La cultura del declino

cultura declino

Il destino non è scritto, ma negli scritti potrebbe esserci il nostro destino. Letteralmente: ci siamo scritti il nostro destino, come direbbe qualche guru. Più precisamente: in ciò che abbiamo scritto (e in come abbiamo scritto) sembra esserci un indizio importante sulla crescita economica.

La crescita economica, come sappiamo, ha travolto all’improvviso l’umanità con la Rivoluzione Industriale: l’applicazione dell’ingegno ha fatto uscire la produzione economica da un plateau secolare, ha valorizzato il capitale umano e ha fatto impennare il tenore di vita.

Ma perché è successo tutto questo? Come è successo? Possiamo, risalendo la Storia, arrivare alla ricetta per creare la crescita? Il libro di cui ho già parlato diverse volte, Il viaggio dell’Umanità di Oded Galor, affronta l’argomento in diversi modi, evidenziando tra l’altro come le idee siano emerse come risultato delle crescenti interazioni tra popolazioni in crescita e in via di densificazione, finendo per rendere errate le teorie di Malthus.

Ma un’altra teoria viene da Joel Mokyr, che sostiene che la cultura sia stata fondamentale (qui il suo ottimo libro “Una cultura della crescita”): grandi pensatori come Francis Bacon e Isaac Newton si sono fatti promotori di una visione del mondo orientata al progresso, incentrata sull’idea che la scienza e la sperimentazione fossero fondamentali per aumentare il benessere umano, contaminando il senso comune e spingendo per il progresso.

Per quanto accattivante, fino a poco tempo fa quella di Mokyr sembrava solo una teoria; ma un affascinante lavoro pubblicato a dicembre scorso fornisce un test empirico della tesi della “cultura della crescita”: l’orientamento culturale verso il progresso ha contribuito fattivamente a concretizzare l'”Illuminismo industriale” e, in seguito, la Rivoluzione Industriale.

I ricercatori hanno analizzato il contenuto di oltre 173mila libri pubblicati tra il 1500 e il 1900, hanno categorizzato i termini usati nelle categorie scienza, religione e economia politica ponderando come la frequenza di utilizzo dei diversi termini sia cambiata nel tempo, allo scopo di monitorare l’andamento dei temi culturali di ogni epoca.

Grazie anche alle traversie di Giordano Bruno e di Galileo, verso la metà del XVII secolo si è cominciato a divaricare il linguaggio della scienza da quello della religione. Le opere scientifiche che si rivolgevano a un pubblico più ampio, collegando la scienza all’economia politica, erano le più orientate alla promozione del progresso.

Prendendo due Paesi che prima della rivoluzione industriale erano similmente prosperi, ma che poi si sono differenziati (Gran Bretagna e Spagna) si vede come la Gran Bretagna ha adottato una cultura che utilizza la scienza e la sperimentazione per aumentare il benessere. La Spagna è andata nella direzione opposta e le traiettorie economiche dei due Paesi hanno iniziato a divergere.

L’adozione da parte della Gran Bretagna di una cultura del progresso, della scienza e della sperimentazione fu seguita dall’industrializzazione. La Spagna ha adottato una cultura simile solo 200 anni dopo, e l’industrializzazione, parimenti è giunta 200 anni dopo.

L’aspetto importante è che il cambiamento culturale in Gran Bretagna ha preceduto, e non seguito, la sua accelerazione economica. Lo stesso è accaduto in Spagna.

Il linguaggio che collettivamente usiamo quindi non si limita a descrivere il mondo com’è, ma descrive anche il mondo come potrebbe essere. E le pubblicazioni che parlano di progredire verso un futuro migliore aumentano la probabilità che il futuro sia effettivamente migliore, perché stimolano atteggiamenti costruttivi. Allo stesso modo divulgare la paura di disastri e di sviluppi negativi, “produce” un mondo preoccupato, che preferisce la conservazione dell’esistente e meno orientato allo sviluppo.

