Demografia tiranna

demografia tiranna

Lo sviluppo demografico dell’homo sapiens ha avuto una accelerazione sconcertante dalla rivoluzione industriale in poi: dopo 200mila anni di permanenza sulla Terra, c’erano appena 500 milioni di esseri umani nel 1800; oggi siamo più di 8 miliardi, la proliferazione della specie homo sapiens nell’era moderna è stata un’impresa sorprendente.

Come forse traspare dalla mia attività online recente, complice anche la lettura del (secondo me bellissimo) libro di Oded Galor Il viaggio dell’umanità, il tema demografico (e le ragioni per cui le osservazioni di Malthus sono state ribaltate dallo sviluppo degli eventi) sta catturando sempre di più la mia attenzione e le mie riflessioni. Voglio provare a usare una chiave non convenzionale: la letteratura sci-fi.

Una delle serie TV che mi è piaciuta di più negli ultimi anni, The Expanse, racconta di come l’Umanità abbia proliferato e colonizzato il sistema solare. Affronta il tema della migrazione e dell’indipendenza delle colonie, dell’orgoglio “nazionale” nel senso del territorio natìo, in contrapposizione alle popolazioni degli altri territori. L’ambientazione sci-fi consente all’autore dei parallelismi stimolanti per una riflessione sulla natura umana.

Ne “il problema dei tre corpi”, affascinante romanzo di Liu Cixin del 2017, invece, l’Umanità si prepara ad una terrificante invasione. Come recita il trailer della trasposizione televisiva (una serie Netflix che a giorni sarà disponibile):

“Stanno arrivando, e non c’è nulla che possiate fare per fermarli”.

In Oryx e Crake di Margaret Atwood, un’ingegneria genetica ideata per la riduzione della popolazione, provoca a una peste globale che porta l’Umanità all’estinzione.

Tornando alle letture della mia adolescenza, nel ciclo della Fondazione di Isaac Asimov, l’Umanità ha stabilito un vasto impero multiplanetario, con proiezioni di popolazione umana su proporzioni che oggi appaiono enormi e allora erano, per l’appunto, fantascienza:

“Nella Galassia c’erano quasi venticinque milioni di pianeti abitati, e la popolazione della capitale imperiale superava di gran lunga i quaranta miliardi”.

D’altra parte, quando Asimov nacque (1920) la popolazione mondiale era di circa 1,9 miliardi di persone. Quando pubblicò Fondazione, era di 2,64 miliardi. Alla sua morte (1992) era di 5,5 miliardi; quasi triplicata nel corso della vita di una persona.

L’Umanità ha passato molto tempo a preoccuparsi della sovrappopolazione e della catastrofe che provocherebbe, la conclusione a cui molti sono giunti è che solo il controllo della popolazione avrebbe potuto preservare la “qualità della vita”. Limitare la crescita demografica è diventato oggetto di studio.

Le politiche demografiche in India (sterilizzazione forzata di massa per le donne povere) hanno fatto disastri, gli incentivi sociali hanno poi prodotto mostruosi eccidi di bambine, così come la politica del figlio unico in Cina, che fu una risposta sgangherata (o quantomeno obsoleta-malthusiana) al cattivo funzionamento del “Grande Balzo in Avanti” di Mao che provocò una carestia da 50 milioni di morti: “abbiamo poco cibo e tante persone? Facciamo meno persone”. Certamente ha contribuito l’impossibilità di mettere in discussione le politiche centrali, e tantomeno la bontà delle idee di Mao.

Sebbene sia stata promossa come un modo per far uscire le persone dalla povertà – forse anche per “salvare la Terra” – la pianificazione familiare è diventata un mezzo a disposizione del potere per pianificare le famiglie degli altri. La morale cattolica non si rivela di grande aiuto: è più sentita nelle economie meno sviluppate, dove il divieto di aborto e contraccezione è spesso osservato, mentre il tasso di fertilità è più basso nella cattolica Italia che in UK dove vige una morale protestante.

Questi sforzi di controllo della popolazione sono stati un completo fallimento: le stime del 1945 erano che la popolazione mondiale sarebbe stata di 3,3 miliardi nel 2000. In realtà, all’inizio del nuovo millennio gli esseri umani erano quasi il doppio: 6,1 miliardi.

Nella sua proiezione più recente, l’UNPD (United Nations Development Programme) stima che la popolazione globale raggiungerà i 12 miliardi entro la fine del secolo; la Commissione europea prevede che la popolazione globale raggiungerà il picco di 9,8 miliardi nel 2070; invece l’Institute for Health Metrics and Evaluation, un’organizzazione di ricerca indipendente, vede il picco a 9,7 miliardi nel 2064.

