemavo sulla larga tavola di robusto legno affissa alla parete, dalla quale molti anni prima una pantera nera mi aveva osservato con altera indolenza. Di tutti i felini – i miei preferiti, insieme alle zebre – era quello che più mi affascinava: dietro il suo sguardo gelido ne intuivo la forza ma anche la dignità offesa. Che ironia della sorte, finire proprio nella sua gabbia: mi pareva la conferma dell’ineluttabilità della mia rovinosa caduta, che dunque doveva già essere scritta da qualche parte, molto tempo prima.
Il tempo trascorreva rarefatto e lento e Natale si stava avvicinando, le strade di Milano con le vetrine dei negozi addobbate ed invitanti erano festose e piene di gente che si salutava scambiandosi gli auguri. Avevo sempre freddo, i miei capelli erano diventati lunghi ed i miei pochi abiti, per quanto cercassi di tenerli puliti portandoli in lavanderia, erano sempre più logori. Il microcosmo malato dello zoo era opprimente e deprimente ma non riuscivo a pensare alla mia casa e alla mia famiglia poiché ogni ricordo si comprimeva e confluiva in quegli ultimi istanti in cui avevo rinnegato qualsiasi legame. Presi l’abitudine di stordirmi con del fumo nero e potente che compravo per pochi soldi da un ragazzo di Bombay che stava nella gabbia dell’orso bruno: bruciando emanava un sentore dolce e greve ed era l’unica cosa in grado di mitigare la disperazione che mi coglieva ogni sera, quando mi raggomitolavo dietro quelle sbarre con l’unica compagnia dei miei fantasmi.
La sera dell’antivigilia faceva particolarmente freddo, tornai al mio rifugio dopo una giornata passata a caricare e scaricare casse di frutta e verdura ai Mercati Generali ed ero esausto e dolorante. Passai dall’indiano che uscì svelto dal suo rifugio e mi passò il solito pacchettino; avrei mangiato i due panini che avevo comprato in un bar, bevuto una birra poi finalmente avrei preso il volo, almeno per qualche ora, e sarei infine precipitato in un sonno pesante e senza sogni.
Me ne stavo raggomitolato sulla panca, avvolto nella coperta e in una nuvola di fumo dolciastro. Cominciavo appena a scivolare dolcemente in uno stato di coscienza sospeso e confortante, quando fui colpito da un odore molto più forte: era un fetore acre e corposo che mi fece pensare che in quella gabbia potessi non essere solo. Mi sforzai di reagire al torpore sul quale stavo galleggiando e mi misi a sedere sulla panca, scrutando il buio intorno a me.
“C’è qualcuno qui? …chi c’è?”
Udii distintamente un leggero fruscio dal fondo di quell’angusto ricovero, più o meno dove c’era il tronco su cui la pantera si era affilata per anni le unghie e che portava ancora i segni degli artigli. Dall’oscurità si levò una voce femminile, bassa e roca:
“certo che c’è qualcuno. Sono qui da molto prima che tu arrivassi”.
La porticina sul retro era scardinata e quando uscivo potevo solo accostarla, quel giorno ero rientrato che era già buio ma non mi spiegavo come non mi fossi accorto della presenza di un’altra persona, considerata la ristrettezza di quell’ambiente.
“Bene, qui non puoi stare perché ci sono già io. Domani ti cercherai un altro posto”,
dissi cercando di assumere un tono deciso, ma la mia mente era come frammentata, come un puzzle con i pezzi sparpagliati per cui molte cose sfuggivano alla mia comprensione.
“Sei tu quello che decide. Ma è davvero quello che vuoi?”,
fu la risposta sibillina.
Avevo spento con il tallone quel che restava del fumo, quella presenza mi infastidiva e non mi fidavo, per cui volevo tornare lucido in fretta. Mi pareva di scorgere una massa scura dai contorni indefiniti, che più o meno al centro si alzava e si abbassava ritmicamente, come per un respiro affannoso.
Poi quella cosa si mosse, all’improvviso, allungandosi in un balzo accompagnato da un ringhio sommesso.
Ero certo di aver visto due occhi gialli brillare nel buio, lottavo per non affondare di nuovo nell’oblio ma sentivo un peso schiacciarmi il petto e un alito caldo e fetido sulla faccia, il mio cuore batteva furioso all’unisono con un altro ed ero terrorizzato
(come quando ero piccolo e Lord Tennyson, l’enorme gatto nero della nonna, di notte veniva a dormire sul mio petto ed io mi svegliavo con lo stesso senso di oppressione e potevo sentire il battito veloce del suo cuore – perché i gatti hanno una frequenza cardiaca altissima, sapete? – che mi procurava un’irragionevole ansia).
Continuavo a ripetermi
“devo svegliarmi, devo uscire da questa allucinazione, perché mi sto immaginando tutto e quel maledetto indiano chissà che porcheria mi ha rifilato”,
ma ad un tratto ebbi un’idea migliore:
“…ora mi immagino di liberarmi e di fuggire…”
Incominciai ad agitare convulsamente braccia e gambe per sottrarmi a quel peso soffocante ed infine caddi dalla panca sul pavimento lercio, mentre il puzzo di animale selvatico diventava insopportabile. Riuscii a rotolare fino alla porticina e una volta fuori dalla gabbia incominciai a correre verso l’uscita di via Palestro, ma mi sembrava di andare al rallentatore, come se cercassi di correre sott’acqua.
Mentre correvo, la scena del litigio con mio padre si compose nella mia mente con feroce nitidezza ed ebbi finalmente vergogna di me stesso, del mio egoismo e della mia viltà.
Saltai fuori dallo squarcio nella recinzione e continuai a correre, mi fermai solo quando fui in Piazza Cavour. Senza fiato e con le gambe molli, mi accasciai su una panchina all’ingresso dei Giardini Pubblici e attesi l’alba tremando per il freddo e per la paura. Il mattino dopo, alla luce di un pallido sole che rischiarava quella vigilia di Natale, mi accorsi che il mio eschimo sul davanti presentava lacerazioni che apparivano come potenti unghiate. Ebbi poi modo di constatare che la medesima sorte era toccata alla mia borsa da viaggio, che era rimasta nella gabbia ed al suo contenuto.
Scesi al diurno Venezia e mi ripulii come potei. Poi, presi la strada di casa.
Mio padre morì due giorni dopo, aggrappato alla mia mano che non aveva più lasciato da quando mi aveva scorto accanto al suo letto e il suo volto si era rischiarato in un faticoso, tenerissimo sorriso.
Qualche mese dopo, i disperati dello Zoo furono evacuati a seguito delle proteste di molti cittadini della zona e l’area fu bonificata.
Oggi sono medico, ho voluto specializzarmi in medicina d’emergenza e insieme a mia moglie, che è chirurgo, collaboro con Medici senza Frontiere ma presto anche opera di volontariato nei ricoveri per i senza tetto.
Forse è per un bisogno di espiazione, perché non mi sono ancora del tutto perdonato per non aver saputo affrontare una realtà dolorosa ed avere abbandonato la mia famiglia in un momento tanto difficile. In quei giorni mi sono reso conto che è più facile di quel che si possa pensare perdere il controllo della propria esistenza e deragliare, e smarrirsi nella propria inadeguatezza ad accettare sconfitte e rovesci. Vi sono molte gabbie e molte belve che attendono nell’ombra, anche in una città piena di luci come Milano: io lo so bene.
https://youtu.be/SFsHSHE-iJQ