Questa è la storia di Nino, l’operaio che raccolse l’eredità di Gramsci

Quando mi consegnò il telegramma della convocazione in fabbrica, dalla gioia irrefrenabile abbracciai il postino che si rallegrò. Avevo inviato una lettera all’ufficio del personale, l’avevo scritta a mano su un foglio uso carta bollo, quella dai margini definiti ed invalicabili. Mi ero diplomato frequentando a domicilio i corsi della Scuola Radio Elettra di Torino: ero molto orgoglioso della mia calligrafia rispettosa e precisa, così la imbucai fiducioso di fare bella figura. E’ così fu.
Il capo del personale, il giorno del colloquio di lavoro, si vantò con me delle sue qualità di provetto grafologo e di aver scoperto la mia attitudine docile ed obbediente “da materiale per ricambi” o per dirla come lui ” di uno che non rompe i coglioni”
Mi sembrò un discorso umiliante dallo sguardo insolente. Dentro di me la rivoluzione era appena cominciata.

Orgoglioso di indossare la tuta blu ed in mano il porta pranzo con panino e le polpette al sugo, feci il mio primo ingresso in fabbrica timbrando l’agognato cartellino. Ore 7:00 e nessuna anima intorno. Un cartello catturò la mia attenzione: Assemblea permanente. Chi entra sarà perquisito.

Proseguii verso il capannone centrale cercando il reparto assegnatomi, non potevo presentarmi in ritardo il primo giorno di lavoro. In un silenzio assordante di macchinari spenti, ritornando indietro verso la portineria, mi rivolsi ad un gruppo di operai che discutevano animatamente. “Sei quello nuovo? Vieni con noi, oggi non si lavora, c’è consiglio di fabbrica”
Timidamente mi affacciai incuriosito al capannone 5 e vidi una folla immensa di operai assieparsi verso un palco improvvisato da dove il crepitio di un megafono annunciava il discorso del comitato. Condizione operaia, lotta di classe, piattaforma rivendicativa: parole e frasi dal significato sconosciuto rimbombavano nella mia testa poi applausi scroscianti mi scossero da quel torpore riportandomi alla realtà.

Quando rientrai a casa quella sera, vidi mia madre ancora china sulla macchina da cucire, intenta a completare il suo lavoro pagato a nero; provai un senso di sconfitta e al tempo stesso di ribellione: quanto avrei voluto liberarla da quella schiavitù e dalle catene del cottimo!
Misi in tasca quel quaderno e proseguii la marcia. Più tardi sul tram lo aprii, ed incuriosito cominciai a leggere:
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo
Fu uno schiaffo in piena faccia. Cosa stavo facendo di concreto per il mio sindacato, dove erano le idee, i programmi, le azioni concrete? Capii subito che studiare era prioritario e così mi iscrissi all’università. Fu un periodo difficile, fabbrica e studio, studio e fabbrica, mia madre sempre più stanca, casa invasa da pile di volantini, manifesti, bandiere rosse e tomi di economia politica.

Quando consegui la laurea, vennero i compagni a fare festa, e tra le lacrime ed un cordiale, mi elessero rappresentante di fabbrica. L’ascesa politica era avviata ma mancava ancora un tassello alla mia formazione, il più difficile da conquistare: il coraggio di testimoniare
Negli anni di piombo, il coraggio non era unirsi alla lotta armata ma partecipare pacificamente ed attivamente alla costruzione di un futuro migliore, comprendere le ragioni del disagio sociale e trasferirle al mondo politico ed istituzionale mettendoci il cuore e la faccia.

E fu allora che conobbi Paola, brillante esponente del Movimento Studentesco durante l’occupazione, in quel memorabile concerto all’ateneo.

Mi innamorai perdutamente. Le dissi Ti amo quel giorno di maggio di tanti anni fa che lei correva correva ed ancora corre insieme a me

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“E’ una bella giornata di maggio, e persino Milano profuma di
primavera e promette estate.
Il corteo si snoda con moto serpentino lungo via Dante, confluirà
in Piazza Stefano, alla Statale.
In testa Mario Capanna con qualche fedelissimo.
Dietro, noi studenti, e lo slogan contro il Ministro della
Pubblica Istruzione che campeggia sugli striscioni viene scandito come un
mantra:
“MISASI, PIRLA, E’ORA DI FINIRLA!”.
Le finestre dell’ufficio dove lavora la mamma si affacciano
proprio su via Dante, io dovrei essere a scuola e spero che non mi veda.
Lei probabilmente osserva con apprensione quella moltitudine
variopinta e vitale e spera, come sempre, che la polizia non sfoderi i
manganelli.
Il corteo è autorizzato e composto, ma capita spesso che i
poliziotti (chissà se più per paura o per cattiveria gratuita) malmenino qualche
studente solo un poco più chiassoso
degli altri.
Ma noi camminiamo con passo sicuro, ci sentiamo uniti dagli
ideali, siamo parte di un tutto, siamo quelli che hanno le tasche piene di verità
e vogliamo cambiare il mondo”.
Il mondo, beffardo, ci aspetta paziente dietro qualche
angolo: sarà lui a cambiare tutti noi.