I demografi, insomma, pensano che raggiungeremo il picco di popolazione umana in questo secolo. Questo perché il problema del nostro tempo non è la sovrappopolazione, ma il fatto che in tutto il mondo il tasso di fertilità è in calo strutturale. Il futuro della civiltà è a rischio e per le ragioni opposte a cui pensava Malthus.

Più della metà del previsto aumento della popolazione globale da qui al 2050 dovrebbe concentrarsi in soli otto Paesi:

  1. Repubblica Democratica del Congo
  2. Egitto
  3. Etiopia
  4. India
  5. Nigeria
  6. Pakistan
  7. Filippine
  8. Tanzania

Questo perché quasi la metà della popolazione globale vive in un Paese o in un’area in cui il tasso di fertilità è inferiore a 2,1 nascite per donna (il cosiddetto “tasso di sostituzione”).

Questa enorme transizione demografica è il più forte megatrend dell’economia globale. E, a dispetto delle paure alimentate dalle destre sovraniste occidentali, il mondo musulmano non è esente dal problema: in Iran la fertilità è 1,5 ed è scesa sotto il 2,0 già nel 2001. Anche nei Paesi dell’Africa subsahariana la fertilità scenderà a 1,8 nel 2100 (secondo le stime UNPD).

Il disagio economico prodotto da questa mutazione demografica produce domanda di cambiamento politico, una domanda che -non è certo la prima volta nella Storia- va nella direzione opposta a quella che sarebbe razionale:

Facendo leva su nazionalismo e razzismo viene alimentata la xenofobia che spinge a chiedere di lottare contro l’immigrazione, mentre facendo leva sulla morale religiosa viene alimentata la voce di chi condanna il progresso economico, l’emancipazione femminile, il diritto all’aborto, l’eutanasia e il divorzio (ad esempio questo articolo sottolinea che la fertilità diminuisce con l’aumento dell’istruzione e dell’occupazione femminile, come in una distopia di Margaret Atwood).

Anche i cambiamenti culturali giocano un ruolo importante: circa un terzo del calo della fertilità negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2016 è dovuto alla diminuzione delle nascite indesiderate, la disinvoltura sessuale lascia sempre più il posto a giovani socialmente isolati, anche senza arrivare agli eccessi degli Hikikomori, il General Social Survey ha pubblicato una analisi che ha rivelato tassi più elevati di inattività sessuale tra i giovani tra i 20 e i 24 anni rispetto alle generazioni nate negli anni Settanta e Ottanta. Tra il 2000-02 e il 2016-18, la percentuale di uomini tra i 18 e i 24 anni che hanno dichiarato di non aver avuto alcuna attività sessuale negli ultimi 12 mesi è passata dal 19% al 31%.

Se da questa problematica pensassimo di uscirne trovando il colpevole nei videogiochi, negli smartphone o nel miglioramento dell’istruzione che ha dato alle donne una maggiore autonomia nelle relazioni e una migliore comprensione della contraccezione, il risultato sarebbe di regredire ad un nuovo oscurantismo che dimentica quale sia la forza propulsiva che ha generato il nostro benessere: lo sviluppo del capitale umano.

Analisi indirizzate evidenziano come “Le donne ritardano sempre più la maternità per dedicarsi alla carriera, il costo opportunità di avere figli aumenta man mano che i salari delle donne si avvicinano a quelli dei loro partner maschili”. Le donne costituiscono circa metà della popolazione mondiale, come si possa pensare di reprimere le loro ambizioni, spazi e potenzialità credendo di fare un bene sociale resterà per me sempre un mistero.

Il progresso è quel processo che ha ridotto l’uso dei bambini come fonte di lavoro non qualificato. Charles Dickens oggi dovrebbe emigrare nel sud-est asiatico per non trovarsi bloccato davanti ad un foglio bianco: man mano che i Paesi si sviluppano economicamente, le famiglie investono di più nei loro figli, fornendo loro un’istruzione migliore, ogni singolo bambino nasce con crescenti possibilità.

In realtà la relazione tra la fertilità e l’istruzione delle donne negli Stati Uniti è a forma di V: le donne con un’istruzione di livello superiore sono in grado di avere più figli e di lavorare più ore, molte delle donne professioniste di maggior successo hanno più di due figli.

Molte donne vorrebbero avere più figli. Nei Paesi a bassa fertilità, secondo uno studio del 2019 per il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, c’è “un ampio divario tra le aspirazioni di fertilità in età più giovane e la fertilità raggiunta in età più avanzata, il che indica che molte donne, uomini e coppie incontrano ostacoli nel realizzare i loro piani di fertilità”.