Ed eccoci ai giorni nostri: la cultura del progresso ha fatto le fortune dell’Occidente, ma negli ultimi decenni in Occidente si assiste a un cambiamento radicale: la cultura della cautela, della preoccupazione e dell’avversione al rischio ha preso il sopravvento sui valori del progresso e del miglioramento.

Ad esempio, di domenica in Germania i negozi sono chiusi, la linea di supermercati Tegut è però automatizzata, non ha bisogno di chiedere ad alcun dipendente di lavorare la domenica e permette ai consumatori di comprare vari tipi di prodotti 24ore al giorno, sette giorni a settimana. Un tribunale ha vietato questa pratica.

Il principio, moralistico, sarebbe che la domenica va trascorsa a casa, in famiglia. Ma non essendoci lavoratori coinvolti, questa forma di declinazione del principio sembra orientata solo a togliere una scelta alle persone. Chi può stabilire a priori i bisogni di ciascuno? Se uno ha bisogno può andare alla macchinetta e comprare i wurstel, se non ne ha bisogno non ci va. Nessuno lo obbliga a trascorrere la domenica lontano dalla famiglia, di certo il fatto che ci sia un distributore automatico funzionante pare una minaccia risibile.

Ma questa è l’avversità all’automazione che in varie forme risorge periodicamente, l’accelerazione tecnologica recente ha alimentato svariate altre forme di tecno-fobia. Anche la Artificial Intelligence, pur gravida di promesse di miglioramento dei processi produttivi, per molti rappresenta una minaccia esistenziale per l’Umanità.

Da diversi anni uno dei modi considerati per il miglioramento delle condizioni umane da alcuni autorevoli studiosi è la decrescita. L’economista Serge Latouche ci ha costruito sopra la propria fama. Secondo alcuni è “immorale avere figli in un mondo che brucia e va verso l’autodistruzione”. Suona strano, se si pensa al problema dell’invecchiamento della popolazione di cui abbiamo già parlato.

E’ il confronto instancabile, una sfida ideologica, tra chi pensa che una crescita infinita sia incompatibile con un pianeta dalle risorse limitate e chi ricorda che non sono limitati i modi in cui possono essere utilizzate le risorse e che il capitale umano ha dimostrato di essere una risorsa di innovazione che è sempre stato errato sottovalutare.

Il progressivo slittamento verso la paura e il conservatorismo, in un certo senso lo abbiamo visto anche nelle modalità di gestione della recente pandemia, sembra il segnale di uno spostamento del pensiero verso la cautela, e di uno scetticismo nei confronti della tecnologia, sempre più vista come minaccia, con il sempre più frequente ricorso a logiche fallaci, a “somma zero”, nonostante la Storia abbia mostrato quanto l’innovazione tecnologica sia una dinamica a risultato netto positivo.

Questo slittamento, inquadrato con quello che emerge dalle riflessioni esposte sopra, getta un’ombra sul futuro.

Oltre a ostacolare il progresso, queste opinioni alimentano il populismo, il nativismo e vengono sfruttate per dar forza alle teorie cospirazioniste. Quando si parla di crescita economica si tende a ridurre tutto al numeretto del PIL, che rappresenta una sintesi veloce, ma il progresso implica anche la medicina moderna, vite più lunghe e più sane, disponibilità alimentari, riduzione drastica della povertà.

Il libro più chiaro su questo è Factfulness di Ian Rosling, disponibile anche in italiano. L’ho letto nel 2018 e tuttora ne ho ben impressi in mente gli esempi empirici, basati sui dati, di quanto il mondo sia migliorato senza che ce ne siamo resi conto. Le sfide che il mondo moderno deve affrontare potranno essere risolte solo se ci si concentrerà di più sul progresso, non di meno.

Una società che denigra il progresso finisce velocemente per assomigliare a una società che non ha accesso al progresso, ovvero quelle del mondo preindustriale, che era caratterizzato da conflitti di massa, disuguaglianze inaccettabili, sfruttamento delle persone e una diffusa sofferenza.

Se vogliamo evitare un regresso, i sostenitori dell’innovazione, della crescita e dell’abbondanza devono vincere la loro sfida ideologica.

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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

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