Questi ostacoli sono, evidentemente, economici. Più sotto provo a elencare idee per ridurre questi ostacoli, che vanno aggirati anziché affrontati direttamente: le politiche di natalità hanno quasi sempre fallito. L’URSS favoriva le relazioni extraconiugali sperando di aumentare la quota di figli illegittimi, Mussolini con la sua “battaglia per le nascite” incontrò la sconfitta come in quelle militari.

Il calo della fertilità produce una società in cui le scuole si svuotano e le case di riposo si riempiono, bassa crescita economica in una società che si ingrigisce.

Inoltre, i popoli con la più alta fertilità vivono in luoghi poveri, che i cambiamenti climatici e i conflitti armati stanno rendendo ancora meno attraenti. Ne seguono forti ondate migratorie da paesi prevalentemente musulmani. Questo preoccupa molti dei popoli per lo più bianchi e per lo più cristiani che sono stati dominanti a livello globale e temono la “sostituzione etnica”.

Tutto ciò rafforza la domanda politica di destra nel mondo sviluppato (il ciclo standard di posizionamento politico è una gioventù progressista e un’anzianità conservatrice, e gli anziani sono in crescita), il rischio di tensioni geopolitiche su questioni di confine, e di una riduzione significativa della sensibilità al cambiamento climatico.

Guardando alle cose con razionalità, l’immigrazione è la soluzione più semplice al problema del calo della fertilità. Nei Paesi ad alto reddito tra il 2000 e il 2020, il contributo della migrazione supera il saldo delle nascite rispetto ai decessi. La grande economia in maggior crisi è la Cina, e guarda un po’, la crisi dipende da un problema demografico: la grande crisi immobiliare cinese si sintetizza in una foto di condomini vuoti. E le prospettive sono inquietanti: in Cina la popolazione è destinata a passare dai 1,4 miliardi di oggi a 500 milioni (di cui solo 210 milioni in età lavorativa) nel 2100.

L’impatto della crisi demografica mondiale è devastante: se, raggiunto il picco di popolazione, il tasso di fertilità mondiale fosse lo stesso degli Stati Uniti di oggi, la popolazione globale scenderebbe dal picco di circa 10 miliardi a meno di 2 miliardi in circa 300 anni (10 generazioni). E il calo continuerebbe finché le dimensioni delle famiglie non riprenderanno a crescere.

E quindi che si fa?

Non ho la presunzione di avere ricette pronte e inattaccabili, ma qualche accorgimento è senza dubbio possibile attuarlo. Il problema delle politiche di natalità è che cercano di “curare” o vietare l’omosessualità e di indurre (o, raramente, imporre) far figli a chi magari non vuole; invece il punto è creare le condizioni affinché chi vorrebbe ma non riesce, possa farlo.

Occorre tornare a “pensare in grande”; con questa espressione intendo un cambio di atteggiamento che ci consenta di uscire da logiche di cortile, timori per la preservazione etnica, e da modelli che vedono il trasferimento dell’intero problema su una parte della popolazione (le donne) limitando le loro libertà, la loro autonomia e le loro possibilità.

L’immigrazione non va solo gestita, va anche incentivata. Risollevare il tasso di fertilità passa dalla creazione di benessere, svincolarlo dal percorso individuale di carriera, e garantire risorse che consentano di ammortizzare l’impatto economico di avere figli.

Servono politiche per la crescita: più alloggi e trasporti migliori, perché prezzi inaccessibili per le case comportano meno crescita e favoriscono i lunghi spostamenti, gli ingorghi e lo smog. Ci serve un potenziamento dell’istruzione, perché sia più diffusa ed accessibile (potenziando il capitale umano e la produttività). Non va dimenticato che tutto questo si lega profondamente alla lotta al cambiamento climatico, un altro motivo per cui la gente fuggirà dall’Africa e un altro motivo per cui i giovani in Europa dicono che avranno pochi o nessun figlio.

L’invecchiamento della popolazione (che contribuisce ad aumentare il costo della previdenza pubblica) “collabora” con l’erosione del potere d’acquisto causato dall’inflazione nell’impoverire i cittadini, un modo per affrontarli insieme -specialmente in Europa- è di trasformare i risparmiatori europei in investitori.

Le abitudini di risparmio degli europei aumentano le disuguaglianze, li mantengono più poveri di quanto sarebbero altrimenti e rendono le imprese affamate di capitale proprio, perché i risparmiatori europei tengono il 34% del loro patrimonio in liquidità (14mila miliardi€) fermi in contanti e depositi bancari, secondo un rapporto pubblicato dalla European Fund and Asset Management Association.

Molti cittadini patiscono ancora di scarsissima educazione finanziaria e considerano l’investimento come un gioco d’azzardo. La locuzione “giocare in Borsa” è sempre molto utilizzata.

I risparmi accumulati dai cittadini europei, anche solo investiti in obbligazioni e titoli di Stato, potrebbero finalmente fruttare un interesse decente dopo anni di redditività zero. Invece la maggior parte degli europei continua a tenere una quantità sproporzionata di denaro nei depositi bancari.

La partecipazione dei privati ai mercati dei capitali in Europa è sorprendentemente bassa. Solo il 13% delle famiglie dell’area dell’euro possiede fondi comuni di investimento, mentre l’11% possiede direttamente azioni quotate in borsa, secondo i dati dell’indagine della Banca Centrale Europea.

Le conseguenze finanziarie sono evidenti: il valore delle azioni, dei fondi di investimento, delle obbligazioni, delle assicurazioni sulla vita e dei fondi pensione posseduti dalle famiglie ammonta solo a circa il 90% del prodotto interno lordo nell’UE, rispetto a oltre il 310% del PIL negli Stati Uniti e al 182% nel Regno Unito, secondo i dati raccolti dall’Associazione per i mercati finanziari in Europa per la prima metà del 2023.

Perché è importante? Se le famiglie dell’Unione Europea aumentassero la loro esposizione sulle azioni di un modesto 5%, potrebbero sbloccare 1.800 miliardi € di capitale per investimenti produttivi, ha calcolato lo scorso anno il think tank New Financial, la circolazione del capitale è un ingrediente sempre più cruciale per la crescita.

Ciò potrebbe anche contribuire a ridurre le disuguaglianze: secondo la BCE, oltre l’80% del valore delle azioni quotate nell’area dell’euro è di proprietà del 10% più ricco delle famiglie, mentre il 50% inferiore ne possiede solo il 2%.

Gli americani detengono solo il 13% delle loro attività finanziarie in contanti, e circa la metà in azioni e fondi di investimento. Più di un quinto delle famiglie statunitensi detiene direttamente azioni e il totale sale al 58% se si includono le partecipazioni indirette, come gli accantonamenti pensionistici.

Queste differenze di comportamento (di origine culturale) si riflettono sul costo del capitale e di conseguenza sull’impulso per la crescita.

Ci serve più premio all’onestà: il costo di eventi in cui alla voce “investimento” sono state piazzate massivamente fregature ai risparmiatori (il cosiddetto “risparmio tradito”) è enormemente maggiore del mero calcolo sul singolo evento.

E nemmeno aiuta il fatto che diversi paesi europei abbiano debiti pubblici molto corposi, che impongono di “sequestrare” quote rilevanti di risparmi per garantire la sottoscrizione e (vedi il caso delle emissioni “speciali” di BTP) si ritrovino a invocare il patriottismo, scivolando in messaggi diseducativi.

L’avversione degli europei per le azioni non è omogenea: nei Paesi nordici, le socialdemocrazie spesso prese ad esempio dai sostenitori del welfare largo, anche a costo di farlo a debito, i risparmiatori detengono una quota relativamente bassa della loro ricchezza finanziaria in contanti e hanno una proprietà relativamente alta di azioni quotate e fondi pensione.

Convincere le persone a investire è dunque uno degli elementi necessari a evitare il disastro: aiuta la crescita e facilita il reperimento di risorse che previene il calo di fertilità.

Qualche esempio virtuoso nel mondo:

  • La Svezia ha riformato la previdenza pubblica: il 2,5% dei salari viene investito in un fondo azionario. Il rendimento medio annuo è stato del 9,8% tra il 2000 e il 2022 (lievemente meglio del premio fedeltà da zerovirgola dopo 6 anni sui BTP Valore).
  • In UK dal 2019 è imposto un contributo minimo dell’8% della retribuzione; l’adesione ai fondi pensione è aumentata di dieci volte tra il 2011 e il 2019.
  • In Svezia c’è Investeringssparkonto, in Italia ci sono i PIR (Piani Individuali di Risparmio), in Francia i PEA e in UK ci sono gli Individual Savings Accounts idee imperfette ma che facilitano l’arrivo del capitale verso l’investimento sulle imprese.

Per ridurre le disuguaglianze, si potrebbe pensare a

  • imposte di capital gain progressive legate anche alla durata dell’investimento (tassare più duramente la speculazione di breve termine incentiva l’avvicinamento a strumenti di risparmio per l’investimento di lungo termine)
  • lanciare fondi azionari finanziati dai contribuenti e destinati ai neonati, per farli partecipare alla magia della capitalizzazione e permettere anche alle famiglie più povere di farsi un’idea del mercato azionario.

Se avete altre letture sci-fi da suggerire, accetto volentieri consigli, vai a sapere dove ti porta il ragionamento quando si stimola la fantasia.

 

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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

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